Your browser doesn't support java or java is not enabled!

 

Articolo comparso sul Gazzettino di Giarre del 24 Aprile 1998 col titolo:

Giarre: nel cuore del centro storico

 

Il 1860, anno cui è stato concordemente dato dagli studiosi di varia tendenza e formazione il valore di spartiacque storico, avrebbe dovuto segnare per la Sicilia il momento buono per voltare pagina con il proprio passato, nella speranza, poi tradita dai fatti, che un nuovo rapporto tra amministratori ed amministrati potesse liberare l'Isola dalla condizione di umiliante arretratezza a cui l'avevano condannata i governi preunitari  asserviti alla monarchia borbonica. "Si stava meglio quando si stava peggio" è l'adagio cui si è fatto spesso, e a buon diritto, ricorso per sfatare falsificazioni e luoghi comuni, perchè in effetti l'estensione alla Sicilia della legislazione piemontese, modellata sull'esempio napoleonico, non apportò i benefici sperati.
La borghesia giarrese, che aveva salutato con entusiasmo lo sbarco di Marsala prodigandosi in tutti i modi per non far venir meno il proprio sostegno in denaro e vettovaglie alla spedizione, attende di conoscere il nuovo regime fiscale prima di impiegare convenientemente le proprie riserve economiche in pezzi d'oro e d'argento, che non sono da confondere con la liquidità finanziaria che nel particolare frangente storico era prossima a zero.
Intorno al 1865, Sebastiano Fichera, che occupa lo scanno più alto in seno al rifondato Consiglio Civico (fu sindaco dal 1863 al 1865) e che vanta discendenza con una famiglia di facoltosi proprietari e professionisti (un tal Don Santoro Fichera, notabile ma non nobile, dovrebbe essere stato un suo parente), vuole "inaugurare" il nuovo catasto - riorganizzato ed aggiornato da solerti funzionari - con una propria costruzione che, per la sua centralità, proporzione e simmetria, simboleggi il nuovo corso socio-politico e - perchè no? - una nuova cultura urbana. Mette quindi in moto una possente macchina architettonica che sembra voglia, nell'edificio di Piazza Duomo 228, se non in tutto almeno in parte, tradurre in pratica quanto qualche decennio prima Eugène E. Viollet-le-Duc aveva affermato (Diz. di Architettura illustrato di T. Gnone, S.E.I. Torino, ristampa 1972, pag.19): "Fate entrare un uomo in una cripta bassa, vasta, sostenuta da numerosi pilastri, corti grevi; sebbene egli possa passeggiare e respirare liberamente, abbasserà la testa e nel suo spirito non sorgeranno che idee tristi, immagini cupe. Fate entrare quest'uomo in una costruzione le cui volte si elevano ad una grande altezza, inondata d'aria e di luce, egli innalzerà i suoi sguardi, la sua figura stessa rifletterà le idee di maestà che si addensano nel suo cuore".
Manca in questa definizione (tale è essa nella sostanza) soltanto il riferimento alla orizzontalità conclamata del prospetto del nostro edificio, nel cui piano nobile, delimitato in basso da una fascia decorativa, si contano sei aperture di luce architravate ospitate da altrettanti balconi con ringhiera tutti delle stesse dimensioni, mentre la balconata centrale, sorretta dalle due colonne scanalate che fiancheggiano il portone d'ingresso, accoglie in corrispondenza del salone di rappresentanza un portale degno della migliore tradizione architettonica, ma anche simbolo esteriore di un'epocale ideologia borghese che non si risparmiava di fare avvertire il peso delle sociali differenze. Al centro della ricca modanatura di paramento ornamentale, poco al di sotto dell'esteso cornicione, avrebbe dovuto trovar posto lo stemma di famiglia. Obliterazione sopravvenuta o accidentale distacco? C'è poi la "meraviglia" del cantonale in pietra bianca intagliata, in cui gusto si coniuga a capacità tecnica.
Nel 1880, nell'ambito di un vasto programma dell'Amministrazione Municipale studiato per livellare tutte le strade del centro (con i proprietari furono liti a non finire), si dovette superare un problema di dislivello della via Sciuti (già via Flavetta) che delimitava a sud il palazzo, larga appena per far passare un carretto. La dimora, a fine secolo, non era stata ancora esternamente del tutto rifinita, come si osserva in qualche rara foto di quel periodo contrassegnato, tra l'altro, da una grave crisi economica ed occupazionale, con una agricoltura arretrata ed un capitale finanziario che si era spostato al Nord.
Il cambio di proprietà della monumentale - ma non spropositata - opera edilizio-architettonica dagli eredi dei coniugi Fichera-Tomarchio (i figli Giuseppe, Giovanni e Sebastiano) ai Di Mauro avviene quando una famiglia leader del pianeta politico-finanziario ed industriale giarrese, quella che fa capo, appunto, ai milionari Di Mauro (così veniva allora apostrofata la classe degli straricchi), si è già resa, ormai da lustri, artefice dell'illuminazione cittadina a mezzo di lampade ad incandescenza (ad arco) , un evento questo che rimase a lungo impresso nella mente dei Giarresi, che non andarono a dormire quella notte in cui si accesero  simultaneamente le luci di piazza Duomo, via Callipoli, via Archimede (oggi Corso Italia) e traverse adiacenti.
L'avveniristico, per allora, progetto era stato definitivamente approvato nel 1907 dalla Giunta al potere, superando innumerevoli intoppi di ordine burocratico e le solite manovre sottobanco. E pensare che ancora nel 1904 (Giarre centro contava 10000 anime) per 120 notti di luce lunare non si aveva nessuna illuminazione.
Nello specifico, il primo piano lato sud del palazzo viene venduto da Sebastiano Fichera, assieme a varie botteghe di via Sciuti e terreno prospicente in via Carolina, a Giuseppe Di Mauro nel 1934, il quale nel 1948 diviene proprietario anche del secondo piano già di proprietà di Giuseppe Fichera e poi ceduto ad altri; il pianterreno ed il primo piano lato nord, dagli eredi ed aventi causa da Giovanni Fichera, vengono acquistati nel 1952 da Rosario Di Mauro.

 

 

Your browser doesn't support java or java is not enabled!