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N.B. Il testo contiene degli errori d'ortografia dovuti alla scannerizzazione imperfetta del testo originale.

INTRODUZIONE:

Thomas Kuhn morto il 21 giugno del 1996 all'età di 73 anni aveva dedicato l'ultimo decennio della sua vita a una revisione e a una più chiara esplicitazione della posizione filo-sofica implicita, ma espressa con non poche ambiguità, nel suo capolavoro del 1962: La struttura delle rivoluzioni scientifiche, uno dei libri più influenti nell'epistemologia contemporanea. Egli non si perdonava di essere stato uno dei principali responsabili, insieme a Feyerabend, della diffusione di una visione relativisti ca della conoscenza umana e della stessa impresa scientifica, influenzando non solo storici e filosofi della scienza, ma economisti, sociologi, biologi, psicologi. Kuhn non esitava ad attribuirsene la colpa, ma intendeva prendere definitivamente le distanze da chi, partendo dalla sua teoria del cambiamento scientifico e dalla tesi dell'incommensurabilità secondo la quale i sostenitori di teorie scientifiche diverse, per esempio quella newtoniana e quella einsteiniana, parlano lingue e abitano mondi concettuali diversi e in parte intraducibili finiva col trarre conseguenze relativistiche, o persino irrazionalistiche e antiscientifiche. Nel suo ultimo intervento pubblico, di cui qui proponiamo il testo integrale, egli ripercorre in maniera assai chiara il proprio percorso intellettuale. Non rinnega, naturalmente, l'idea (ormai universalmente condivisa) secondo cui la "crescita della conoscenza", e i passaggi da un paradigma o da una teoria scientifica a un'altra, non avvengono quasi mai in modo lineare, ma procedono piuttosto per salti, cesure, rivoluzioni. E ci tiene anche a difendere l'idea dell'incommensurabilità. Ma, confrontandosi con filosofi come Quine e Davidson, cerca di costruire un apparato filosofico, di matrice kantiana, capace di mostrare che essa non conduce a posizioni relativiste o antirealiste. Queste tesi erano state discusse con Kuhn, pochi mesi prima di morire, nell'ottobre 1995, dai partecipanti di un convegno organizzato da Rema Rossini Favretti, Giorgio Sandri e Roberto Scazzieri (una linguista, un logico e un economista), che ora hanno raccolto i materiali nel volume In-commensurabUity and Transla-tion. Kuhnian Perspectìves on Scientìfic Communication and The-ory Change (ed. Edward Elgar, tei. +44.1242-226934, Email: In-fo@e-elgar.co.uk). All'incontro avevano partecipato filosofi della scienza, logici, economisti, linguisti, sociologi, tra cui E. Picardi, A. Wilks, J. Sinclair, S. Scalise, A. M. Petroni, S. Zamagni, T. Me Dennott, H. Halliday. Liberare Kuhn da alcune incrostazioni del suo stesso pensiero (denunciate anche da Alan Sokale Jean Bricmont in Imposture intellettuali, Garzanti) è un'impresa che giova moltissimo all'attuale dibattito sullo statuto delle conoscenze scientifiche. Proprio oggi, a questo proposito, si inaugura a Hannover, presso la Leibniz Hans dell'Università, una conferenza internazionale su Incommensurability (and Related Matters) che durerà fino al 16 giugno. E numerosi saggi dell'ultimo Kuhn saranno raccolti, a cura di Stefano Gattei, dall'editore Cortina in un volume in uscita nel prossimo autunno.

L'INTERVISTA:

