ANTICO COMUNE DI VISSO - USI CIVICI, STORIA E NATURA GIURIDICA

  dalle ricerche e dalle pubblicazioni del Dr Felice Venanzoni (1902-1967)


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LA NATURA GIURIDICA DELLE TERRE DELL'ALTOPIANO DI MACERETO

TERRE COMUNALI E COLLETTIVE DELLA MONTAGNA MACERATESE

LA CHIESA DI SANTA MARIA IN VISSO


LA NATURA GIURIDICA DELLE TERRE DELL’ANTICO COMUNE DI VISSO

La circoscrizione territoriale dell’antico Comune di Visso corrisponde a quella degli attuali Comuni di Ussita, Castelsantangelo e parte di quello di Visso dal quale va esclusa la zona che gli fu aggregata nel 1850, cioè il territorio del vecchio castello di Croce. 

Dalle origini sino al 1812 l’antico Comune di Visso mantenne la sua unità territoriale, poi dai Francesi venne diviso in tre Comuni: Castel Sant’Angelo, Pieve e Visso ed aggregato al Dipartimento del Trasimeno. Con la restaurazione Pontifica tornò a formare un unico Comune ed Ussita, Castelsantangelo prima e Croce poi vennero considerati come appodiati. 

L’attuale divisione in tre comuni è conseguenza del Decreto del 1913 che ebbe però pratica situazione soltanto con il primo gennaio 1920 a causa del sopravvenuto primo conflitto mondiale. 

Oscura è l’origine del centro di Visso, come è oscuro il significato del suo nome. Egualmente oscura è l’origine di Ussita e dei suoi centri abitati e lo stesso si verifica per quelli di Castelsantangelo. 

Alcuni storici danno a Visso un’origine romana e considerano  Nocria, attuale frazione di Castelsantangelo, come antica colonia romana. Ma né a Nocria né in tutta la zona del Vissano si rinvengono vestigia romana di qualsiasi specie, ad eccezione di una lapide rinvenuta nella chiesa di San Bartolomeo di Villa S. Antonio di Visso, che porta un nome romano e parimenti romani si fanno i nomi di Patiana e Vispania, che furono due famiglie che ebbero in passato proprietà a Visso. 

La vicinanza di Norcia e Camerino, due indiscusse colonie romane, fa cadere l’ipotesi che Nocria possa essere stata altra colonia anche essa romana. Però il territorio del Vissano, ab antiquo, dovette sottostare agli ordinamenti romani e quindi nessun dubbio che per i pascoli, in particolare, si rispettasse la consueta divisione romana e cioè quelli assegnati alla colonia come Enti, quelli assegnati alle università dei coloni e quelli assegnati alle altre università esistenti nel territorio. 

Ma poiché sembra certo che nel territorio del Vissano non esisteva  una colonia romana, gli abitanti ivi dislocati non potevano essere altro che “proximi possessores” di colonia romana vicina e quindi le terre loro assegnate avevano la caratteristica di “compascua”, cioè pascoli goduti contro pagamento di un canone. Ma anche questa è pura ipotesi non suffragata da documenti. 

Anche l’origine ed il significato del nome Visso è oscura. Nei documenti più antichi la località è indicata anche con il termine “Vixi” o con gli altri “Vissi, “Vissum”, “Visium”, “Visse” e più recentemente Visso. Il termine “Vixi” ricorda assai il termine “Vici” degli antichi Italici indicante Villaggi con abitazioni unite in unico agglomerato, cosa che si verifica in tutto il vissano dove le case sparse sono in numero insignificante. E se è vero quanto affermano i competenti, e cioè che la parola “Vicus” derivi dalla voce sanscrita “Vic” che esprimeva lo stabilimento del pascolo comune in un luogo, dobbiamo rilevare che nel Vissano, e con il termine Vissano indichiamo il territorio tutto sotto la giurisdizione dell’antico Comune di Visso, da molti secoli a questa parte quella del pascolo comune è una spiccata caratteristica conservatasi con poche variazioni  sino ad oggi. 

Anche oscuro è il significato di “Uxita o Ussita”,  tanto più che esso è un termine che si riferisce ad una zona di territorio e non ad un centro abitato vero e proprio come accade per Visso. In ogni modo esso si rinviene nei documenti antichi molto posteriormente a quello di Visso, indice questo di una comparsa più tardiva negli eventi storici e politici dell’epoca. 

Nel periodo Longobardico il nome di Visso si trova più frequentemente per essere stato assegnato insieme a Norcia al Gastaldato del Ponte, che compare nei documento Farfensi sin dal 748. Poi un lungo periodi in cui non si hanno documenti che parlano di Visso che indubbiamente, per la sua posizione geografica, seguì le sorti del Ducato di Spoleto. Ma già nel 1066 era centro molto importante e potente in quanto è memoria che in quell’anno i Vissani combattevano alle sorgenti del Tenna contro gli abitanti di Montefortino e nel 1210 Visso era un grosso centro  con forti mura, ubicato al piano, con quattro torrioni e ventiquattro antemurali, mentre la rocca era stabilita sul colle deve sorge l’attuale Cimitero ed al nome di Visso si sostituì per breve tempo quello di Castel San Giovanni. Altre torri di vedetta sorgevano sul Monte Efra e sul Monte Orneta, dove ancora se ne rintracciano le vestigia, per sorvegliare le Valli verso Norcia, verso Castelsantangelo e verso Ussita, nonché verso Camerino. Forse di questa particolare situazione rimane traccia nello stemma comunale costituito da una torre a cui si accede per un ponte sotto i cui tre archi scorre un fiume: vecchie reminiscenze del Gastaldato del Ponte di cui Visso fece parte sotto i Longobardi, del castello fortificato dei tempi successivi e dei fiumi che l’attraversano allora come oggi. 

Il 10 ottobre del 1232 il notaro Bonagiunta da Visso testimoniò con altri dello stesso centro nella ricognizione di sudditanza e dei gravami dei Castelli della Valle Narca, oggi Val Nerina, quando, dopo la pace di San Germano del 9 luglio 1230, la reggenza del Ducato di Spoleto e della Marca Anconetana fu assegnata a Milone Vescovo di Beauvaesis. 

Durante quest’epoca che cosa accadeva nella Valle Ussitana ed in quella Castellana? Ne abbiamo notizia indiretta in un documento  del 1115 con il quale Enrico II Gualfredo, Vescovo di Spoleto, concedette e confermò all’Abate di S. Eutizio, Leto, Chiese nella città e diocesi spoletina ed anche nel territorio di Ascoli. Le Chiese che interessano la nostra zona sono quelle benedettine di “Sti Laurenti di Pretino nella Valle Castellana; di Sti Angelo Inter Saxa nella Valnerina a Valle di Visso; Sti Angelo de Paganico e Sti Anastasii in Casali nella Valle Ussitana; Sti Bartolomeo del Podio e Sti Eutitii de Furcis nella Valle che da Visso va verso Camerino”. 

Nel 1253 Bartolomeo Accoramboni, Vescovo di Spoleto, confermava all’Abate di S. Eutizio oltre alla Chiese sopra indicate anche quelle altre che frattanto erano sorte nella zona del Vissano e cioè “Sti Angeli di Rapegna, Ste Lucie de Nucelleto, Sto Stefano de Nucelleto, Sti Biagio di Vallinfante, tutte nella Valle Castellana, Sti Ippoliti de Uxita, Sta Victoria in Paganico e Sti Herculano  nella Valle Ussitana”. 

              Riassumendo, nella zona c’erano nel 1253 ben tredici Chiese soggette con le loro pertinenze all’Abbazia di S. Eutizio e delle quali cinque erano dislocate nella Valle Ussitana, cinque nella Valle Castellana e tre nella conca Vissana. 

Importanza particolare rivestiva la Chiesa di S. Ippolito nella Valle Ussitana: essa indicava il confine fra le due contrade in cui era divisa tale Valle e precisamente quella di S. Ippolito supra e quella di S. Ippolito infra e la sua importanza si prolunga nel tempo tanto che negli Statuti di Visso del 1461, per le elezioni del Castellano di Ussita, i votanti si sceglievano tra gli uomini delle due contrade. 

Da quanto precede si rileva che nel 1115 la prevalenza delle Chiese dipendenti dall’Abbazia di S. Eutizio e benefici relativi era nella Valle Ussitana ed in quella Vissana, mentre minore era la dislocazione di Chiese soggette a tale Abbazia nella Valle Castellana. Nel 1523 le distanze saranno ristabilite. Tutto questo lascia presumere che la messa in valore della zona sia da attribuirsi ai benedettini di S. Eutizio i quali, con la loro chiesa antichissima di S. Anastasio dei Casali e S. Angelo di Paganico si erano spinti a ridosso dello spartiacque fra il Tirreno e l’Adriatico in zone elevate dove ancora sono evidenti le tracce di antichi seminativi oltre che di prati. E ciò, oltre ad una influenza spirituale, lascia supporre anche un dominio temporale accompagnato dal possesso di vaste estensioni di territorio, le pertinenze di cui è cenno nelle conferme dei Vescovi di Spoleto sopra indicati. 

Del resto la congregazione di S. Eutizio dalla sua fondazione (487), non aveva mai cessato di accrescere la sua importanza nella vasta zona montana dove si era stabilita ed estesa. L’Abbazia era sorta nella Valle del Campiano, affluente del Nera, ed il Monastero era chiamato nel documento del 1253 sopra citato “S. Eutitii de Montanis”. Della sua estesa autorità anche nella vita civile fanno prova i privilegi ottenuti dal Monastero da Imperatori e Pontefici (da Ottone III a Corrado II, da Gregorio IX ad Innocenzo IV) e nel 907 Ageltrude, vedova di  Guido, Duca di Spoleto e Re d’Italia, gli cedette un’ampia corte nel territorio di Jesi. Nel frattempo però l’Abbazia estendeva anche la propria dominazione feudale giungendo ad annettersi anche i nuovi Castelli risorti sulle rovine dei pagi antichi. E’ del 1170 una convenzione con la quale eredi e nipoti di Tebaldo di Suppone e Tebaldo di Ugolino, costruttori del castello di Poggio di Forcella, promettevano all’Abate di S. Eutizio perpetua unione e soggezione, con patto scambievole di alleanza in guerra ed in pace, consentendo che alla loro morte il loro Castello nuovo sarebbe venuto immediatamente in possesso del Monastero stesso. E’ quindi facile concludere, data anche la vicinanza del Monastero posto a poca distanza da Visso, in territorio di Norcia, che alle zone d’influenza ed ai possessi delle numerose Chiese dipendenti dall’Abbazia stessa, si costituissero man mano zone d’influenza sempre più vaste, con possessi territoriali anche estesi. 

Però con il tempo l’azione delle nuove idee, che spingeva i servi della gleba a trasformarsi in cittadini liberi, cominciò a disgregare il dominio feudale dell’Abbazia, cominciando naturalmente dalle zone più lontane dove i fiduciari sostituirono il dominio feudale degli Abati di S. Eutizio e si trasformarono in feudatari essi stessi. 

Nell’Archivio Comunale di Norcia troviamo documenti che comprovano il passaggio dei poteri civili dall’Abate al Comune di Norcia. Infatti nel 1257 l’Abate Todino con altri monaci cedono al Comune di Norcia i loro feudi di Campi e Todiano in enfiteusi centennale; nel 1259, con altro contratto enfiteutico, il Monastero rinuncia alla giurisdizione temporale sopra il Comune di Collescille, sorto a pochissima distanza dall’Abbazia, davanti al Consiglio di quel Castello presieduto dal Vicario del Comune di Norcia. Così sparivano i vecchi feudi abbaziali nelle zone vicinissime al Monastero ed in quelle più lontane che ci interessano (Ussita, Castelsantangelo e Visso) la restrizione e la sparizione doveva essere cominciata molto tempo prima. 

