Note su scienze e senso comune: problemi di piani
Enrico Castelli Gattinara
"Anche gli intellettuali parlano soltanto di cose comuni, volgari,
e dimostrano che il livello della loro intelligenza
non è superiore a quello a cui arrivano le classi meno colte"
(A.Checov)
Che rapporto c'è fra la scienza e il mondo?
La banalità di una simile domanda dovrebbe renderla inutile: la scienza
esiste per spiegare, capire, interpretare e manipolare il mondo. Eppure
la faccenda non è così semplice, e lo scopo della filosofia
delle scienze è quello di fornire una risposta plausibile a questo
tormento esistenziale di molti scienziati... per non parlare di tanta gente
colta o degli studenti che cominciano a studiare le teorie astratte delle
discipline scientifiche scelte come corso di laurea all'università.
La domanda che sorge spontanea alla matricola, di fronte a un corso di analisi
matematica o di fisica teorica - per restare a un esempio molto comune -
riguarda proprio il "rapporto" con la "realtà"
e col mondo. Oppure, nella sua traduzione volgare: "a che serve?".
Domande tipiche del senso comune. Anche perché la scienza è
piuttosto una molteplicità di scienze che non si trovano certo tutte
sullo stesso piano, e il mondo... non è facile definirlo in modo
uniforme.
La difficoltà maggiore - ma non la sola - riguarda il problema
del linguaggio. Che rapporti ci sono fra il linguaggio scientifico e il
mondo? Il che vuol dire: che rapporti ci sono fra i linguaggi specialistici
delle scienze e quelli comuni? La loro differenza è una differenza
di grado o di natura? E le contaminazioni reciproche sono solo superficiali
e apparenti, oppure sostanziali?
Senso comune e scienza s'incontrano nel linguaggio, ma per il linguaggio
anche si dividono. E non si tratta soltanto di una questione semantica,
perché nel linguaggio stesso c'è controllo e potere. Spesso
l'efficacia di un determinato linguaggio specialistico viene sopraffatta
dal potere selettivo che tale linguaggio permette, visto che chi lo conosce
e lo usa detiene il potere del sapere che manifesta per suo tramite.
Il rapporto fra la scienza e il senso comune è sempre stato un rapporto tormentato in questo nostro secolo, vuoi perché si è cercato di vedere l'una come l'evoluzione più o meno raffinata dell'altro, vuoi perché si è escluso ogni rapporto fra i due. I problemi nascono perché la costituzione del senso dei termini non è affatto evidente e più volte si è assistito e si assiste a un disaccordo di fondo su ciò che si deve intendere per senso comune o per scienza. E non si creda che dei due, sia il primo a presentare maggiori difficoltà.
Lo statuto di scientificità che si è attribuito alla scienza è sempre stato nel tempo piuttosto fluttuante ed è quasi impossibile fornire una definizione rigorosa e costante di ciò che una scienza dev'essere per essere scienza. O meglio, di definizioni del genere ne sono state date parecchie, e non sempre in accordo fra loro. In questo modo si cercava di definire il senso comune "interno" alla scienza, vale a dire metodi e procedure in "comune" per tutte le scienze. E per questo si stabiliva quali forme del sapere potevano appartenere alla Scienza e quali no: il senso comune (della scienza) definiva così un insieme di criteri di appartenenza.
L'esempio più clamoroso del rapporto fra scienza e senso comune è abitualmente considerato quello del conflitto fra il sistema eliocentrico e il sistema geocentrico: per il senso comune è il sole a muoversi intorno alla terra, per la scienza è l'inverso. Ciò non toglie che persino il più illustre degli astronomi usi abitualmente, parlando con gli amici, i verbi "tramontare" e "sorgere". E il fatto che sia la terra a girare intorno al sole è ormai anch'esso patrimonio indiscusso del senso comune.
Il senso comune è il nostro abituale rapporto col mondo, anzi
è il nostro mondo. E' il comune sentire le cose così come
ci appaiono in prima istanza, già comprese in un ambito mentale e
culturale che ce le fa percepire e comprendere proprio così. Il sole
gira intorno alla terra. Lo vediamo fare così. E' lui a muoversi
nel cielo. Siamo abituati al nostro punto di vista. Per questo è
tanto difficile pensare che siamo noi a muoverci, e che invece il sole se
ne sta fermo nel cielo... quando poi, studiando per bene le cose, non è
neppure così, perché anche il sole si muove a modo suo. Ma
il movimento che vediamo nel cielo è dovuto alla reale rotazione
della terra: il sole non tramonta o sorge attivamente, perché è
la terra che ruotando lo fa apparire da una parte e scomparire dall'altra.
