Ecco le premesse di vicolo del cinque:


una critica dei millenarismi e delle teorie della fine
per una cultura priva di cesure temporali


una critica del colonialismo culturale
per una cultura comparata e policentrica


una critica dello sterile settorialismo del sapere cattedratico
per un incontro prolifico e vitale tra discipline e saperi


una critica della chiusura elitaria delle forme espressive
per il rispetto del pubblico


una critica del collagismo privo di identità
per l'incremento delle inesauribili potenzialità delle espressioni umane


una critica del disimpegno nichilista
per una nuova azione intellettuale





In quest'ultimo decennio si sono succeduti eventi che hanno indotto a considerare chiuso un periodo storico. E' innegabile che un senso di smarrimento ha pervaso, in un modo o nell'altro, ciascuno di noi. La nostra è un'era di alta spettacolarizzazione degli avvenimenti; la suggestione è forte, ma resta tale. Con solenne ritualità si celebrano e si condannano eventi e personaggi dei quali, il giorno dopo, non resta niente, quasi che, in assenza di analisi, la vita sia solo un susseguirsi di colpi di scena.


In tale situazione risulta difficile orientarsi; si sono formate, infatti, le più singolari linee di pensiero. Alcune potremmo definirle radical-nostalgiche, essenzialmente animate dal timore di chi non comprende le trasformazioni in corso e si ritira in una nicchia ideologica o di costume resistendo a quanto di buono ogni epoca porta in sè. Altre sono ossessionate dall'idea della produttività, dalla lettura economica della realtà come unico parametro necessario a soddisfare i bisogni dell'uomo. Altre ancora rifiutano la tendenza alla sterile omologazione culturale reagendo con narcisismi o spinte campanilistiche identificative ma ugualmente sterili.


Spesso ne consegue che le teorie dei più svariati campi di applicazione del pensiero umano, più o meno specifici, vanno felicemente cantando la propria fine, come ultima astrazione possibile, come extrema ratio pur di creare qualcosa di originale. E' finita l'arte, anzi è morta, forse per prima, e sono finiti gli artisti, che giustamente non vogliono avere nulla a che fare con un cadavere; è finita la fisica teorica, con l'esaurirsi dei nomi concepibili per le particelle elementari, e sono finiti i fisici, ora tutti ingegneri dell'infinitamente piccolo; è finita la letteratura, dopo aver fatto a meno della trama, della punteggiatura, dei nomi, delle singole lettere, delle parole, della sintassi, dei personaggi, della carta, e sono finiti i letterati, che dallo scorso secolo hanno smesso di definirsi tali; è finita la scienza, dopo aver scoperto che non ha metodo nelle sue scoperte, e gli scienziati, che hanno preferito l'applicazione pratica non diretta da una teoria che una teoria capace di dirigere la loro pratica; è finita la politica e sono finiti i politici, e non si sa neanche cosa siano diventati; è finita la filosofia, dopo aver pensato tutto il pensabile, e sono finiti i filosofi, che trovano più comodo negare quel passato che altrimenti dovrebbero studiare a fondo. E tutto ciò con l'intento, da parte di chi non vuole sforzarsi di creare una continuità, di distinguersi, essere originali, scrollandosi di dosso l'eredità di un Novecento divenuto vecchio per "partito preso". Prima di buttare via qualcosa, andrebbe controllato se non si rischi di gettare insieme alla spazzatura anche qualcosa di prezioso. E' possibile che tra polvere e frammenti, nascosti ma non inaccessibili, siano rimasti i veri tesori di un intero secolo trascorso. E' facile dichiarare che tutto è finito e fare finta di cominciare da zero. Più difficile è confrontarsi con una eredità maltrattata e misconosciuta, e fare in modo che da essa nasca ancora qualcosa di sensato. Alla staticità della contemplazione delle macerie prospettata da tutte quelle scuole di pensiero che desiderano alle loro spalle le rovine e davanti a sé semplicemente nulla, preferiamo chinarci a cercare tra quelle macerie se non sia rimasto qualcosa di utile a riempire, con un rinnovato atto creativo, se non tutto il secolo che abbiamo davanti, per lo meno quanto basta a legarlo al precedente. Questo è ciò che propone
vicolo del cinque.


Forse il Novecento ha ancora qualcosa da regalarci, qualcosa di cui non ci siamo neanche accorti; si deve approfittarne prima che vinca l'ignorante passatempo di chi, all'ombra degli stendardi del "neo" e del "post", vuole permettere soltanto la costruzione di un desolante futuro di reiterazioni, ecolalie, frustrazioni, da accogliere con l'ebete sorriso dell'anestetizzato. Invece di questo individuo che si vede tolta la possibilità di crearsi un presente prima ancora che gliene venga in mente uno, occorrono soggetti intellettuali responsabili di ciò che è già accaduto e disposti a ripensarlo creativamente; per evitare di costruire una storia della cultura le cui fondamenta siano o inesistenti o i ruderi inutilizzati di quelle precedenti.


LA REDAZIONE