Se nel 1210 Visso aveva quell’importante sistema di difesa cui abbiamo prima accennato, è evidente che esso era diventato il Castello più importante della conca vissana e doveva necessariamente aver esteso il suo dominio lungo le linee naturali di espansione rappresentate dalle Valli che in esso confluivano, cioè quella del Nera e quella dell’Ussita e loro affluenti minori. E il Comune che cominciava certamente a sorgere intorno a quell’epoca doveva disporre di vaste zone di terreno venute strappando man mano ai feudatari minori, a quelli ecclesiastici o ricevute per volontaria sottomissione di uomini liberi che domandavano a Visso protezione e difesa. In altre parole il Castello di Visso doveva disporre anche di un distretto o contado. 

Inoltre, data l’aridità dei luoghi e la povertà delle terre, doveva necessariamente esserci una prevalenza delle terre comuni su quelle private, prevalenza che nel territorio dell’antico Comune di Visso si è mantenuta sino al giorno d’oggi, facilitata in questo dal prevalere dell’unica industria locale, quella armentizia che  necessariamente richiedeva larghe estensioni per i pascoli. 

E’ facile comprendere che delle vaste zone di terre comuni, che attualmente raggiungono quasi ettari 10.000 su 17.000 complessivi circa, non è agevole farne la storia perché, per dimostrarne l’attuale possesso,  dovrebbero accertarsi per ciascuno di esse l’origine, la causa ed il titolo. Ma per far ciò, bisogna risalire alla fondazione di Visso ed al suo estendersi. 

Ora c’è chi sostiene, senza documentarlo, che Visso sorse a scopo di difesa delle popolazioni delle varie Valli che ad esso facevano capo per ragioni geografiche: quindi le Ville che tutt’ora sussistono nelle dette Valli avrebbero avuta origine anteriore al centro Visso. Ricordiamo a questo punto che il termine Ville si ritrova nei documenti più antichi interessanti la zona e che all’epoca longobardica con il termine Villa si indicava un vasto territorio con case per i lavoratori e chiesa. 

Altri invece sostengono che le Ville delle due Valli abbiano avuto origine posteriore al Centro Visso perché lo sfruttamento dell’unica risorsa della zona, il pascolo, avrebbe sospinto gli abitanti di Visso verso zone più lontane a ridosso dei Sibillini. E nei punti migliori per ubicazione e per esposizione vennero costituiti centri abitati  a preferenza nel periodo estivo per avvicinarsi il più possibile ai luoghi dove con minor disagio e maggior profitto si potesse nutrire e pascere il bestiame. In tal caso ecco l’atto di possesso del centro Visso sul territorio delle Valli circostanti, possesso che si verifica con l’occupazione e con lo sfruttamento prima del sorgere delle Ville. Altri infine pensano che le Ville sparse nella Valle del Nera e dell’Ussita e sui monti che circondano Visso abbiamo un’origine più antica del centro perché fondate dalle popolazioni che fuggivano le invasioni longobardiche. Per loro Visso sarebbe stato eretto verso il 1000, quando cioè il feudalesimo cominciava a tramontare e a decadere e dalle sue rovine si veniva formando il Comune Italiano. Allora le genti delle diverse Ville, amanti di libertà, volendo sottrarsi al dominio feudale, si raccolsero in un punto anche agevole per la difesa e cioè nel punto in cui le due Valli del Nera e dell’Ussita , congiungendosi, offrivano il luogo adatto a costruire un centro abitato e difeso, che venne man mano ampliandosi e ingrossandosi. Con questa ipotesi il possesso originario del territorio del Vissano sarebbe delle Ville, ma non si spiegherebbe come ancora nel 1250 si parla di servitù feudali nel Castello di Visso e della Podesteria in mano di un antico signore. E poiché di servitù feudali e di diritti di Potesteria si parla anche nella prima metà del secolo XIV, si deve pensare che il Comune di Visso e quell’epoca non fosse ancora completamente emancipato dal dominio feudale. Ciò che fa cadere le ipotesi che pongono il sorgere di Visso posteriormente al sorgere delle Ville delle due Valli. 

Contro queste due ipotesi sta anche il fatto generico che la civiltà, ivi compresa l’azione di sfruttamento dei terreni, risale le valli dei fiumi e non le discende, nel senso che lo sfruttamento agricolo o silvo pastorale avviene irraggiandosi dalla pianura lungo le valli dei fiumi sino alle montagne. Quindi il Castello di Visso dovette sorgere prima delle Ville almeno come centro di difesa e di rifugio delle popolazioni durante l’impervia stagione invernale ed anche come base di penetrazione verso pascoli più estesi e più lontani. Basta riflettere che i tempi rendevano necessario un rifugio in caso di guerre e durante l’avversa stagione invernale per comprendere come il Centro Visso dovette sorgere prima delle Ville lontane, indifese ed inaccessibili durante la stagione avversa, circondate da popolazioni ostili delle zone vicine. Ecco perché Visso lo troviamo nel Gastaldato del Ponte sin dal 748 e nel suo Castello doveva svolgersi quel minimo di vita commerciale e civile della quale si ha notizia in tutte le epoche, anche le più difficili ed oscure. Soltanto più tardi, verso al fine del secolo XIV le popolazioni della Valle Ussitana poterono usufruire per difesa e centro di vita del Castello di Ussita, mentre quelle della Valle Castellana avevano analogo contro sin dal 1311. Ma di questo parleremo in seguito. 

Il Pirri nella sua pubblicazione “La Chiesa Collegiata di Santa Maria in Visso” dice a pag. 9 che “le signorie feudali avevano sui monti Vissani vaste e radicate propaggini” e che “Federico I° costituì in feudo ad un Robbacastello di Monaldo di Mainardo, della stirpe di Vicco anche un castello sul Monte Lelfa (o Efra come ora si chiama) denominato Francalancia. Ma ribellatosi all’Imperatore lasciò il figlio Fiordilancia a governare il Feudo Vissano.” Come potesse essere centro feudale un Castello situato in cima al Monte Lefra, dove oggi si sono rintracciati ruderi di potenti costruzioni antiche, si spiega difficilmente tanto più che a brevissima distanza figurava già nel 1200 il centro feudale di Nocria. Che in cima al Monte Lefra potesse sorgere un luogo di difesa e di vedetta per i nemici provenienti o da Montefortino lungo al Valle del Tenna o lungo la Valle Castellana dalla confinante Norcia, si capisce bene. Ma un centro feudale no davvero, anche per le difficoltà di comunicazione con tutte le Ville circostanti, il rifornimento idrico ed il necessario isolamento nella stagione invernale. 

Bisogna giungere alla prima metà del 1200 per rintracciare copie di due atti che vengono a gettare una luce certa sulle vicende del Castello di Visso. 

L’uno del 1249 riguarda l’aggregazione degli Uomini di Gualdo al Comune di Visso, indice questo della prevalenza e dell’espansione del Comune nelle Valli Vissane: ma poiché, data l’epoca, non possiamo concepire un presidio isolato, lontano dal centro Comunale, senza contiguità territoriale con esso e in mezzo a popolazioni ostili, dobbiamo pensare che il Comune di Visso doveva avere già a quell’epoca altri addentellati e possessi territoriali nella Valle Castellana. 

L’altro atto, del 1255, riguarda la vendita al Comune di Visso, da parte di Tiboldo di Farolfo e di sua madre Emperia, di alcuni luoghi fortificati della Valle Castellana e dei diritti del feudatario su Castelli e luoghi fortificati in varie zone del Vissano come Macereto, Villa S. Antonio, Visso, Vallinfante, Gualdo e Nocelleto. Tale atto è importante per due ragioni:

1. perché da un’indicazione della potenza raggiunta dal Comune di Visso e della sua preminenza nella zona.

2. perché in esso compaiono tre Consoli, mentre in atti successivi risalenti però al 1300, al posto dei Consoli sono succeduti i Priori in numero di cinque. 

Dalla lettura dell’atto del 1255 si rileva che esso, oltre a contemplare una vera e propria vendita di territorio e luoghi fortificati, riguarda anche la cessione di diritti vantati dal Tiboldo di Farolfo e da sua madre Emperia in varie zone più sopra indicate. Diritti che nella realtà erano fonte di controversie con vicini e conseguenti litigi anche cruenti e di portata pratica limitata e discussa. Il documento fa riferimento ai castra di Nocria, Pietralata e Podio. Mentre il primo è collocabile nella frazione Nocria dell’attuale Comune di Castelsantangelo ed il terzo nella Villa S. Antonio di Visso, l’ubicazione del secondo non è chiara e quindi controversa. C’è chi lo vuole porre sulle montagne e c’è chi lo vuole nella Valle Castellana, vicino a Visso. Per dato che il documento in esame parla di divieto a persone diverse dal Tiboldo di costruire “molendinos” nelle acque di Nocria e di Pietralata, dobbiamo collocare il Castello di Pietralata in luogo dove si potesse azionare un molino e nelle immediate vicinanze se non nell’interno di un centro abitato. E poiché tale Castello doveva continuare ad essere abitato da Tiboldo (il quale per tre anni assumeva anche la carica retribuita di Potestà del Comune di Visso) che doveva però porlo a disposizione del Comune stesso per la difesa, noi pensiamo che esso poteva essere situato dov’è attualmente il vecchio Castelsantangelo, cioè alla confluenza delle Valli che vanno verso Vallinfante, Gualdo e Nocelleto per motivi evidenti di dominio e di difesa. Noi pensiamo insomma che il castra Pietralata non sia altro che la primitiva denominazione di quello che poi fu chiamato Castel S. Angelo di Visso. 

Nel 1200 non abbiamo documenti né indicazioni di documenti che parlino della Valle Ussitana ad eccezione dell’assegnazione di benefici e di Chiese ivi situate all’Abbazia di S. Eutizio (1253) e della conferma di quelle attribuitele sin dal 1115. 

Troviamo indicato un certo Todini Ugolino, notaio di Ussita, che nel 1325 compilò un estratto delle sedute del Consiglio di Visso, tenute nel nuovo Palazzo Comunale (quelli precedenti erano tenute nella Chiesa di S. Maria in Visso), per l’acquisto del Castellare o Rocca di Berrettuccio Corradi esistente nel piano di Precino, al di fuori dei possessi Comunali, presso il quale il Comune proponevasi di elevare una nuova costruzione. E’ questa una nuova avanzata di Visso verso al zona di influenza di Norcia ed a sostegno della sua sentinella avanzata, Gualdo, aggregatasi come si è visto nel 1249. 

Altro atto del secolo XIV conservato nell’Archivio antico di Visso riguarda la vendita fatta da Aimone di Ugolino Venantii de Carnacinis a messer Manente di Manenti che riceve anche a nome di Manentesca sua sorella e di Uberto figlio di Ainone terreni in Valle di Aschio e il gius di omaggio, di vassallaggio e di servitù dovute dagli uomini che ha in Aschio e nel Castello di Visso ed il diritto che ha su detti vassalli, i diritti che ha nella Chiesa di S. Eutizio de Furchis e così tutti i diritti nel Castello di Visso, nel territorio, nella piazza del Castello e la potestà che gli spetta pro tempore in detto Castello e verso la Chiesa, per 500 lire. 