di Thomas Kuhn

II mio primo incontro con l'incommensurabilità av-venne quando ero studen-te in fisica teorica e fui invita-to a tenere alcune conferenze su Galileo. Nel tentativo di scoprire il punto di vista dal quale era partito Galileo ben presto fui condotto alla fisica di Aristotele. Benché le sue opinioni di fisica apparissero tutte strane, generalmente riu-scivo a convincermi che la mia lettura del testo mi indicasse quali fossero. Qui e là, tuttavia, trovavo dei passi che per me non avevano senso. La mia difficoltà non era dovuta al fatto che quei passi anomali fossero più oscuri di altri. Non lo erano. Piuttosto non riuscivo a credere che una per-sona la cui intelligenza era universalmente riconosciuta potesse averli scritti. Più che oscuri sembravano assurdi. Continuai, tuttavia, a leggere Aristotele con una frustrazione crescente finché, un giorno me-morabile, non scorsi improvvisamente un disegno riconoscibile nei passi che mi parevano anomali. A un tratto, il testo acquistava un senso, ma solo se cambiavo modo di leggerlo, cambiando alcuni concetti - e il significato di alcune parole - che io, vivendo in un periodo molto più tardo, avevo por-tato con me nel testo. Il tentativo di scoprire ciò che Aristotele aveva pensato è stato il mio primo incontro con l'incommensurabilità. Successivamente ce ne sono stati al-tri, non solo in testi antichi ma anche in quelli più recenti di Planck e dì Bohr. Fin dall'inizio, esperienze di que-sto genere mi sembrarono ri-chiedere una spiegazione. Es-se segnalano una rottura tra i vecchi modi di pensare e quelli attuali, e tale rottura deve avere una rilevanza sia per la natura della conoscen-za sia per la direzione nella quale si può dire che essa proceda. Cambiai i miei pro-grammi di carriera pur di im-pegnarmi in queste questio-ni, ed esse mi portarono in breve ad affrontare il proble-ma della traduzione. Per alcuni anni, le mie opi-nioni in proposito sono state ambigue e talvolta contraddittorie. Da principio, ricono-scendo la somiglianza esisten-te tra l'esperienza che avevo avuto con Ari statele e quella del "traduttore radicale" di Quine con la comunità che egli studiava, tendevo a vedere la traduzione come un mo-do per risolvere l'incommen-surabilità. Nel capitolo che ho aggiunto alla seconda edi-zione della Struttura delle ri-voluzioni scientifiche, scrissi per esempio che "ciò che pos-sono fare coloro che si trova-no coinvolti in una interruzio-ne della comunicazione è riconoscersi gli uni e gli altri quali mèmbri di comunità linguistiche differenti e diventare quindi dei traduttori". Da allora, mi sono progressivamente re-so conto che la traduzione non può fare da ponte tra la lingua che una persona porta nella lettura di un testo del passato e i passi di quel testo che im-plicano termini incommensurabili. Se esiste un rimedio, de-ve essere di un altro tipo. La mia ricerca di quest' "altro tipo" di rimedio si è evoluta in quattro tappe. La prima è stata di dare il giu-sto rilievo a un punto che era stato presente fin dall'inizio ma spesso offuscato dalla mia retorica. L'incommensurabilità è sempre locale, ristretta a piccoli insiemi di termini interrelati, ordinariamente termini che devono essere imparati insieme. Per un lettore moderno della Fisica di Aristotele, i passi incommensurabili con-tengono spesso i termini kinesis e metabole, solitamente tradotti entrambi con "moto" sebbene segnalino una distinzio-ne cruciale per il pensiero di Aristotele. Un altro gruppo im-portante di termini contiene chora, topos e kenon, i primi due regolarmente tradotti con "spazio" sebbene quella fusio-ne porti a gravi fraintendimen-ti sia della definizione di luo-go data da Aristotele sia delle sue idee sul kenon, il vuoto. È soltanto quando questi termini o altri piccoli gruppi compaio-no nel testo che l'anomalia affiora. Altrove la traduzione può far uso di termini e di concetti moderni. Invero, se l'in-commensurabilità caratterizzas-se ampie parti del testo, l'ano-malia presente sarebbe ovunque e perciò irriconoscibile. Non ci sarebbe modo di costruire i ponti attraverso i quali l'anomalia è capita e trascesa. Una seconda tappa - di nuovo una questione di riposi-zionamento e rilievo piuttosto che di mutamento di idee - riguardava l'eliminazione cre-scente della metafora del "sal-to gestaltico" che avevo usato nella Struttura, e dei riferi-menti reiterati ai modi di "ve-dere". Venivano via via sosti-tuiti da un'accentuazione dei vincoli concettuali imposti dal-la lingua e dal modo in cui questi variano dall'uno all'al-tro. La conoscenza della natu-ra è incastonata nel linguag-gio e in esso proiettata. Due linguaggi sono incommensura-bili proprio laddove proietta-no la natura in maniere incompatibili. Per anni ho descritto me stesso come un whorfiano irredento, sebbene lamentassi la scarsità di prove a favore di questa posizione. La terza tappa è notevol-mente più recente. È segnata dall'utilizzazione di una distin-zione tra due processi che solitamente vengono fusi nella fi-losofìa del linguaggio, il pro-cesso di apprendimento di una lingua da un lato e quello di traduzione dall'altro. Parados-salmente, il traduttore radicale di Quine, che mi ha fatto cono-scere per primo la traduzione, non è affatto un traduttore ma qualcuno che apprende una lingua. E l'apprendimento del-le lingue produce degli indivi-dui bi o multilingui piuttosto che dei traduttori. Una neuro-logia comune e degli ambienti in parte coincidenti rendono estremamente probabile che chi parla una lingua umana possa, fatti i debiti sforzi, sem-pre impararne un'altra. Ma non è detto che ciò valga per la traduzione, come sanno tut-ti i traduttori e molte persone bilingui. Ci sono cose che si possono dire