Per questo si dice che il movimento del sole è un movimento "apparente".
Allo stesso modo, chi non ha vissuto almeno una volta la sensazione di esser
partito col proprio treno dalla stazione solo per il fatto di vedere muoversi
il treno che era subito a fianco, per poi restare deluso quando, scomparso
il treno vicino, ci si accorge di essere ancora immobili alla stazione perché
le pensiline e i binari stanno ben fermi al loro posto? Se ne potrebbe concludere
che restiamo sostanzialmente tolemaici nelle nostre esperienze comuni. Il
movimento apparente non corrisponde al movimento reale. La scienza trionfa
quando con esperienze o ragionamenti alternativi riesce a dimostrare che
le conclusioni tratte da un'esperienza primitiva sono errate: il nostro
treno è ancora alla stazione. La seconda esperienza scalza la prima
convinzione. Ma il senso comune è più sul piano dell'apparenza
o su quello della realtà?
L'esempio del treno è un esempio curioso, perché rappresenta
in qualche modo un'esperienza opposta a quella del sole. Nel caso del sole,
siamo talmente abituati a considerare ferma la terra (per cui la chiamiamo
anche terraferma rispetto al mare) che appena vediamo qualcosa muoversi
per il cielo non possiamo pensare che quel movimento non sia agito dal corpo
che vediamo lassù (uccello, nuvola, luna, astro, ecc.). E' una questione
di abitudine, un automatismo psichico, una specie di conoscenza di base
su cui alcuni psicologi stanno concentrando l'attenzione. Nel caso del treno,
grazie allo stesso automatismo, accade esattamente il contrario: siamo talmente
abituati a veder scorrere via le cose vicine quando il nostro treno è
appena partito, soprattutto quando ci aspettiamo di partire o lo desideriamo
fortemente a causa, per esempio, di un ritardo, che appena vediamo qualcosa
(l'altro treno) scorrere accanto pensiamo subito che ci stiamo muovendo
noi.
Siamo quindi tolemaici in modo strano, e solo per abitudine situazionale:
all'aria aperta ci consideriamo infatti punti fissi, ben saldi al nostro
posto, quindi ogni cosa che si muove davanti a noi lo fa per suo movimento
spontaneo. Cambiamo radicalmente però quando ci troviamo in un'altra
situazione, chiusi dentro un treno, ad esempio, perché appena vediamo
muoversi qualcosa subito "sentiamo" che siamo noi, col nostro
treno, ad esser partiti
D'altra parte è arcinoto che il movimento apparente, come molte altre
cose che cadono sotto i nostri sensi, dipendono prepotentemente da abitudini
e aspettative (tutti i prestigiatori, in casi contrario, resterebbero disoccupati,
e i maghi avrebbero ben poco successo). Il senso comune appartiene a quest'ambito,
perché raccoglie l'insieme di quanto viene acriticamente accettato?
E' il senso dell'apparenza, della prima impressione, della deduzione istantanea
e istintiva? E' il senso dell'indiscusso?
Eppure è anche la regola. Infatti non c'è nulla di più
difficile che fargli cambiare opinione. Galileo lo sapeva talmente bene
che ha cercato, con le sue opere, di far diventare le proprie dottrine patrimonio
del senso comune. E ha scritto strategicamente in italiano, lasciando ai
dotti il latino: moderno lo fu soprattutto per questo. Perché, come
Cartesio, sapeva che il primo passo da compiere per affermare un nuovo modo
di pensare era quello di stabilire regole nuove. E con le regole nuove,
nuovi interlocutori e un nuovo modo di parlare. Un nuovo modo di fare e
di pensare, per generare un nuovo senso comune (quindi quella che Th. Kuhn
ha definito la "scienza normale" non è altro che il senso
comune scientifico di un'epoca dominata da un determinato "paradigma").