Concludendo, la traccia certa di un principio di organizzazione comunale (consiglio generale e speciale, Consoli, Potestà e Sindicus) si rintracciano a Visso nelle epoche seguenti:

·   nel 1249 – atto per l’aggregazione degli Uomini di Gualdo

·   nel 1255 – atto per l’acquisto di terreni e castelli più sopra citati da parte del Sindicus di Visso, Paladino da Tiboldo di Farolfo

·   nel 1256 – consacrazione della nuova Chiesa di S. Maria in Visso e conseguente allargamento delle mura castellane come indica il frammento di lapide esistente presso la Porta di S. Maria (verso Villa S. Antonio) costruita nel 1256

·   nel 1279 – lapide sulla porta di Ponte Lato (verso Norcia) delle mura castellane che dice “Tempore ser Joannes de Camereno”

·   nel 1283 – lapide sulla stessa porta di Ponte Lato con l’inscrizione “Gualtierus Potestas Vissi fecit hoc opus mentem sanctam spontaneam et patriae liberationem”

·   nel 1325 – delibere per l’acquisto della rocca di Berrettuccio nel Piano Precino nelle vicinanze del Castel del Monte (odierno Castelluccio del Comune di Norcia). 

Da quanto precede risulta anche evidente l’espansione crescente del Vecchio Castello di Visso ed il suo progredire verso il completo dominio della zona. 

Quel Castello, che Flavio Biondo chiamò “citra Narum Vissium est vetusti nominis oppidum, vigenti passum millibus a Cerreto, et sub ipse pene Apennini iugis remotum, Vissi moema ablint Nar  fluvius”  e che Leandro Alberti nel 1588 disse “Castello molto antico”.  che il Cluverio chiamò Castelletto hodie oppidolum sub fontibus amnis situm vulgo vocatur Visse et Visso), estendeva lentamente e sicuramente il suo dominio verso la zona dei grandi pascoli montani sino a quando non s’incontrò con la zona d’influenza e di dominio di Norcia, che si era intanto assicurato il possesso del Piano Grande e del Piano Piccolo sino alla Forca di Gualdo e pretendeva estendere la sua zona d’influenza sino a Pizzo Berro, vicino a Montebove (Ussita). 

E ciò a voler tacere di quanto fece Papa Eugenio IV che nel 1444 autorizzò Visso a decorare il suo antico stemma delle Chiavi decussate e del motto “Vissum Antiquum et fidele”. E se il “fidele” poteva rappresentare un riconoscimento della fedeltà mantenuta al Papa in epoca tanto turbinosa e comunque transitoria, “antiquum” rispetta  indubbiamente una tradizione storica che per essere più vicina alle origini poteva avere maggiori elementi per giustificarsi. 

La penetrazione di Visso lungo la Valle Ussitana doveva essere avvenuta anteriormente al 1200 senza resistenze eccessive, perché non compresa nella zona di influenza di centri rivali di Visso. La linea montana dei Sibillini, di difficile superamento per la sua altitudine e la limitazione qualitativa della superficie dei pascoli, dovevano portare la Valle a gravitare economicamente verso Visso. Inoltre ci è noto che i Vissani, attraverso il valico oggi detto di Passo Cattivo, nel 1066 erano traboccati verso la Valle del Tenna, pur essendo stati fermati nel 1066 in prossimità delle sorgenti di tale fiume. Ora l’andata al Tenna presupponeva necessariamente il dominio della Valle Ussitana, senza il quale era molto azzardato, per i tempi, spingersi tanto lontano. Nella Valle Ussitana, dice il Pirri nel volume “Ussita”, prima del 1300 esistevano delle organizzazioni sociali di cui non abbiamo che una conoscenza imperfetta. Questo periodo remoto non ha lasciato di se altri ricordi visibili, che qualche memoria o rudere di torri vetuste, come Castel Fantellino, Rocchetta di Sasso e di Vallestretta e l’antichissima Pieve oltre le varie chiese romaniche sparse per i villaggi, ciò che attesta la lontana esistenza di un aggregato popolare importante. Lo stesso organismo guaitale, che noi troveremo documentato verso la fine del 1300, quando anche non fosse così antico come lascerebbe supporre l’antichità del nome, deve sempre rimontare ben più addietro del 1300. E se noi colleghiamo la presenza di tre Consoli nell’atto del Comune di Visso del 1249 e 1255, trova fondamento l’idea che sin da quell’epoca Uxita facesse parte del centro di Visso come contrada o distretto. Il documento più antico dove si parla di Ussita è un frammento di un “Liber introytus et exitus Camere Fraternitatis S. Marie de Uxita a Sancto Polito infra” dal 1354 al 1362. Ma già siamo ben lontani dagli atti del 1249 e 1255 con i quali Visso si era assicurato il dominio della Valle Castellana ergendosi a deciso competitore della potente Norcia. Doveva aver già quindi sottoposto alla sua giurisdizione il territorio tutto della Valle Ussitana. 

Abbiamo parlato di un organismo Guaitale che costituisce la caratteristica del Comune di Visso, ma non la sua esclusività. Le Guaite le troviamo anche a Norcia nello stesso periodo e in numero di otto; a Spoleto in numero di dodici. Ma in queste due città e specialmente a Norcia esse corrispondono ad altrettante zone della città stessa o Terra dove in caso di necessità si rifugiavano gli abitanti di alcune zone di territorio lontane o circostanti la città stessa. Quartieri di città ben determinati dove gli abitanti delle Ville avevano ciascuno le proprie abitazioni ed anche le proprie Chiese dedicate ai Santi protettori del villaggio dal quale le popolazioni provenivano. Ciò spiega come a Norcia, a Visso ed in altri antichi centri della zona la città sia costellata di Chiese in numero indubbiamente eccedente al più lusinghiero riparto della popolazione abituale. E ciò spiega anche la loro ricchezza per il continuo abbellimento e potenziamento facilitato dalla sicurezza della loro ubicazione in luoghi fortificati ed in ogni caso ben difesi. 

Il termine Guaita vuol farsi derivare dal longobardico “vaita” che significava contrada ed il primo documento certo in cui s’incontra la parola Guaita, applicata a territori facenti parte dell’antico Comune di Visso è il registro n. 8 dell’Archivio di Ussita del 1388 dove figura il capitolo “Estima totius Guayta Uxite et pagesis Macerete”. Inoltre negli Statuti del Comune di Visso del 1461 compaiono le Guaite che costituivano il predetto Comune e precisamente in numero di cinque con i nomi seguenti:

·   Guaita Plebis o Pieve, costituita dal centro di Visso con il Borgo San Giovanni o Vallopa e le sue pertinenze;

·   Guaita Uxite, costituita dai villaggi dislocate lungo tutta la Valle Ussitana;

·   Guaita Villae, costituita da quattro piccoli nuclei abitati oggi riuniti nella frazione Villa S. Antonio;

·   Guaita Montanea o della Montagna, costituita da tutti i villaggi dislocati lungo la Valle Castellana e che a loro volta costituivano 5 gruppi di Villaggi con Università di massari, con beni propri e con rappresentanza e amministrazione a se, ma approvata dal centro Visso;

·   Guaita Pagese o dei Paesi, costituita da Aschio, Cupi e Macereto. 

Ogni Guaita aveva un territorio ben distinto, separato e delimitato da quello delle altre ed aveva egualmente una distinta amministrazione. Formavano però un tutto unico dal punto di vista politico per modo che ogni Guaita, pur avendo una certa autonomia economica, era soggetta politicamente al “Comunis” che rappresentava esclusivamente le Guaite stesse nei rapporti politici con il Sovrano, con il Pontefice e la relativa Amministrazione Pontificia. La partecipazione delle Guaite al governo del Comune si mantiene costante nei secoli. E come ben si esprime il Pirri, “nell’amministrazione del Comune le cinque Guaite hanno diritto, e di fatto lo sono, di essere rappresentate ex aequo. Nel Consiglio Generale del Comune, i cui membri erano tratti in parte eguali dalla massa delle Guaite vengono trattati gli affari concernenti l’intero aggregato, considerato come unico ente morale e cioè i diritti territoriali, i rapporti con le superiori Autorità, gli ordinamenti finanziari, militari e politici, i bilanci, i riparti, gli ammortamenti di spese camerali e comunicative in una parola gli interessi collettivi dell’intero territorio comunale. La Guaita poi entro un ambito più ristretto, compreso nei limiti del suo territorio e della giurisdizione comunale costituisce un altro corpo sociale, in parte subordinato ed in parte parallelo al primo, avente un patrimonio proprio, amministrazione ed ordinamenti militari, magistrati ed ufficiali propri: un organismo completo in se.” 

Esamineremo poi l’organizzazione interna di ogni singola Guaita perché tale organizzazione getta luce sulla natura giuridica del territorio che la compone. 

Quando si costituì questo organismo Guaitale? Non lo sappiamo con precisione. Però, come abbiamo detto, il termine Guaita Uxite lo troviamo per la prima volta nel 1388 mentre nel registro n. 2 dello stesso Archivio antico del Castello di Ussita, che si inizia con il 1381, tutta la zona della valle Ussitana è chiamata “Universitatis Vallis Uxite disctrictus Terre Vissi”, il che indica chiaramente la soggezione giurisdizionale del territorio della Valle a Visso. L’intestazione del predetto registro n. 2 continua “continens in se ordinamenta facta per infrascriptos Massarios dicte Universitatis Vallis predicte, eorum juramenta Electione bayuli Universitatis Vallis prefate, eius promissiones et juramentum. Electionem camerari dicte Universitatis et eius Juramentum ac promissionem, nec non introitus et exitus Universitatis predictis …” 

La prima menzione di Guaita Montanea la troviamo insieme a quella di Guaita Plebis, Villae e Paesorum nella Rubrica XV del libro I° degli Statuti di Visso del 1461 ed ammettendo che queste denominazioni provenissero dagli Statuti precedenti, dei quali si ha notizie nel 1375 e nel 1315, a tale data possiamo far risalire la prima conoscenza certa di tali denominazioni. Però, mentre la denominazione di Castello di Ussita non possiamo farla risalire oltre il 1382, data di costruzione del predetto Castello, quella di Castel  S. Angelo è ben più antica perché la troviamo in una iscrizione di una vecchia campana esistente nella torre si Santo Stefano di Nocelleto che dice: “Ad honorem et laudem Dei et beati Stephani ac Sce Lucie Virginis de Castro S. Angeli. A.Dni 1311” 

Nelle compilazioni Statuarie del Comune di Visso note, susseguitesi da poco prima del 1461 sino alla fine del 1700, troviamo sempre traccia di una costituzione guaitale che possiamo ritenere la costituzione più antica della zona. Si ha notizia anche di Statuti parziali di Guaite che naturalmente fanno anche riferimento agli Statuti Comunali: li ricorda un atto dell’Archivio di Visso del 1358, e per Ussita, sotto il nome di “carta”, una delibera del Consiglio di quel Castello del 10 luglio 1444 del tenore seguente: “Cum propter utilitatem et honorem dicte Guayte sit necessarium renovare cartam dicte Guayte in qua continentur Jura Vallis Uxitane cum propter antiquitatem temporis sit quasi fracta  et inhabilis ad legendum …”. Inoltre l’esistenza di speciali Statuti per i Castelli o meglio Guaite di Uxite et Montanea si rileva dalla rubrica VI del Libro I° degli Statuti del Comune e del Popolo della terra di Visso (1461) in cui è stabilito che i “Vicarium Castrorum Sancti Angeli et Uxita teneantur observare Statuta dictorum castrorum et Comunis Vissi”. E poiché, dato il sistema dei tempi, gli Statuti o Capitoli concessi dovevano avere l’approvazione superiore o del feudatario, o del Signore, o del Sovrano o del Comune è evidente che l’esistenza di Statuti o capitoli molto antichi di Guaita non indica la costituzione di separati Comuni fusi poi in un Ente unico o sovrano, ma una dipendenza giurisdizionale da persona o Ente dominante che nel caso di Ussita e Castelsantangelo non poteva essere che Visso, in quanto il Castello di Ussita non sostituì un antico Comune di Ussita poi federatosi con Visso, come vogliono alcuni, perché esso sorse solo nel 1382, cioè molto tempo dopo la data attribuita ai primi Capitula o Carta dell’Università della valle Ussitana. 