in una lingua, ma non si possono articolare in un'altra. Riconoscere questo punto mi ha via via conse-tito di temperare quegli aspetti del mio lavoro origi-nario che sembravano giustifi-care le accuse di relativismo. Non si da il caso che una proposizione vera in un linguag-gio (o entro un paradigma) possa essere falsa in un altro. Si da piuttosto il caso che una proposizione che può essere vera (o falsa) in un linguaggio non sia nemmeno formulabile in un altro. Non è il valore di verità ma l'effabilità che varia insieme al linguaggio. La quarta tappa è la più recente e segna il momento in cui mi sono sentito libero di iniziare un libro per dare un fondamento al punto di vista che ho delineato. Quel punto di vista ha richiesto, come punto di partenza, di aggirare la posizione di Davidson. Davidson riconosce come me che il traduttore radicale di Quine è di fatto colui che apprende una lingua e che ciò che ha imparato non può essere tradotto nel-la sua lingua originaria nella sua interezza. Ma Davidson, a differenza di me, suppone che una volta giunto a capire come i termini fino a quel punto in-traducibili funzionano nella lingua appena acquisita, egli possa arricchire la propria lin-gua madre aggiungendovi le parole mancanti. L'arricchi-mento eliminerebbe pertanto l'incommensurabilità. Ciò che ho detto preceden-temente indica che, se l'arric-chimento davidsoniano fosse possibile, la lingua arricchita proietterebbe due immagini in-compatibili delle stesse aree dello stesso mondo, una conse-guenza che metterebbe in pericolo la comunità che si trovasse ad usarla. Questo, secondo me, accade, ma per rendere plausibile la mia affer-mazione occorre dimostrare come una lingua può incorpo-rare la conoscenza della natu-ra. È questo il mio attuale progetto, ed è già a buon punto. Anche se non posso nem-meno tentare di riassumerne qui i risultati, attraverso un breve esempio posso forse suggerirne le implicazioni. Ho discusso altrove il modo in cui gli studiosi che sanno già come parlare di posizione, velocità e accelerazione, acqui-siscano il vocabolario concet-tuale aggiuntivo della fisica newtoniana, e in particolare ter-mini quali "massa" e "peso". Come ho indicato, ci sono strade diverse che possono es-sere attraversate dal processo di apprendimento, ma tutte ri-chiedono che si postuli la vali-dità di una o più generalizza-zioni universali solitamente chiamate leggi di natura. "For-za" e "massa", per esempio, possono essere apprese insie-me postulando la terza legge di Newton insieme alla secon-da oppure insieme alla legge della gravita. (Entrambi i ter-mini ricorrono nelle ultime due leggi; dopo che le due sono state apprese postulan-do una di esse, la terza legge può essere scoperta attraver-so l'osservazione). Il concetto di "peso" può allora essere introdotto come una forza, e la sperimentazione può porta-re alla scoperta della legge di Hooke. Alternativamente, si può cominciare postulan-do la legge di Hooke e la terza legge di Newton e fare la strada in senso inverso. Ai nostri fini, non hanno importanza i particolari di que-sto percorso. Quello che è cru-ciale, tuttavia, è che l'acquisi-zione di un vocabolario con-cettuale esige che si dia ad alcune leggi di natura un ruo-lo definitorio che renda il loro status cognitivo simile a quello dell'a priori sintetico di Kant. Via via che si scopro-no altre leggi con l'aiuto di quelle inizialmente postulate, anche queste ereditano quello status cognitivo. Seb-bene nessuna possa esistere in assenza dell'esperienza (per un a priori sintetico piut-tosto che solo un a priori tout court), il loro contenuto esperienziale e definitorio risulta congiunto in modo indistricabile. Sono le leggi che entra-no o potrebbero entrare in questa guisa nel processo di acquisizione del linguaggio nel mondo, quelle che il lin-guaggio proietta sul mondo. Aristotele e i suoi succes-sori facevano anche ge-neralizzazioni univer-sali sulla materia e sul moto, e nel farlo usavano concetti di forza, quantità di materia e peso. Come nel caso newtonia-no, l'acquisizione di tali concetti richiedeva di postulare delle generalizzazioni aristoteliche universali. Alcune di quelle generalizzazioni in for-ma di legge sono però incom-patibili con la fisica newtonia-na, cosicché arricchire il vocabolario concettuale newtoniano con termini aristotelici (o viceversa) inserirebbe delle contraddizioni sui fenomeni naturali osservabili all'interno della stessa lingua. Gli utenti di una lingua contenente tali contraddizioni non potrebbero studiare la natura con successo: o essi o la loro lingua ne morirebbero. Un arricchimen-to che avesse tali effetti inficerebbe alcune funzioni essen-ziali della lingua. Fin qui ho parlato di scien-za, come faccio sempre. Ma l'incommensurabilità in quan-to relazione tra parti di lingue, considerate in coppia, non si limita all'ambito del linguag-gio scientifico. È endemica. Ha le sue radici nella natura stessa del linguaggio. Nella scienza, tuttavia, emerge con particolare chiarezza e ha con-seguenze particolari. Chi si de-dica a un'impresa che, come qualunque scienza, fa uso di leggi di natura stabilite e mira a scoprirne di nuove, deve es-sere di norma in grado di dire con precisione se determinati fenomeni sono nel dominio o meno di una legge. D fatto che un fenomeno non vi si conformi non porta a respingere una legge ma bisogna riconoscere la violazione e rendere conto dell'anomalia. Discrepanze che in un altro settore potreb-bero essere tollerate o date per scontate svolgono un ruolo essenziale nello sviluppo della scienza. Questo rende l'incommensurabilità così gravida di conseguenze per le scienze, e io ritengo che ne sia addirittura costitutiva. (Traduzione di Sylvie Coyaud)