Ma il senso comune ha avuto innumerevoli definizioni, e lo si è
cercato di riconoscere dagli strati più superficiali del sapere approssimativo
più diffuso fino ai sedimenti più profondi dei nostri "meccanismi"
razionali o cognitivi. Si è cercato di dargli un'identità,
di dimostrare che si fonda sul ragionamento causale o su quello analogico,
che è il fondamento della vera morale o che è il prodotto
del "buon senso", ecc. senza mai giungere a un risultato decisivo
e condivisibile (comune, appunto).
Il senso comune, scriveva per esempio K.Popper, ha un'istintiva tendenza
al ragionamento causale e deterministico: ogni evento è causato da
un evento che lo precede. E' questa la forma "naturale" che nasce
nei bambini, in tutti i bambini, quando verso i tre anni attraversano la
fase dei "perché?". La risposta a un perché è
sempre una spiegazione. Per il senso comune la spiegazione è inevitabilmente
un ragionamento causale. E lo è anche nell'ambito del sillogismo
elementare, quello della forma "se... allora". Il se rappresenta
la causa dell'allora, che ne è la diretta conseguenza: se non cerchi,
allora non trovi. O ancora: X è stato premiato perché ha fatto
una bella prova. Il premio (effetto) segue la bella prova (causa).
Senonché Popper aggiungeva che il senso comune attribuisce alle persone
la capacità di scegliere liberamente la propria condotta fra le molte
possibili e fra loro distinte. Anche questo è "evidente",
perché fa parte della nostra esperienza quotidiana (l'evidenza sarebbe
una delle caratteristiche del senso comune). Ma è in aperto contrasto
con quanto precede. Infatti, o vige il principio deterministico del nesso
causale fra gli eventi, o vige il principio della libertà di scelta,
che poi sfocia nel caso e nell'imprevedibile. Anche di questo dilemma si
occupano generalmente i filosofi.
Il senso comune, di solito, se ne preoccupa ben poco e ci convive benissimo.
Non ha dubbi, per esempio, sul corso del tempo, ed è certo che molte
cose cambino col passare degli anni o dei giorni. Ma è altrettanto
certo che, per altre cose, a certe cause seguiranno inevitabilmente certe
conseguenze. E' convinto che l'evoluzione della vita sia un fatto certo
e che il tempo rappresenti un vettore d'indeterminazione, per cui il futuro
non è mai uguale al passato, ma è anche convinto che, a parità
di condizioni, se si lascia cadere un sasso per terra ogni primo del mese,
l'esperienza si ripeterà invariata per secoli.
Sono banalità, certo, ma impongono il problema se abbia senso parlare
del senso comune, e se non occorra forse parlarne al plurale, come di una
cosa assai differenziata al suo interno.
Il senso comune è stato spesso il cruccio dei filosofi, e in particolar modo dei filosofi delle scienze. Questo per una ragione molto semplice, già posta da secoli alla filosofia: il modo di ragionare umano è omogeneo o non lo è? Le convinzioni conoscitive possono dividersi in opinioni, opinioni vere e verità, come suggeriva Platone? Lo stile del pensiero umano è sempre lo stesso, o è diverso secondo le circostanze che lo implicano? E se è diverso, questa differenziazione è graduale e continua, come ad esempio la potenza muscolare di un atleta fra l'inizio e la fine degli allenamenti, oppure è qualitativamente differente, e salta per così dire di "fase"?
Nel concreto, il problema che si è posto ai filosofi delle scienze
è stato ed è ancora oggi quello di capire se il ragionamento
di uno scienziato rigoroso durante il suo lavoro è dello stesso tipo
o è radicalmente diverso dal ragionamento di una persona comune.
E questo è un problema di una certa importanza, perché implica
una concezione della scienza assai diversa se si opta per l'una o l'altra
convinzione (anche se lascia in ombra il problema di considerare se il ragionamento
di uno scienziato di una certa disciplina sia lo stesso di quello di un'altra).