Non si rintracciano invece altre notizie relative ad eventuali Statuti della Guaita Montanea della quale non rintracciamo atti antichi di sorta, forse dispersi nelle varie vicende della storia della Valle Castellana. 

Alcuni autori come il Pirri ed il Fumi hanno visto nell’organizzazione Guaitale del Comune di Visso una specie di confederazione di antiche associazioni fra gli abitanti dei Villaggi delle Valli che confluiscono a Visso. Noi non siamo della stessa opinione alla luce di una diversa interpretazione dei documenti tutti sopra citati. A noi sembra evidente che fra il 1255 e la seconda metà del 1300 avvenimenti importanti siano avvenuti nell’organizzazione del Comune di Visso. Il 1255, come abbiamo visto, segna l’ulteriore espansione dell’antico Castello, dove già avevano vita e si affermavano le prime organizzazioni municipali, verso le regioni della montagna, ricche di pascoli ed a ridosso del Vettore e della catena dei Sibillini. A questo periodo di espansione che portò Visso a diretto contatto con la confinante forte Norcia, dovette necessariamente seguire un periodo di intensa organizzazione interna, sia dal punto amministrativo che difensivo dei luoghi più lontani dal centro del Comune. 

Secondo noi, è in questo periodo che si sviluppa e prende piede quell’organizzazione guaitale di Visso che durerà sino ai primi del 1800, resa anche necessaria dalle difficoltà, dati i tempi, di amministrare e controllare efficacemente territori lontani con popolazioni non sempre tranquille e con vicini tutt’altro che pacifici. Si cercò insomma di dar vita progressivamente ad organizzazioni locali, necessariamente aggruppate in persone o contrade che, pur avendo l’autonomia necessaria per risolvere i problemi economici e difensivi immediati ed urgenti, dipendesse dal centro per l’indirizzo politico e militare generale. Insomma alla fase affannosa della conquista e dell’espansione che portò i Vissani al Tenna, al Piano del Castelluccio, al Monastero del Colubro e a Macereto e Cupi, dovette seguire quello di consolidamento e dell’organizzazione interna senza la quale l’intero organismo comunale poteva entrare in crisi pericolose, data l’estensione territoriale raggiunta. 

Conseguenza di quanto precede è la rappresentanza all’amministrazione del Centro delle Guaite tutte e quindi, con lo stabilizzarsi prima ed il progredire poi delle Istituzioni Comunali, si giunse alla partecipazione delle Guaite al Governo non solo per i Consiglieri ma anche per i Priori e per tutte le altre cariche. E ciò a somiglianza di quanto si era fatto nelle Città che divise per rioni, quartieri e contrade avevano ciascuna una rappresentanza negli organi comunali. E un’organizzazione efficiente era necessaria perché le esigenze di una vita ristretta alle scogliere dei monti costrinse dapprima le popolazioni della conca Vissana a cercare territori meno sterili, superando confini incerti per le mal definite convenzioni con gli antichi feudatari o divenuti arbitrari per l’oblio delle consuetudini locali. Dopo aver conquistato bisognava organizzare per potenziare e difendere, tanto più che dalla fine del 1200 ed ai primi del 1300 si originano le questioni con Montefortino, Camerino e Norcia, con lotte che durano sino alla fine del secolo XVI e durante le quali per difendere le proprie ragioni sui pascoli, boschi e territori di confine non si cedette di un centimetro ne’ si rinunciò ad una pretesa. 

Nell’impossibilità di seguire sugli atti di archivio le vicende interne del Comune di Visso durante il periodo sopra indicato perché, a causa con la guerra con Norcia, nel 1377 gli atti antecedenti, calati in un sotterraneo delle Rocca, andarono distrutti e parimenti nell’incendio del Palazzo Comunale del 1477 andarono distrutti i documenti antichi che si erano potuti ricostruire, non possiamo documentare quanto da noi sostenuto. Però ci soccorre l’esempio di quanto avvenne su per giù nello stesso periodo nel vicino Comune di Norcia, confinante e rivale di Visso, nel quale la vastità del dominio territoriale, raggiunto nei primi del 1300, consigliò un’organizzazione tecnica ed economica del territorio che condusse alla ripartizione di tutte le terre di dominio del Comune di Norcia fra le diverse Ville e Castelli del suo comprensorio o distretto: terre che venivano quindi amministrate dalle Ville e Castelli che ne erano entrati in possesso. 

Infatti a Norcia nel 1346 i cittadini delle Terra e quelli del Contado, che avevano sempre goduti in comune i vasti territori delle montagne (eccetto poca quantità riconosciuta come proprietà particolare del Castelluccio o Castel Precino o Castel del  Monte),ruppero questa antichissima consuetudine per procedere ad un regolare riparto. Pertanto, lasciata una parte da continuare a sfruttare ancora in comune, parte che si denominò “la fida”, il resto venne distribuito fra i singoli capi famiglia della città, dei Castelli e delle Ville. Si formarono tre grandi quote, una delle quali fu assegnata agli abitanti della città, le altre due agli abitanti del contado che presso a poco erano il doppio di quelli della Città ed il riparto fu fatto in modo da tener conto anche della comodità dell’uso: venne però a cessare l’uso Comune tra città e contado delle terre ripartite. Il contado divise le due quote ricevute in tante porzioni minori in ragione del numero degli abitanti de vari luoghi del contado stesso rappresentati dal loro sindaco. I singoli sindaci furono autorizzati a suddividere nuovamente tra le famiglie dei vari Castelli e Ville le quote loro assegnate. Taluni sindaci operarono il riparto, altri no e alcuni lo fecero in parte. Ci fu chi divise solo i prati e chi anche i terreni atti alla coltivazione formando così il nucleo di quella proprietà privata che nei secoli successivi si andrà sempre più allargando e potenziando. La città o terra divise la sua quota in otto parti minori, quante erano le Guaite, ed ad ogni capo famiglia di ciascuna Guaita venne dato il possesso esclusivo del prato, della cesa e del bosco con disposizione che quando una famiglia abbandonasse il possesso della sua parte, un altro capo famiglia che ne fosse sprovvisto potesse occuparla e, se nessuno si presentava, quella parte doveva ritornare in proprietà al Comune.Il passaggio da una Guaita all’altra era consentito facendo al “pratica” poiché così si chiamava l’atto di assenso che all’ammissione o al trasferimento prestavano tutti o la maggior parte dei componenti la Guaita stessa. Finalmente si riservava ad esclusivo profitto della Città e del Contado, senza alcuna riserva alla Comunità, il diritto di pascere e di vendere le erbe che potevano sopravanzare al bestiame indigeno, quantunque il prezzo che ne veniva ricavato non venisse distribuito o ripartito in maniera speciale. (Patrizi Forti = Memorie storiche della Città di Norcia). 

Perché ciò non potrebbe essere avvenuto a Visso sia pure qualche anno più tardi? Diciamo più tardi perché i documenti in nostro possesso indicano che l’affermazione delle libertà comunali a Visso era arretrata rispetto a Norcia dove sin dal 1250, sotto Innocenzo IV, era già stabilito l’ufficio della Potesteria con facoltà di mero e misto imperio, ossia con giurisdizione civile e criminale, che Visso ebbe soltanto nel 1375 con breve di Gregorio XI, subito dopo che questo Papa ebbe approvati gli Statuti, o meglio un aggiornamento di quelli precedentemente in vigore. 

Nell’organizzazione guaitale Vissana noi troviamo molti punti di contatto con la ripartizione delle terre di Norcia citata più sopra. Quindi, per spiegare la particolare forma assunta dal Comune di Visso, quale risulta dai documenti dei primi del 1400 o dobbiamo ammettere un comportamento analogo a quello del Comune rivale e vicino, o una costituzione guaitale molto più antica, anteriore certamente al 1255, limitata in un primo periodo alle tre Guaite Plebis, Uxite e Villa e poi successivamente estesa con l’ingresso delle altre due Guaite e cioè Montanea e Paesi. Ma con ciò non si spiegherebbe la rappresentanza ex aequo di ciascuna Guaita nell’organizzazione comunale. Dovendo scartare anche l’idea di una successiva organizzazione confederale di piccoli comuni sorti nelle Valli che confluiscono a Visso, ipotesi che fra l’altro è in contrasto con l’arretratezza delle libertà comunali che troviamo nel preteso Centro sin oltre la prima metà del 1300, ci sembra più logico pensare ad un progressivo estendersi e rafforzarsi del centro originario Visso, con sistemazione amministrativa successiva e ripartizione delle terre così com’era avvenuto per la confinante Norcia. 

Difatti nel Vissano, ai primi del 1400, noi troviamo il territorio diviso per Guaite e nell’interno delle Guaite i Villaggi o Ville esistenti  aggruppati due a due o isolati a seconda della loro importanza. Nessun territorio originario è assegnato al Comune ma bensì alla Guaita che provvede a completarne l’amministrazione tenuta dalle Ville. 

Ammettendo per Visso una ripartizione delle terre analoga a quella di Norcia, prendendo per base principalmente la dislocazione geografica delle Valli, si spiega anche perché sino ad oggi il territorio del Centro Visso si limita a quello compreso nella cerchia delle sue mura malgrado gli acquisti del 1249 e 1255 fatti dal Comune e le transazioni favorevoli con Norcia, Montefortino e Camerino e gli acquisti di piccoli appezzamenti fatti nel 1493, 1494 e 1534 che figurano in atti conservati nell’archivio antico del Comune di Visso. E si rintraccia anche una ragione nell’esistenza di un vasto comprensorio di pascoli, accorpato, elencato nella rub. 62 del Libro IV degli Statuti del 1461, cioè pascoli riservati per il Comune e che nessuno poteva occupare a nessun titolo e che dovevano essere venduti con procedura particolare. In questa zona noi possiamo identificare quella parte che Norcia chiamò “fida”, cioè la parte continuata ad utilizzarsi in comune. A Visso i proventi della vendita annuale o triennale di tale zona, sino al 1499 formarono oggetto di un capitolo speciale nel libro degli “Introitus” in quanto il prezzo pagato dagli acquirenti o affittuari veniva registrato sotto la voce separata “Pascuis Comunis”; dopo il 1514, anno in cui fu definita la questione circa la proprietà del territorio dove una parte dei pascoli era situata, tali incassi figurano nella contabilità del centro Visso e si giunse persino a fare un volume speciale dove venivano riportati i singoli contratti di vendita, e ciò sino alla fine del sec. XVIII. Il che si spiega soltanto con l’intenzione di voler chiaramente designare non solo l’importanza del complesso pascolivo, ma anche la diversa natura della loro appartenenza o della loro proprietà. 

A somiglianza di Norcia anche a Visso troviamo assegnati ai privati i prati stabili anche se d’alto monte, e in ogni Villa, eccettuata Cupi, troviamo a ridosso dei nuclei abitati la così detta zona dei ristretti che comprendeva gli orti, le vigne, le canapine ed alcuni seminativi. Ogni Villa o gruppo di Ville, due al massimo, avevano una zona di pascolo comune dove per zone ben delineate ed alternate si esercitava e si esercita ancora  oggi l’agricoltura mediante la semina di soli cereali. Il che lascia supporre organizzazione analoga nei due comuni, ma mentre quella di Norcia è documentata da una delibera conservata ancora in quell’Archivio Comunale, per Visso la mancanza di documenti, per le ragioni già accennate, contribuisce a dare incertezza alle vicende amministrative del periodo che va dalla prima metà del 1200 alla fine del 1400. Invece la ricca e quasi completa documentazione dal 1500 in poi rende agevole seguire le vicende amministrative dell’importante complesso Vissano. Un po’ di luce dal 1380 a tutto il 1400 ci è fornita dall’Archivio del Castello di Ussita, i cui documenti e registri trattano principalmente gli affari interni della Guaita e solo di riflesso quelli più importanti di Visso, mentre nell’Archivio che doveva esistere anche a Castelsantangelo non sono rimasti che alcuni libri delle adunanze dei Massari delle Ville della Valle Castellana a far tempo dal 1600. 

Però le Guaite non avevano un’organizzazione amministrativa uniforme: qualcuna aveva solo i Consigli dei Massari, altra i Consigli dei Massari e le adunanze popolari, qualche altra le sole adunanze popolari. Abbiamo quindi, a fronte di un’Amministrazione generale politica ed amministrativa costituente il Comune, tante amministrazioni separate riguardanti le Guaite, i singoli Villaggi o gruppi di alcune Ville di cui le Guaite erano composte. L’amministrazione generale del Comune di Visso era imperniata sui soliti organi dei Comuni rurali: Consiglio Generale, Consoli prima e Priori dopo, Cancelliere, Potestà ecc. Quelle dei singoli Villaggi dal Consiglio dei Massari e dai capi famiglia. Quelle delle Guaite da Consigli capeggiati dai Vicari e Castellani nominati dal Comune. Queste amministrazioni delle Guaite e dei singoli Villaggi disponevano direttamente dell’entrate delle Ville ed ognuna indipendentemente dall’altra provvedevano all’elezione dei deputati, al riatto delle strade, delle fonti, dei ponti e dei fabbricati dove avevano luogo le riunioni: stabilivano l’epoca della falciatura dei monti, i tagli boschivi, l’affitto dei pascoli esuberanti. Provvedevano quindi a tutto ciò che interessava il loro benessere materiale ed i loro atti di normale amministrazione non necessitavano dell’approvazione del Comune. Soltanto le variazioni nei termini e nei modi dell’uso dei pascoli una volta approvati dal Consiglio della Villa dovevano riportare l’approvazione del Consiglio Generale del Comune, e parimenti era tale consiglio che su istanza dei Massari della Villa interessata disponeva la dichiarazione di “bandita per bovi aratori” o per eliminare i danni derivanti dal pascolo eccessivo in alcuni boschi, confermandola, modificandola o dichiarandone anche la cessazione. Era materia dei Consigli delle singole Ville l’appalto dei proventi del Forno, del Macello, della Conciaria, dell’Osteria e delle Tartufanare dove esistevano. 

Nella Guaita Montanea, attuale Comune di Castelsantangelo, l’amministrazione avveniva a mezzo dell’adunanze popolari. Esse erano quattro e cioè:

1. Nocelleto e Rapegna

2. Gualdo

3. Vallinfante e Macchie

4. Nocria. 

Ciascuna di esse aveva proventi pubblici, proprietà boschive e pascolive, caseggiati ben determinati e ciascuna di esse era circoscritta nei confini del suo territorio, fuori dei quali non era lecito agli abitanti di condurre al pascolo il proprio bestiame: ognuna doveva contenersi nel proprio territorio e quindi, in caso di sconfinamento, il bestiame e per esso il proprietario, identificato dal marchio che il bestiame stesso doveva obbligatoriamente portare, poteva essere denunciato e sottoposto all’azione del danno dato. 

Ogni adunanza popolare era composta da tutti i rispettivi capi famiglia e fra essi due assumevano la carica di Massari ed uno quella di Sindaco, nel senso di esattore. Quindi in tutto otto Massari e quattro Sindaci. 

A Castelsantangelo, centro fortificato della Guaita, c’era un pubblico Consiglio composto dagli otto Massari di cui sopra, ai quali si aggiungevano altri Consiglieri presi da tutte le Ville della Guaita. Tale Consiglio era sempre presieduto dal Castellano prima e dal Governatore di Visso. 

In tale Consiglio si deliberavano gli appalti, si eleggevano i balivi, l’esattore, il maestro di scuola, il predicatore della Quaresima, il moderatore dell’orologio pubblico, gli affitti dei fabbricati della Guaita. 

Quindi gli interessi delle Ville erano trattati delle particolari Adunanze popolari e quelli più generali della Guaita nel Consiglio. Il denaro pubblico era custodito in un cassone munito di quattro chiavi, ciascuna in consegna ad un Massaro facente parte del Consiglio: quindi una chiave ad un Massaro di ciascuna delle quattro adunanze popolari. Il primo magistrato della Guaita era il Vicario nominato dal Comune di Visso, il quale alla fine della dominazione dei Varano (1539) prese il nome di Castellano Vicario. 

Nella Guaita di Uxita l’autorità effettiva risiedeva nel Massari e si esercitava mediante tre organi deliberativi:

1. Il Generale Parlamento del Popolo (così il Pirri chiama l’Adunanza popolare) che si riuniva raramente e soltanto nei momenti più gravi o quando erano in discussione argomenti di altissima e vitale importanza.

2. Il Consiglio dei 24.

3. Il Consiglio degli 8.   

Tutti gli affari della Guaita erano di competenza del Consiglio dei 24, mentre il Consiglio degli 8 presiedeva soltanto all’amministrazione ordinaria e prendeva le deliberazioni urgenti. I membri del Consiglio dei 24 e degli 8 erano scelti fra i Massari della Guaita, metà nella contrada di S. Ippolito Infra e metà nella contrada di S. Ippolito supra. Gli otto Massari al Governo si alternavano in carica come i Castellani di due mesi in due mesi. 

Da quanto precede si rileva che il territorio della Guaita era diviso in due contrade delimitate dall’antichissima Chiesa di S. Ippolito, di cui abbiamo già parlato, posta in vicinanza del torrente Ussita e che segnava la linea di confine fra le due contrade. La contrada di S. Ippolito Infra comprendeva i Villaggi di Sasso, Pieve, Vallestretta, Tempori e San Sedio compresi nella confraternita di Santa Maria Plebis; la contrada di S. Ippolito Supra comprendeva invece la confraternita di S. Maria Gratiarum e abbracciava le Ville di Calcara, Casali, Sorbo, Castel Fantellino, Vallazza e San Placido. 

In un primo tempo il pascolo del bestiame veniva esercitato nelle due zone delimitate dal corso del torrente Ussita con l’unica limitazione che il suo proprietario doveva risiedere in uno dei Villaggi compreso nella contrada in cui pascolava il bestiame. Soltanto in un secondo tempo si giunse alla limitazione della zona di pascolo secondo aggruppamenti di villaggi con le stesse limitazioni di confini che abbiamo indicato per la Guaita Montanea. Aggruppamenti di villaggi che daranno poi il nome alle mappe catastali del secolo XIX ed agli annessi. Col catasto Gregoriano troviamo infatti 5 annessi al Comune di Visso nella Valle d’Ussita e cioè: Calcara e Castel Fantellino comprendente i due villaggi omonimi; Sorbo-San Placido che comprende egualmente i due Villaggi di tal nome; Casali comprendente il territorio dell’attuale frazione omonima; Vallestretta comprendente anche il Sasso; ed infine Pieve comprendente i Villaggi di Tempori, Fiuminata e Vallazza. 

Come si è visto c’è all’inizio una diversa impostazione fra l’uso dei pascoli della Guaita Uxita con quelli della Guaita Montanea dovuta ai diversi raggruppamenti delle zone o contrade. Poi la differenziazione scompare man mano che da parte del centro Visso si giunse all’unificazione delle norme relative al godimento del pascolo comune ed al prevalere dell’assegnazione delle zone per singoli gruppi di centri abitati. 

Il complesso delle norme che regolavano i pascoli e le altre manifestazioni del vivere comune dovettero costituire i famosi Capitoli di Ussita, cioè gli Statuti di Guaita dei quali abbiamo già parlato. Però in una delle tante questioni che la Guaita Uxita ebbe con il centro Visso a causa delle imposte e per altri motivi (particolare quello della gabella bestiame dopo la costruzione del Castello) e precisamente in una controversia di cui è cenno negli Atti del bimestre Settembre-Ottobre 1571 conservati nell’Archivio Ussitano, il Comune di Visso minacciò di ritogliere alla Guaita i beni comunali. E poiché nel documento non si danno maggiori chiarimenti circa l’epoca in cui il Comune avrebbe fatta l’assegnazione di tali beni c’è da pensare che la nostra tesi circa un’azione di ripartizione di territori fatta dal Comune di Visso ai suoi Villaggi e Guaite, sulla scorta di quanto praticato da Norcia nel 1346, possa avere un certo fondamento. 

Nella Guaita Montanea ed in quella di Uxita abbiamo la dimostrazione della funzione del Castello come luogo di residenza invernale delle popolazioni dei centri abitati più lontani e più esposti alle offese dei nemici. Ai primi di Ottobre la popolazione ridotta a donne, vecchi e bambini per l’emigrazione stagionale degli uomini al seguito del bestiame che svernava prima nei pascoli della Marca e poi, dopo la costituzione della Dogana, in quelli intorno a Roma, scendevano dai centri più disagiati e più lontani a quelli di fondo valle più sicuri, per ritornare poi nella primavera seguente ai centri di provenienza più vicini ai pascoli ed ai seminativi. E noi pensiamo che la costruzione del Castello di Castel S. Angelo prima e di quello di Ussita poi non abbiano avuto altro scopo che quello di offrire alle popolazioni delle due valli, incrementatesi per lo sviluppo delle attività economiche, un sicuro rifugio in caso di guerra e di cattiva stagione. L’essere i Castelli sopra indicati il centro della vita economica e sociale sin verso la seconda metà del 1500 è dimostrato da un reclamo del curato Angelo Ricci conservato nell’Archivio Parrocchiale di Macchie (uno dei Villaggi della Guaita Montanea aggregata con Vallinfante). Tale curato reagisce alla ingiunzione di tornare a fissare la sua residenza nella Villa osservando che dei sei curati castellani “non v’è memoria in contrario abbiano reseduto in dette Ville ma sibbene nel Castello dove ciascuno di loro ha casa della sua Chiesa per abitazione”. Alcuni, come abbiamo visto, avevano anche una Chiesa propria. 

Quindi i due Castelli sorsero, per volontà Comune e per volontà degli uomini delle singole Ville delle due Valli, come quartiere d’inverno ed asilo nell’ora del pericolo e della prova. Essi adempivano alla funzione che prima del loro sorgere aveva certamente adempiuto il più antico Castello di Visso. 

Ma chiuso con il periodo storico dei Comuni, quello dei feroci agguati e delle violente aggressioni dei vicini, le condizioni di vita delle due Valli mutarono e quindi, chi non aveva per ragioni materiali motivo di ridursi nelle Ville, fissò nel centro la dimora continua; gli altri non ebbero più uno scopo a lasciare temporaneamente di abitare dove tenevano il maggiore contingente dei loro interessi. Di qui il ravvivarsi della vita dei Villaggi ed il continuo avvicendarsi delle popolazioni fra le Ville ed il centro. 

La Guaita Pagese o Macereto  comprendeva i tre Villaggi di Aschio, Cupi e Macereto: aveva un consiglio locale composto di consiglieri e di due massari i quali radunavano il Consiglio e davano corso alle deliberazioni di esso. Il Consiglio veniva presieduto dal rappresentante del Comune di Visso e più tardi dal Governatore dello stesso Comune: in esso si deliberavano i soliti appalti e le entrate relative servivano come al solito al riatto delle strade, delle fonti e delle fabbriche comuni. 

Il territorio era diviso in modo che quei di Cupi non potevano condurre il bestiame al pascolo nel territorio di Aschio e viceversa. I due Massari erano l’uno di Aschio e l’altra di Cupi. Nell’archivio Antico di Visso sono conservati alcuni volumi di entrata e di uscita della Villa dei Cupi che abbracciano il periodo da 1772 al 1816 ed un libro di Entrata ed Uscita della Comunità o Guaita della Villa dei Cupi che va dal 1774 al 1818. In tali libri e nell’altro che ha per titolo “Revisioni et ordini per la buona amministrazione delli beni dell’Università della Villa dei Cupi (1749-1816)” sono contenute deliberazioni che dimostrano come i Massari di tale Villa provvedevano direttamente all’amministrazione del loro territorio e vi è cenno anche di questioni territoriali per confini nella zona di Rio Sacro del vicino Comune di Ussita. 