Chi infatti è convinto che la scienza adotti un tipo di ragionamento
del tutto diverso da quello del senso comune, rende i due mondi piuttosto
impermeabili fra loro. Il che permette alla scienza di ignorare, per esempio,
gli interessi che dominano i finanziamenti dei laboratori di ricerca. Chi
invece sostiene che le categorie fondamentali del pensiero sono dopotutto
le stesse, e che il modo di ragionare è sostanzialmente uguale perché
la differenza è solo una differenza di grado, implica un rapporto
molto più stretto fra il "discorso" scientifico e altre
forme di "discorso" (quella, appunto, di chi decide di finanziare
un certo laboratorio per un certo indirizzo di ricerche).
Il malinteso, dietro questa "querelle", sta nel fatto di intendere
il senso comune come qualcosa di omogeneo, come un'unità coerente
in grado di contrapporsi o di porsi sullo stesso piano delle forme ordinate
del sapere, siano queste scientifiche, religiose, politiche, ecc. Fra le
"dottrine" codificate, accademicamente e istituzionalmente accreditate
- che richiedono una formazione specifica in strutture controllate come
le università e le accademie - e il sapere comune, la differenza
è senz'altro profonda. Il sapere comune non è codificabile,
né controllabile. Non è neppure un "sapere" nel
senso proprio del termine. E' una molteplicità di saperi, una contaminazione
di forme più o meno diffuse di conoscenze dove arcaismi e novità
si mescolano nei modi più opportuni a sostenere i bisogni e le convinzioni
dei gruppi. Così il "senso comune". E' un senso senza confini
che si estende a qualsiasi cultura propria a un certo gruppo di appartenenza
(popolo): ma è un senso fatto di molteplici sensi, dove l'ingenuità
apparente si lega all'astuzia e dove la superficialità è funzionale
all'applicazione del senso stesso, cui non occorre interpretare in profondità
ciò che incontra e manipola.
Un filosofo cattolico ha scritto: "Un'esercitazione di laboratorio
è qualcosa che si differenzia dal sapere comune, ma il suo differenziarsi
non altera il senso comune anche nei riguardi dell'oggetto di esperimento,
perché il valore del senso comune trascende le dottrine [la dottrina
scientifica, in questo caso]. Il senso comune è un orientamento che
non riceve alcuna smentita dalla scienza di laboratorio. E' un demente chi
perde il senso comune; un ignorante chi lo svaluta."
Questo vuol dire che fra il senso comune e la scienza non c'è comunicazione,
o meglio che la comunicazione non incide la sostanza del sapere reciproco?
Oppure vuol dire, come pretendeva Duhem contro Einstein, che la scienza
non ha diritto (leggi: non deve avere il potere) di scalzare il senso comune,
perché deve sempre "salvare i fenomeni"? La critica di
Duhem, anche lui cattolico spesso intransigente, mira alla separazione netta
fra il piano delle scienze e quello del senso comune. L'accusa a Einstein
è fondata proprio su questo: "La nuova fisica non si è
accontentata di entrare in conflitto con le altre teorie fisiche e in particolare
con la meccanica razionale; la contraddizione col senso comune non l'ha
fatta retrocedere", sconvolgendo in tal modo la convinzione di "tutti"
("tous les hommes") sull'indipendenza fra la nozione di spazio
e quella di tempo ("è possibile mostrare [...] fino a che punto
[la relatività] [...] scuota le affermazioni più formali del
senso comune"). E Duhem conclude (si tratta di un'invettiva scritta
nel 1915 contro la scienza tedesca, La Science allemande): "Così
è fatta la fisica della relatività, così la scienza
tedesca procede fiera della sua rigidità algebrica, guardando con
disprezzo al buon senso che tutti gli uomini hano ricevuto". Perché
il buon senso si fonda sul senso comune.
La scienza, anche per Whitehead, nasce dietro lo stimolo del senso comune e deve sempre rifarvisi, nel senso che deve sempre render conto al senso comune delle sue esigenze. Nel momento in cui gli sforzi dell'astrazione portano una qualsiasi dottrina (a questo punto il ragionamento che vale per la scienza vale anche per ogni altra dottrina specialistica) a involversi nell'astrazione stessa, ignorando "tutto il resto", allora la dottrina diventerà sempre più insufficiente a trattare di "tutto il resto", e non risponderà più alle esigenze dell'esperienza. Per Whitehead il compito della filosofia consiste nella "critica" di questa tendenza all'astrazione involutiva, quindi a tenere sempre la dottrina aperta alle esigenze dell'esperienza. Ma l'esperienza fondamentale è quella del senso comune. Per esempio, nel XVIII secolo, il senso comune avrebbe agito come un "bagno purificatore" nei confronti dei problemi e delle idee del passato, dove dominavano ignoranza e intolleranza. Qui è evidente che Whitehead legge nel senso comune il buon senso. Eppure viene da chiedersi: ignoranza e intolleranza non erano "senso comune"?
Bachelard sostiene infatti che il ragionamento scientifico non deve nulla
al senso comune. Anzi, i problemi sollevati dal senso comune, i suoi vizi
intuitivi, sono sempre fuorvianti, perché la conoscenza scientifica
dev'esser sempre critica e sorvegliata. E' in questo senso che usa la psicanalisi
della conoscenza oggettiva (per eliminare gli ostacoli creati dalle nozioni
e dai concetti del passato, rimossi ma ancora inconsciamente operanti nella
ricerca): perché la conoscenza astratta fisico-matematica, sempre
sorvegliata, non venga contaminata dalla conoscenza intuitiva del senso
comune, per nulla sorvegliata e quasi mai astratta, quindi "da un punto
di vista scientifico" ignorante e intollerante. La differenza fra un'esperienza
del senso comune e un'esperienza scientifica consiste nel fatto che l'una
è semplicemente intuitiva, mentre l'altra è induttiva, motivata,
chiara e astratta. In altri termini, mentre l'esperienza comune non è
prevedibile, né regolabile da un insieme chiuso di regole, l'esperienza
scientifica è assolutamente regolata e chiusa in un sistema fisso
e determinato, di cui l'astrazione matematica rende conto nel suo linguaggio
"purificato".
A rigore, per Bachelard, come per altri epistemologi illustri del nostro
secolo, un'esperienza scientifica è tale solo nel momento in cui
entra a far parte di un gioco regolato e chiuso nella sua riproducibilità:
tutto ciò che ne esula non ha diritto di esser chiamato scientifico
(fu a questo proposito che Heidegger trasse la conclusione: la scienza non
pensa). Il che vuol dire che tutte le componenti relative alla "scoperta",
all'"invenzione" e alla "sorpresa" che condizionano
il trasformarsi (evolutivo?) delle scienze non è propriamente scientifico.
Ma così ciò che caratterizza la vivacità delle scienze,
la loro efficacia e la loro importanza nel mondo in cui viviamo viene estromesso
dalla discorsività scientifica.
Eppure il senso comune, registrando un livello certo superficiale, ma reale e presente del dibattito in proposito - eco anche di qualche secolo passato - ha acquisito le sue certezze: quando si dice scienza si sa bene a cosa ci si riferisce. La "scienza", al singolare, è una nozione su cui il senso comune ha pochi dubbi. L'aggettivo "scientifico" è una garanzia di rigore e di autorità, e il linguaggio pubblicitario ne fa un uso talmente sproporzionato che non è difficile incontrarlo nella presentazione di un detersivo, di un motore automobilistico o di una merendina per bambini. La scienza è un'autorità inequivocabile e insindacabile, così che il sapone "scientificamente testato" protegge con certezza il ph della pelle. Basta dirlo e basta crederlo. Con buona pace di tutti gli scettici, che in un modo o in un altro sono comunque costretti a comprarlo, e nella scelta sullo scaffale del supermercato - se hanno il tempo e vogliono cambiare marca - verranno confortati da quella scritta.
La pubblicità non fa altro dopotutto che estremizzare qualcosa che già esiste: un principio d'autorità. Il senso comune vi corrisponde come sempre senza discuterlo. E' in base a questo principio d'autorità che ognuno di noi, compresi gli scienziati e i ricercatori di laboratorio più affermati, credono alle verità scientifiche acquisite come tali. Sono come le verità di fede. Ci fidiamo dell'autorità di chi afferma che queste verità sono state riconosciute come tali in base a un certo procedimento razionale "scientifico" che, volendo, potremmo ripetere... se disponessimo degli strumenti adatti, delle conoscenze opportune e del tempo necessario. Senza questa fede la scienza non sopravviverebbe (per questo la frode scientifica è sempre in agguato, come tutte le frodi). E' banale. E' il buon senso, per cui crediamo che la terra giri intorno al sole. Senza questo buon senso non ci sarebbe scienza.