La Guaita Villa era composta soltanto di quattro nuclei abitati che oggi costituiscono la frazione Villa S. Antonio del Comune di Visso: non aveva consigli particolari. I suoi affari li trattava con le adunanze popolari di tutti i capi famiglia: i pascoli erano limitati al territorio della Guaita stessa senza suddivisioni interne. Era vicinissima al centro Visso e nei documenti si trova traccia  di un centro abitato, Ulmiti, ubicato verso l’attuale valico di Appennino, cioè poco sotto lo spartiacque fra il Tirreno e l’Adriatico. 

La Guaita Pieve o Plebis comprendeva il centro di Visso ed il vicino Borgo Vallopa, ora Borgo San Giovanni: non aveva consigli particolari ed il territorio non era suddiviso tra il Borgo e la Città per modo che il bestiame poteva pascere promiscuamente su tutto il territorio della Guaita. Anzi, c’è da ritenere, data la vicinanza dei due centri abitati, che il primo nucleo della città sia stato formato dagli abitanti del vecchio Castel San Giovanni, che per primi scesero a valle dall’attuale Colle di San Pietro, dominante il corso del fiume Nera, dove esisteva un antico Castello murato del quale rimangono ora una torre ed una chiesetta dedicata a San Pietro. 

La Guaita Plebis, per essere a ridosso del Centro di Visso, aveva la sede della sua amministrazione e delle sue istituzioni nel capoluogo e quindi apparentemente la sua amministrazione si confonde quasi con l’amministrazione del Comune pur avendo territorio proprio e rendite distinti come risulta dai libri degli “introitus” dove spese e rendite figurano in capitoli distinti da quelle del Comune. 

Da questo breve esame dell’organizzazione interna delle Guaite e dei singoli Villaggi che le componevano rileviamo che nel Vissano non si rintracciano in antico terreni appartenenti al Comune al di fuori del grande complesso pascolivo di cui alla Rub 62 del Libro IV degli Statuti. I territori delle singole Guaite appartengono, sono amministrati e sono goduti dagli abitanti dei Villaggi che le compongono. La Guaita completa ed unifica l’amministrazione tenuta dalle Ville tenendo presente ed armonizzando i vari interessi economici e la difesa. 

La dominazione dei Varano sino al 1539 ed il successivo diretto dominio della Chiesa sino all’occupazione francese non alterarono che nei dettagli l’organizzazione economico amministrativa del complesso Vissano, cioè di quello che nei documenti è indicato come la “Fortia Comunis”  Anche dopo la restaurazione e sino al 1849 furono le norme degli Statuti di Visso, i Capitoli del Danno dato, i Decreti del Bossolo a regolare la vita amministrativa ed economica del Comune e l’uso dei pascoli da parte dei bestiami delle popolazioni. Eccettuato il breve periodo dell’occupazione Napoleonica, l’organizzazione rimase quella dianzi accennata. 

Con l’occupazione Francese la Guaita Montanea e quella di Ussita furono erette a Comunità indipendenti con il nome di Castel S. Angelo e di Pieve. Le altre tre Guaite costituirono il Comune autonomo di Visso, il cui territorio ebbe aggregati quelli dell’ex Comunità del Comune di Norcia, Croce, e di Ancorano, Castelvecchio e Campli, Villaggi dell’antica comunità di Preci anch’essa facente parte dell’antico Comune di Norcia. Le tre Comunità furono aggregate al Dipartimento del Trasimeno. 

L’antico Comune di Visso si spezzò così in tre comuni autonomi, con amministrazione indipendente del tipo francese e con ordinamenti dello stesso paese. Tale stato di cose durò dal 1809 al 1814, ma con la restaurazione del Governo Pontificio le cose tornarono come prima. Però nei primi anni del secolo XIX era avvenuto negli Stati Pontifici, e quindi anche nel Vissano, un fatto importantissimo: l’incameramento da parte della Camera Apostolica di tutti i beni di proprietà dei Comuni per fronteggiare il pagamento degli ingenti debiti contratti dai Comuni per cause varie. Tali beni furono poi posti in vendita ed i migliori furono acquistati dai privati. Le popolazioni protestarono, mosse dal timore che da tali vendite venissero a soffrirne le loro consuetudini e specialmente i loro diritti di pascolo e legnatico e di semina, e domandarono la revoca del provvedimento. Ma il Governo Pontificio non mutò proponimento e solo in alcuni casi acconsentì che il patrimonio dei Comuni fosse sottoposto ad un’amministrazione speciale che destinasse i redditi al pagamento dei debiti su di essi gravanti. Ma erano eccezioni: la regola doveva essere la vendita. Nell’antico Comune di Visso si alienarono a privati importantissimi beni pascolivi e boschivi e fra i pascolivi anche parte di quelli che il Comune aveva riservati a se con la Rubrica 62 del libro IV degli Statuti. Così un terzo di Vallelunga già assegnata al Comune di Montefortino che la sfruttava insieme alla parte destinata a Visso, fu acquistato dalla Famiglia Bernardini, il Pontone di Vallelunga fu acquistato dal Cardinale Quaglia e parimenti privati furono gli acquirenti del Quarto San Lorenzo, del Pian Perduto e delle zone boschive di Valle Case, dell’Orneta e parte di Valtrattora o Ponte Caparra: zone boschive attribuite al Comune dalla Rubrica 39 dello stesso libro IV degli Statuti Vissani. 

Il provvedimento fu interrotto dall’occupazione francese, che fra l’altro abolì ogni e qualsiasi servitù di pascolo e legnatico nelle nuove Comunità istituite. Però dopo la restaurazione continuarono le vendite, sia pure a ritmo molto rallentato in quanto le parti migliori erano state già acquistate dai privati. Con Moto Proprio di Pio VII del 7 dicembre 1820 fu di nuovo ordinata la vendita dei beni Comunali, stavolta per pagare i debiti contratti per combattere l’invasione Francese, però con riserva agli abitanti dei diritti esistenti di pascolo e legnatico. Quindi su terre passate dalla sfera del dominio comunale a quella del dominio individuale rimasero i diritti delle popolazioni che si esercitavano ormai contro un proprietario che ne avrebbe riguardato l’esercizio come una servitù pregiudizievole allo sfruttamento più intenso del suo bene e che perciò aveva ogni interesse  a liberarsene o a limitarlo. 

Le vendite procedettero molto lentamente e la maggior parte dei beni comunali o ex comunicativi rimasero invenduti e le loro amministrazione pesava molto alla Congregazione del Buon Governo in quanto si trattava nella maggior parte dei beni pascolivi, boschivi e seminativi a scarsissimo reddito. Con l’Editto di Leone XII del 12 aprile 1826 l’Amministrazione speciale fu sciolta ed i beni rimasti invenduti furono restituiti  agli antichi proprietari in enfiteusi perpetua contro pagamento di un canone annuo stabilito in base al reddito netto dei beni stessi. Molte di queste retrocessioni avvennero per atto notarile e quella riguardante i beni dell’Antico Comune di Visso, rimasti nella maggior parte invenduti, avvenne con atto 13 giugno 1828. Le vendite avvenute nell’Antico Comune di Visso interessarono soltanto il territorio e non già le rendite provenienti da particolari diritti del Comune sui terreni stessi (rendite anche esse poste in vendita). Non avvenne cioè per Visso quello che invece si verificò nel vicino Comune di Monsampolo, e cioè che privati acquistassero soltanto le rendita che quel Comune ritraeva in misura ingente dagli usi civici di pascolo. Questi compratori  diventarono quindi creditori degli utenti: in sostituzione del Comune divennero proprietari del diritto di pascolo estivo senza esserlo delle terre su cui questo veniva esercitato e potevano disporne come cosa loro con l’alienazione, l’enfiteusi o chiamando altre persone a parteciparvi con una quantità di condizioni varie che originavano singolari rapporti talvolta molto ingarbugliati. Perché in antico sulle terre Comunali gravavano i diritti di pascolo, legnatico e semina delle popolazioni: diritti confermati e regolati da disposizioni interne prima, dagli Statuti e Capitoli del Danno dato poi muniti di regolare sanzione del Signore  o dell’Amministrazione Pontificia più volte ripetute in occasione dei diversi atti di sottomissione che ogni tanto il Comune faceva alle Autorità dominanti. 

Come vedremo in seguito le terre del Vissano erano gravate oltre che dal diritto di legnatico e di semina anche da diritti di pascolo di diversa specie in relazione al periodo in cui si esercitavano.. Quello di pascolo estivo, economicamente più importante, del quale si dichiarava titolare il Comune che disponeva dei proventi relativi per fronteggiare una parte delle spese della Comunità; quello di pascolo invernale riservato praticamente ai bestiami che rimanevano nel territorio della Comunità o delle Guaite tutto l’anno, comprendente il periodo dal I° ottobre al 31 maggio dell’annata successiva. Questi diritti di pascolo gravavano in misura diversa sulle terre private e le interessavano tutte ad eccezione della zona dei ristretti degli orti e delle vigne. Il diritto di pascolo estivo, riservato anche ai bestiami che ritornavano nel territorio della Comunità nelle zone assegnate dalla consuetudine o dalla Cancelleria Comunale, contro pagamento della così detta fida di pascolo o anche gabella pro pascuo, dette luogo anche a gravi e continui litigi fra il Comune che voleva avocarla a suo vantaggio anche quando era intervenuta di fatto una separazione amministrativa e lo spezzamento dell’antico Comune di Visso in tre Comuni indipendenti prima ed appodiati poi. Particolarmente accanite furono le contestazioni fra il Comune di Visso e la Guaita di Uxita verso il 1400, contestazioni che ogni tanto riaffioravano nei secoli seguenti finché esplosero in una lunga ed accanita vertenza legale che, iniziatasi poco dopo il 1830, terminò soltanto nel 1857, con la decisione che il Comune di Visso non aveva titolo per imporre la fida di pascolo per i bestiami depascenti nel territorio dell’antica Guaita di Ussita. Ma di ciò parleremo in seguito. 

Abbiamo già accennato come la più antica documentazione dell’ordinamento economico ed amministrativo del Comune di Visso è contenuta negli Statuti dello stesso Comune dei quali possediamo soltanto la stesura del 1461 ed alcune successive modificazioni inserite con atti separati nello stesso volume. A questi, nei primi del 1600, si aggiunsero i Capitoli del Danno dato, mentre sin dai primi del 1500 la parte statuaria riguardante la nomina dei Magistrati Comunali era stata integrata con i Decreti del Bossolo. 

Gli Statuti di Visso hanno la forma classica degli Statuti Marchigiani: sono divisi in quattro Libri dei quali il più importante per il nostro esame è il quarto intitolato “Super extraordinaris et damnis datis” . I Capitoli del danno dato sono le condizioni stabilite per gli appaltatori di tale servizio, cioè di coloro che dovevano applicare le disposizioni in esse contenute che riguardavano appunto le norme per l’uso dei pascoli e del taglio dei boschi: un regolamento insomma di Polizia Rurale. 

Da tutti questi documenti si desume l’esistenza di varie categorie di terre nel comprensorio dell’antico Comune di Visso: e per la necessità di assicurare il mantenimento del numerosissimo bestiame che formava l’unica attività economica per il sostentamento delle popolazioni si adottò il principio che tutti i pascoli e le terre da erbe del territorio, anche se private, venissero lasciate al libero godimento degli animali, sia pure con particolari limitazioni, condizioni e gabelle. 