Resta intatta la questione sorta agli inizi del secolo: il pensiero scientifico è o non è un prolungamento del pensiero comune? Rispondere vuol dire operare una scelta: considerare il pensiero un insieme per lo più isolato, unitario e gerarchicamente ordinato, o considerarlo una molteplicità i cui fattori e le cui dimensioni sono fra loro incommensurabili. Oppure né l'una né l'altra cosa? I sociologi della scienza hanno mostrato come sia possibile svolgere un'indagine socio-antropologica sulla "tribù" di un laboratorio di chimica con la stessa cura e gli stessi strumenti teorici (in parte con la stessa impostazione) che si adottano generalmente per le tribù indigene di culture lontane. E da queste ricerche, per quanto opinabili e parziali possano essere, è emersa incontrovertibile la conferma che il mondo reale della scienza, con tutto il suo sapere e il suo pensiero, non è un mondo separato, puro omogeneo e incolume dalle contaminazioni della vita materiale quotidiana (rapporti di potere interni ed esterni, psicologia individuale e collettiva, condizioni economiche, dimensioni estetiche, ecc.). Questo ormai è banale. Ma il banale cela in sé l'essenziale. Se il mondo reale della scienza, il mondo dei laboratori, degli istituti e delle università non è diverso qualitativamente dal resto del mondo comune, con le sue miserie e le sue nobiltà, con le sue differenze specifiche e le sue similarità, in che modo sarebbe possibile isolare il pensiero scientifico dalle altre forme del pensiero? Il sapere scientifico non corrisponde al sapere comune. Ma la differenza è una semplice differenza come quella fra il sapere musicale e il sapere falegname, o è una differenza eccezionale, che innalza una forma del sapere sull'altra generando un rapporto di potere? E quale forma di potere entra in gioco quando il linguaggio della pubblicità rende alcune genericità scientifiche ed epistemologiche un patrimonio della cultura di massa? E' una ricaduta del sistema di potere che le élites scientifiche esercitano sulle forme più elementari della cultura, o non è piuttosto un certo potere economico-commerciale che si (ri)appropria di un linguaggio, di un sapere e di un patrimonio che ha prodotto (o ha contribuito a produrre)? Quello che qui è in gioco, non è tanto che le equazioni differenziali siano o meno uno strumento antropologicamente interpretabile (perché non avrebbe senso, visto che tali equazioni non "esistono" di per sé, ma solo in quanto "utilizzabili" per questo o quello, per l'astratto e il concreto), quanto riconoscere nel sapere scientifico una molteplicità differenziata al suo interno, in cui sapere e potere s'intrecciano a tutti gli altri fattori che caratterizzano la vita del mondo e della gente. Questa molteplicità può essere "studiata" isolandone certi elementi. Non è questo il problema. Ma ha senso isolarne alcuni per disporli gerarchicamente più in alto degli altri (ecco il problema del valore e del potere)?
Se ha senso, lo ha per motivi che esulano dall'ambito tradizionalmente riservato alla "scienza", che in proposito non ha altra nobiltà che la sua storia. Le scelte teoriche, come le scelte pratiche, sono dettate da un insieme (molteplicità) di fattori che includono anche gli strumenti specifici a disposizione, ma non si riducono assolutamente ad essi. E allora, quello che Poincaré ha chiamato "il valore della scienza" è il medesimo valore di ogni altra forma di sapere inclusa nella molteplicità in cui opera. La scienza "pura" è un gioco come un altro. C'è un bel brano di P.K.Feyerabend che va proprio in questa direzione: nessuno "ha mostrato che la scienza è meglio della stregoneria e che la scienza procede in maniera razionale. Il gusto, non l'argomentazione, guida le nostre scelte scientifiche; il gusto, non l'argomentazione, ci fa compiere determinate mosse all'interno della scienza [...]. Non c'è motivo di farsi deprimere da una considerazione del genere. La scienza, dopotutto, è la nostra creatura, non la nostra sovrana; ergo, dovrebbe essere la schiava dei nostri capricci, non la tiranna dei nostri desideri" (I.Lakatos, P.K.Feyerabend, Sull'orlo della scienza, tr.it. Cortina, Milano, 1996, p.169).
Torna qui prepotente il linguaggio del "senso comune". Non
si tratta infatti di rendere "comune" il linguaggio di questa
o quella scienza, come fa la volgarizzazione, perché per operare
all'interno di un certo ambito del sapere è più efficace l'uso
di un linguaggio codificato piuttosto che l'uso di un linguaggio "comune"
(e questo succede tanto per la fisica nucleare quanto per un fabbricante
di biciclette). Con tutti i rischi che questo comporta, il linguaggio specialistico
ha "senso" in funzione del ruolo che è chiamato a svolgere,
né più, né meno. Anche se ciò comporta di fatto
l'introduzione di una serie di rapporti di potere, per cui i detentori di
un certo sapere-linguaggio controllano le istituzioni di formazione che
permettono ai nuovi adepti di impararlo, e quindi di entrare negli ambienti
dove tale linguaggio è operativo. E' il potere di ogni gergo: per
appartenere e operare in un certo gruppo (gang di quartiere, villaggio o
laboratorio) occorre averne acquisito il sapere specifico e il relativo
linguaggio. Per questo all'interno di gruppi circoscritti una certa forma
di linguaggio (il black english tanto quanto nomi e formule chimiche) diventa
"comune". Volgarizzare significa "tradurre", e si sa
che ogni traduttore è un traditore, perché ciò che
è comune in un gruppo può non aver senso per un altro. Il
"senso comune" è il senso di una comunità.
C'è tuttavia un sapere e un bagaglio di esperienze per così
dire diffusi su cui l'accordo fra più individui e più gruppi
è di massima sempre possibile: è il più comunemente
inteso "senso comune", sul quale per esempio si fondano buona
parte dei precetti etici e morali. Affermare che la scienza è una
nostra creatura e non la nostra sovrana, e che quindi sarebbe assurdo farcene
tiranneggiare, è un affermazione che si fonda sulle convinzioni del
senso comune occidentale, liberale e democratico caratteristico del XX secolo,
e tipico soprattutto della seconda metà di esso.
Perché il senso comune appartiene a una storia: ha senso per la sua storia, e per la storia su cui si fonda. Non esistono comunità senza storia, perché non esistono comunità senza linguaggio. Il senso comune è in qualche modo l'accordo storico che la comunità istituisce in un linguaggio: è il sapere condiviso. Non è mai il sapere approfondito. Non è mai la specializzazione. Non è mai locale e particolare. Le affermazioni che genera sono quindi generali, persino generiche, ed è per questo che suscitano l'accordo immediato della comunità (e generano il "buon senso").
Di qui il conflitto che spesso sorge fra lo sviluppo di un sapere o un comportamento "locali" (nell'arte, nella società, nella scienza, ecc.) e il senso comune. La sua storia è intessuta di tali conflitti; meglio, vive di questi conflitti. Perché il senso comune è per natura conservatore e statico, ma per il fatto di essere immanentemente storico deve cambiare, e per cambiare deve avere qualcosa che lo faccia muovere. Ciò che lo muove è il conflitto col particolare, che gli diventa estraneo, "esteriore" (senza che l'uno sia più forte dell'altro; senza dare più valore alla superficie o alla profondità, a questo o a quello). E' per questo che se un sapere, un comportamento o una mentalità diventano "comuni" in un certo ambito (certi scienziati, per esempio), le affermazioni che un filosofo (Feyerabend) gli contrappone traendole dal "senso comune" (non scientifico) creano un conflitto e "attaccano" da "fuori", come se si trattasse di un particolare esteriore.
E' uno schema assai semplificato dell'eterno conflitto che la filosofia si è sempre trovata davanti e di cui ha spesso cercato di rendere ragione (dal polemos di Eraclito alla differenza ontologica di Heidegger). Non per questo bisogna intendere i termini del conflitto come implicanti la sussistenza di istanze, per esempio ciò che chiamiamo qui il "senso comune", come qualcosa di unitario, quasi si trattasse di un'area omogenea. Sono piuttosto dei "funtori", delle "forze" che creano delle situazioni complesse, per cui è possibile che da una condizione molto locale e particolare s'imponga un senso comune dotato di un potere eccezionale (è il caso che viene dimostrato dalla storia delle scienze), capace di scalzare il senso comune alternativo (il Big Bang contro Dio, ma anche il Dio del monoteismo cristiano contro il pantheon greco-romano). Questo apre a un ulteriore problema: quando si parla di senso comune, si deve intendere una forza unica, un'area in qualche modo omogenea anche se dai confini indeterminati, o non bisogna piuttosto intendere una molteplicità di forze e di aree? Il senso comune è sempre uguale, o non ci sono anche tanti sensi comuni quante sono le comunità possibili e le loro combinazioni storiche?