Non sfuggivano a tale trattamento neppure i prati ed i tratti di terreno a sodo incorporati entro possessioni, la cui proprietà, diventata stabile, era stata assicurata ai privati dalla legge. E perciò se permettevasi ai proprietari che avessero voluto ritirare il fieno per i propri bestiami dalle loro terre falciative, di sottrarre una parte di queste all’uso del pascolo, dal periodo di vegetazione delle erbe a quello della raccolta, essi dovevano munire la parte riservatasi del simbolo della presa di possesso, che metteva il suolo stesso sotto la salvaguardia della legge contro i danni campestri: cioè della nota “biffa o ghiffa” che dava a queste terre il nome di terre giffate. Ed i proprietari dovevano inoltre dichiarare o denunciare le terre medesime agli Ufficiali del Comune che provvedevano a render noto con bandi l’accordata protezione. Dopo lo scadere del termine fissato le terre, anche se private, erano sottoposte al pascolo comune. 

Ma mentre negli altri comuni, al principio del 1400, tutta la proprietà pubblica si presenta come fusa e riunita e veniva considerata come appartenente ad un tempo tanto al Comune quanto ai singoli Comunisti (Bona Comunis et Populi), cioè non venivano tenuti separati i beni che dovevano  servire ai comunisti per uso promiscuo o a comodo, da quelli che sin dal sorgere del Comune gli furono assegnati come Ente, in Visso l’organizzazione guaitale ne permise la più assoluta separazione, anche se come riteniamo vi sia stata soltanto assegnazione di beni alle Ville da parte del Comune e non viceversa. E mentre nei Comuni Marchigiani ed Umbri limitrofi a Visso le terre uscivano lentamente dalle mani degli Enti, Ville e Comuni, per andare ad arricchire la proprietà privata che continuava a formarsi a spese di quella pubblica, ciò non avvenne a Visso  dove, fra l’altro, non si verificarono locazioni a lunga scadenza che, com’è noto, costituivano una forma di possesso molto vicina alla proprietà, tanto che il locatario metteva in catasto la terra affidatagli, sia pure con riserva  “habet de bonis Comunis” . Quindi nel Vissano la proprietà pubblica rimane per la più gran parte riunita nelle mani del Comune e delle Ville sino alla fine del secolo XVIII: non si rintracciano infatti negli atti di archivio notizie di vendite importanti di terre comunali. 

Negli Statuti Vissani troviamo ripetutamente il termine “Senaita”:

De Senaitis Guaitae Plebis               (Rub. 19 del Libro IV°),

Idem de Guaitae Villae                       (Rub. 20 del Libro IV°)

Idem de Guaitae Uxitae                     (Rub. 21 del Libro IV°)

Idem de Villae Cuporum                     (Rub. 22 del Libro IV°)

Idem de Vadi Pagatici                         (Rub. 23 del Libro IV°)

Idem de Vallis Infantis, Gualdo

  et Nocelletae pro certa parte             (Rub. 24 del Libro IV°)

Idem Villae Ulmiti                               (Rub. 57 del Libro IV°)

Idem Villae Nocriae                              (Rub. 65 del Libro IV°)

Tale termine è riferito a sole tre Guaite e poi alle diverse Ville delle Guaitae Montanea e Pagese di cui è cenno nell’atto del 1255. Il termine “Senaita”  lo troviamo ancora usato nel 1518 in “Riformanze del Consiglio Generale del Comune” inserite negli Statuti suddetti riguardanti “Senaite  delle Ville di Vallinfante, Nocelleta e Nocria, Gualdo” cioè di Ville della Guaita Montanea. 

Leggendo le disposizioni delle Rubriche sopra citate si rileva come con il termine “Senaita” si delimitano in ciascuna Guaita o Villa una o più zone dove per il periodo  “Kalendis mensis martii usque ad quindecim dies entrante julio”  e talvolta da “Kalendis mensis Aprilis usque a Kalendas Julii, nemo cum bestiis habeat transire” (cum bestiis minutis et gengis non domatus)  mentre ciò era lecito con “Bobus aratoriis et vitulis lac sugentibus”. Quindi al termine “Senaita” viene dato il significato di limite negativo. 

A tale proposito ricordiamo che in altri Comuni delle Marche la Senaita era l’indicazione con segni visibili (signata) del limite amministrativo e giurisdizionale del Comune: in altre parole confini del diritto del Comune  di riscuotere collette ed imposte. E’ anche noto che la suddivisione del territorio in “senaite” rispecchiava anche una divisione del territorio  molto antica (territorio esterno alla Terra, naturalmente) e che in ogni modo lasciava supporre che il Comune avesse estesa la sua giurisdizione anche su luoghi ed abitanti che il primitivo patto comunale aveva considerati come estranei all’associazione, e perciò lasciati liberi di vivere “sicut consueverunt”. La ripartizione in contrade doveva riguardare un più recente momento storico nello sviluppo del Comune. Comunque senaite e contrade o Guaite erano sempre e comunque distinti con nomi propri. 

Negli Statuti di Visso, alle rubriche citate, i due termini di Senaita e Contrada o Guaita stanno ad individuare zone dove ad alcune specie di bestiame, pecore e cavalli bradi, era proibito l’accesso  in alcuni periodi ben determinati: finirono quindi per indicare in ogni Guaita e Gruppi di Villaggi i limiti di zone riservate a bovi aratori e vitelli da latte. Indicano cioè le così dette “bandite” e nelle stesse rubriche sono indicate le pene per eventuali infrazioni al divieto stabilito. 

La Rub. XVI dello stesso Libro IV° degli Statuti ha per titolo: “De bona Comunis reinventa, et reinvenienda jaciant pro Comune”. Il testo della rubrica che parla di “bona comunalia at que nullus possit dicta bona apprehendere, vel occupare ad poenam …….et nichilhominus dicta bona apprehensa, vel occupata restituere, vel relapsare teneatur, ad dictam poenam de facto exigendam” sancisce praticamente un diritto del Comune sui beni immobili dei quali il Comune sia rientrato in possesso. Va segnalato il termine “bona comunalia” di questa rubrica. 

Dalla Rubrica XVII dello stesso Libro IV° degli Statuti, intitolata “De poena damnum dantium cum bestiis” possiamo individuare le diverse qualità di culture effettuate nel territorio dell’Antico Comune di Visso:

 “terra bladata – pratis non falciatis vel giffatis – ortis – prato guardato – pratis – vineis – silva – canapina” per le quali sono stabilite pene diverse per i danni provocati dal pascolo del bestiame in contrasto con le disposizioni vigenti. E’ interessante per la nostra indagine la seguente disposizione della stessa rubrica: “Si autem hujusmodi animalia minuta, videlicit pecudes, vel caprae per prata messa inveniat solvat custos ipsarum pro qualibet earum comuni praedicto denario sex, praeterquam in Monte Femae posito in pertinentiis villae Aschi, in monte Nocelletae, in Monte Gualdi, in Monte Vallis Infantis, in montibus Vallis Uxitae. In pratis quoque dictae bestiae possin pascere, et per eadem ire, posquam fuerint messa, sine poena; nisi dominus talis prati publice fecerit bandire in platea Terrae Vissi quod in prato suo in ipso monte posito licet messo cum bestiis nullus det damnum, eo casu pro qualibet bestia ipsum pratum intrante sex denariorum sit poena” e il divieto cominciava da “Kalendis Martii quousque foenum fuerit messum” In poche parole la disposizione citata permette il pascolo del bestiame anche sui prati dopo che ne è stato falciato il fieno: prati sparsi in tutto il territorio del Comune di Visso. 

La Rubrica 62 dello stesso libro IV° degli Statuti parla dei pascoli del Comune di Visso e del modo di mantenerli e condurli. Essa s’intitola “De pascuis comunis manutendis” e dice: “quod pascua comunis Vissi posita tam in monte Valdi, et valle Sancti Laurentii, in Plano Perduto, valle Orteccia et valle Longa, quam etiam in aliis circumstantiis partibus, prout hactenus terminata fuerunt per massarios e terminatores positos per Comune praedictum, jaceant pro ipso comuni libera et absoluta, et nemo de illis audeat occupare; et si quis occupavisset relapsare cogatur. Et si termini ibi, jam missi, vel facti dare non apparerent ibidem, loco ipsorum mictantur, vel fiant per homines scientes melius veritatem, eligendos per dominos priores populi. Et pecorarii qui pro tempore ipsa pasqua ement, vel aliquo modo conducent extra ipsorum pasquorum terminos versus prata et possessionem hominum Villae Gualdi, et hominum aliarum villarum districtus Vissi, et terrae Vissi non ammandrient …….”.  Ciò indica l’esistenza di vasti comprensori pascolivi di esclusiva spettanza del Comune, da questo terminati e utilizzati con la vendita del pascolo stesso ai pecorari o, come vedremo meglio in seguito, con l’affitto anche triennale dopo che per alcuni di essi (Vallestretta, Valle Orteccia, Piano Perduto e San Lorenzo) furono definite vertenze con Comuni vicini circa la loro appartenenza. 

La Rubrica XCI dello stesso Libro IV° degli Statuti è intitolata: “De poena non restituentium coptimum de terris Comunis” e dice “quod laborantes de bonis comunis teneantur restituere dominis quinque prioribus, qui pro tempore erunt, debitum coptimum seu terraticum per totum mensem septembris ad poenam ……. et nichilhominus ad restitutuionem dicti coptimi compellatur”. E la Rubrica XVIII del terzo Libro degli stessi Statuti intitolata “De poena negantis possessionem aliquid quam acceperit ad laboritium” dice: “Si quis vero laboraverit aliquam petiam terrae spetialim personarum, vel Comunis Vissi sine licentia sindici dicti comunis poena ….”. 

Tutto questo indica l’esistenza di terre seminative comunali sulle quali, oltre che sulle proprie, i cittadini esercitavano la coltivazione dei cereali contro pagamento del “comptimo” o “terraticum”. E parimenti si deduce che la coltivazione di tali terre era consentita soltanto con la licenza del Sindaco del Comune. 

I Capitoli del Danno dato che, come abbiamo detto risalgono al 1613, al punto 7 dicono fra l’altro: “Con dichiarazione che mentre il danno dato l’appaltassero li Massari delli Castelli e Ville, siano obbligati a rifare tutti li danni come di sopra che si faranno nelli beni possessioni degli uomini della Terra e Borghi solamente: ma li danni che si faranno nelli beni e possessioni di esse Guaite, Ville e Castelli, cioè nelli beni loro propri non siano obbligati di rifare danni di sorta alcuna che si facessero tra loro nelli loro propri beni …..”. Con ciò si accenna all’esistenza di beni di particolare persone, del Comune, delle Guaite, Castelli e Ville. E al punto 97 degli stessi Capitoli è detto: “Item li signori Priori e deputati ordinarono e riformorno che non sia lecito a persona alcuna far bandi ancorché in beni propri senza licenza dei signori Priori pro tempore sotto pena di due scudi per ciascuna persona che contravverrà al presente capitolo”. E al punto 98 “ordinorno ed aggiunsero al capitolo 26 delle Erbe che in quei luoghi dove non sono ristretti di vigne, che sia lecito ai propri padroni riguardare le erbe nelli loro campi da piano e da mezzo montagna in giù e di sopra non si possono geffre e geffandosi non ne sia pena alcuna”. 