Il banale è un universale circostanziato, mai assoluto. Le nozioni del senso comune, quelle che appartengono più profondamente alla vita quotidiana, quelle su cui è facile l'accordo di tutti e che spesso fondano il "buon senso", non sono indipendenti dai saperi particolari. Sono un'altra faccia del particolare. Il sapere specifico di una certa scienza deve riferirsi a un sapere comune già acquisito, a un linguaggio comune (anche se solo in parte) e a un bagaglio di esperienze comuni, altrimenti sarebbe impossibile fare scienza. Del banale non si discute, né ha senso creare una "scienza" o un linguaggio completamente ex-novo (tutti quelli che ci hanno provato hanno fallito). Il banale (il senso comune) è l'indiscusso da cui prendono le mosse le discussioni possibili. Quando poi la discussione possibile diventa reale e in certi casi mette in discussione ciò che ha a monte e che l'ha resa possibile, ossia l'indiscusso da cui aveva preso le mosse, allora il sapere (quel sapere particolare in quella specifica forma) entra in movimento, e questo movimento crea nuove esperienze e nuove conoscenze che sostituiranno le vecchie diventando a loro volta banali: "la terra gira intorno al sole". Per questo è tanto difficile fare un quadro del senso comune, come è difficile osservare la terra su cui poggiamo i piedi. Per guardarla dovremmo alzarli... trovando un altro punto d'appoggio, e così via di seguito.
Il senso comune non è semplice. Tanto più che cambia quanto il sapere specialistico, benché con ritmi e modi diversi. E' un piano del sapere ricchissimo di articolazioni, il cui aspetto statico e omogeneo è solo apparente: impossibile tracciarne una mappa esaustiva. Impossibile definirne conclusivamente l'identità. Perché c'è un senso comune della scienza, come c'è un senso comune dello sport o della pasticceria sempre in gioco con le esperienze e le novità possibili. Non bisogna pensare che il senso comune sia solo quel bagaglio vago cui ci si riferisce quando si tratta superficialmente di un argomento qualsiasi; è invece un piano di riferimento per tutte le forme del sapere e dell'esperienza. Un proverbio può avere altrettanta "saggezza" di un trattato di filosofia.
Le singole scienze rispondono quindi sempre al senso comune che le rende possibili, e se ne possono differenziare più o meno a seconda delle novità che sono di volta in volta capaci di produrre. Sono piani che s'intersecano fra loro. Non c'è il piano della scienza, parallelo ma incommensurabile al piano del senso comune (o del sapere comune). Già parlare di "scienza" al singolare implica il sussistere di un piano comune a tutto ciò che viene detto scienza (la filosofia della scienza avrebbe proprio il compito d'individuare questo "comune", ma il disaccordo in proposito dimostra l'inanità di tali sforzi). Ci sono piani delle singole scienze che s'intersecano fra loro e con i piani di diversi sensi comuni: per questo l'illustre astrofisico contemporaneo, che conosce tutto sul movimento reale e apparente dei pianeti del sistema solare, non esita a usare verbi come "tramontare" o "sorgere". Scegliere di operare su un piano non deve voler dire che è l'unico piano possibile, né deve far illudere di essere esenti da intersezioni con gli altri piani: se ne può tener conto o meno, ma gli incroci sussistono ugualmente. Altrimenti si rischia di incorrere nella stessa situazione raccontata dal vecchio aneddoto su Talete, che viene deriso da una servetta tracia perché, camminando con la testa volta a scrutare il cielo (l'alto), non si era accorto del pozzo in cui poi miseramente cade (il basso). E chissà se la comune servetta ha avuto il buon senso di lasciarcelo dentro, o di tirarlo fuori?