Tutto questa indica l’esistenza di un diritto preminente del Comune ad imporre limiti di utilizzo della proprietà anche privata subordinandone l’uso all’interesse generale del pascolo del bestiame. Tale limite ha origine anteriore al 1613; lo troviamo infatti nei Decreti del Bossolo che venivano aggiornati ogni triennio e quindi quello da noi esaminato, che riguarda l’anno 1587, si riferisce anche a procedura osservata già da tempo. Il Decreto n. 42 dice infatti: “Ordinorno che nell’avvenire ad ognuno sia lecito, come sinora è stato osservato concedere licentia a tutti di poter pasculare nelle proprie possessioni con quest’ordine che le dette licentie debbono ottenerse inscriptis, et quanto alli contadini per mano delli Vicari delli Castelli overo del Parocchiano delli luoghi, et dopo soscritte dal Cancellario della Terra di Visse; et quanto alli homini et persone habitanti in Visse se possano scrivere da tutti i notari et sottoscritte dal Cancellario, come di sopra et in eccento che non siano scritte et soscritte siano nulle et de nessuna forza, né in alcun modo esentino dalla pena, le quali licentie si posano dare solo per un anno et non più et non vagliano se non renovate dalli predetti dechiarando che dette licentie distintamente – particolarmente et specialmente – ne in altro modo si concedano, et se saranno date in genere siano di nessun momento et non vagliano se non saranno date singolarmente et particolarmente come di sopra”. 

Ciò conferma l’esistenza di una limitazione antica nell’uso dei propri possessi, limitazione che verrà accentuata e meglio specificata nei Capitoli del Danno dato del secolo successivo. 

Per quanto riguarda le zone prative il particolare bisogno di foraggi per l’alimentazione del bestiame aveva dato luogo a disposizioni che, mentre da un lato tutelavano la raccolta del fieno, dall’altro consentivano la messa a pascolo del terreno stesso dal quale il fieno era stato falciato. A tale riguardo il Capitolo 46 dei già citati Capitoli del Danno dato stabilisce: “per coloro che damno danno con bestie nella prata che si falciano et erbe et sodi che si riguardano di particolari persone tanto della Terra come delli Castelli S. Angelo ed Ussita ed in altri luoghi et Ville del Territorio di Visso, tanto prati et erbe et sodi che siano nel piano, quanto nelle montagne ne sia pena doi bolognini per bestia minuta e capra et un giulio per bestia grossa  e non più, ancorchè in detti prati, erbe et sodi ci fussero bandite o riformanze di maggior pena passate dai SSri, Priori o dal Consiglio quali tutte nel presente Capitolo s’intendano ridotte alla detta pena di due bolognini ed un giulio, la quale pena sia dal principio di Marzo finchè saranno fienati li prati, quelli che si fienano; e dopo che saranno fienati non ne sia pena alcuna, eccetto che in quelli luoghi che saranno espressi  di sotto dalle Ville che volessero li stessi un poco di tempo dopo la falce a poterci entrare, siccome si dirà di sotto, ma dove non ne sia menzione si osservi il presente capitolo in tutto e per tutto, e quelli luoghi che non si fienano, che sono sodi che si pascolano e si danno a pascere ad altri e si vendano ne sia pena dal principio di Marzo per tutto il mese di Agosto, e da quello in poi non ne sia pena alcuna per nessuna sorte di bestiame, e se dopo detto tempo ci si facessero Inventioni non sia tenuto il danno dante, ne a pena ne meno al danno; mentre non l’avesse venduto, e non se ne possa pretendere refattione alcuna di danno dopo detto tempo e circa le erbe riguardate si osservi quanto si dirà di sotto”. (vedasi il cap. 98 già citato nella pag. precedente). 

Tale disposizione fu “moderata” in sede di approvazione dei predetti Capitoli dal Prefetto della Montagna nel senso che “quelli luoghi e Ville che sono solite vendere li erbatici ancorché siano padronali si possano vendere come per il passato e che detto capitolo non li pregiudichi in conto alcuno senza pregiudizio delle suppliche e riformanze, che hanno detti luoghi e Ville li quali restino nelle loro forze come in esso. Dichiarando che il detto Capitolo 46 si osservi per il Castel d’Ussita e Ville e per quelli che vi hanno erbe, prati e sodi, e per l’altri luoghi si intenda levato e si osservi lo stile antico”. 

E nell’ultima stesura dei Capitoli del Danno dato pervenuta sino a noi, quella del 1633 e rimasta in vigore sino alla compilazione del Regolamento Comunale di Polizia Rurale del 1880, rintracciamo le seguenti disposizioni relative ai prati che confermano quelle già citate e cioè:

“CAPITOLO 40 = item quelli che daranno danno con le bestie nelli prati che si falciano, ed erbe, e sodi che si riguardano da particolari persone ne sia pena bolognini due per bestia minuta e capra, ed un giulio per bestia grossa, e per ciascuna volta e non più, la qual pena sia dal principio di marzo, e duri finchè saranno falciati, e poi ne sia pena alcuna, eccetto però in quelli luoghi che saranno espressi nelle riforme delle Ville, le quali volessero riguardare alcuni giorni dopo la falce. E nelli sodi che non si falciano ma si pascolano, e si vendono ad altri per pascere, ne sia pena per tutto agosto e dopo non ne sia pena alcuna. Restando però ferme in suo valore le suppliche delle Castelli, e Ville, ma la pena non sia più di due bolognini, e questo capitolo abbia luogo generalmente dove è solito riguardarsi le erbe ed sodi da pascere, e che sono soliti vendersi, ma in quei luoghi dove non è solito si osservi il solito di ciascun luogo; e che nelli prati falciativi di qualsivoglia luogo dopo entrato a falciarsi generalmente ognuno abbia tempo otto giorni aver falciati li suoi prati; e non avendoli falciati passati otto giorni non ne sia pena, eccetto, che se detti parti non stessero nelle Bandite dei Bovi o altre bandite di Castelli e Ville, che in tal caso si osservino dette Bandite benché sieno falciati, e le bestie che si menano in detti prati e bandite per ricondurre i fieni non sieno tenute a pena, durante la riconduttura, ma dopo siano tenute”. 

E il successivo Capitolo 41 dice “Item che sia lecito ad ognuno riguardare e giffare erbe dopo l’entrata di aprile per tutto giugno nelli ristretti delle vigne, e dove non sono ristretti da mezza montagna in giù nelle quali erbe sia pena due bolognini per bestia minuta ed un giulio per bestia grossa e l’istessa pena sia anco per le bestie dei macellari”. 

In disposizioni precedenti a quelle del danno dato più sopra citate, la proibizione di fare riserve era espressa in termini ancora più assoluti: infatti non “era lecito a persona alcuna della Terra e Territorio di Visso geffare o riguardare erba in campi et possessioni che non siano entro il ristretto delle vigne di ciascun luogo, per levare l’abuso che si era messo di geffare le erbe persino nelle montagne et geffandosi fuori del detto ristretto non ne sia pena alcuna a nessuna sorta di bestie”. 

Per i boschi possiamo documentare una regolamentazione ancora più dettagliata e severa che va dalle disposizioni dello Statuto circa il divieto di taglio, di pascolo, di far fronde, di tagliar pali, di cavar ceppi all’obbligo di rimboschire, contenute nelle rubriche 39, 52, 55, 80 del Libro IV° degli Statuti e nei Capitoli del Danno dato ai punti 38, 39, 40, 43, 55, 57, 58 della compilazione del 1613 confermati poi nella nuova stesura dei predetti Capitoli del 1633. 

Da un esame di tali disposizioni si osserva che un gruppo di boschi, posti tutti nel territorio della Guaita Plebis, e cioè quelli di Acqua Palomba, Orneta, Valle Case e Ponte Caprara, sono riservati di diritto al Comune e sottratti al potere dei cinque Priori che per la Rub. XXX del I° Libro degli Statuti “non possint aliquo modo vel quaesito colore aliqui concedere licentiam de silvis comunis custoditis sine voluntate consilii generalis; et nullus offitialis dicti comunis audest in ipsis silvis ligna incidere ad poenam in statutis contemptam”; però dovevano nominare due speciali custodi per la sorveglianza di dette selve. Anche la Guaita di Ussita aveva assegnata di diritto una parte della Selva del Rio Sacro, mentre l’altra parte della stessa era assegnata di diritto al Villaggio di Cupi. Frequenti i divieti di pascolo e taglio in boschi privati dichiarate Bandite per un periodo di tempo determinato più o meno lungo. 

Per quanto riguarda i seminativi, pur rintracciando negli Statuti e nei Capitoli del Danno dato l’indicazione di terreni coltivati a cereali e legumi nonché l’indicazione delle pene per i danni arrecati a tali coltivazioni e l’obbligo Statuario (Rub. 81 del Libro IV°) di “quilibet de Visso et ejus districtu habens terras seu petiam terrae in plano, vel alibi in districtu Vissi tantum, acta pro orto faciendo, teneatur et debeat facere ortum de medietate unius starii terrae ….”  Non troviamo disposizioni particolareggiate sul modo di utilizzare i terreni adatti alla semina dei cereali. Però l’esistenza di norme Statuarie dirette a riservare una parte del pascolo di ogni Villa del Comune ai bovi aratori, disposizione confermate nei Capitoli del Danno dato e continuamente ricordate, lascia supporre l’esistenza di zone coltivate a cereali utilizzate dalle popolazioni mediante il diritto di semina. Nell’Archivio del Comune di Visso si possono ancora rintracciare elenchi di persone che per la semina dei così detti terreni comunali dovevano corrispondere un certo canone annuale, terreni che venivano concessi per semina ogni tre anni al migliore offerente. Poi in seguito il pagamento di tale canone non fu più curato ed i terreni già intestati al Comune finirono per diventare di proprietà privata. Verso la fine del 1800 molte zone boschive in vicinanza dei pascoli e seminativi furono cesate, nel senso che fu abbattuto il bosco e dissodato il terreno per la coltivazione dei cereali. Poi le disposizioni della Legge Forestale impedirono che tale procedimento fosse esteso. Esauritasi la fertilità del terreno “cesato”, la coltivazione venne abbandonata. 

            Dall’attuale disposizione delle zone in cui abitualmente si esercita la semina dei cereali, si ha la convinzione che soltanto in epoche relativamente recenti la semina dei cereali si sia estesa a zone relativamente lontane dagli abitati. Comunque dalle Rubriche dello Statuto già citate, e particolarmente dalla Rubrica 91 del Libro IV°, si ha notizia certa di terre del Comune lavorate (seminate) da privati che dovevano corrispondere, nei termini stabiliti, ai cinque Priori, il convenuto terraticum. 

Da quanto abbiamo veduto le terre dell’Antico Comune di Visso possono considerarsi sotto il duplice aspetto: quello del proprietario e quello degli usi esercitati dalle popolazioni. 

Nei riguardi del proprietario abbiamo: 

TERRE DI PERTINENZA DEL COMUNE ed a lui riservate, che le utilizza direttamente mediante l’affitto , se pascolive, o con la vendita dei tagli, se boschive. Sono terre sotto la giurisdizione del Consiglio Generale del Comune, che ne destinava il ricavato alle spese generali dell’Ente. Terre quindi che non potevano essere occupate da nessuno, se pascolive, terminate, affittate con procedura speciale; se boschive, i tagli non potevano effettuarsi che nei periodi stabiliti e con le prescritte modalità e dietro particolari autorizzazioni. Avevano guardiani speciali oltre i consueti. Comprendevano i grandi comprensori pascolivi di Valle Lunga e Valle Orteccia, Quarto San Lorenzo e Piano Perduto, tutti agli estremi lembi del territorio della Guaita Montanea; ed i boschi di Acqua Palomba, Valle Case, Ponte Caprara e Orneta, tutti nel territorio della Guaita Plebis: complessivamente oltre 2500 ettari di pascoli e bosco. Attualmente i boschi sono diventati per la maggior parte privati a seguito delle vendite conseguenti al noto incameramento dei beni ex comunitativi da parte della Camera Apostolica, mentre i pascoli sono rimasti di proprietà del Comune di Visso soltanto quelli di Valle Lunga e Valle Orteccia in comproprietà con privati, mentre i vecchi pascoli riservati di Quarto San Lorenzo e Pian Perduto sono diventati per la maggior parte di proprietà privata per la ragione di cui sopra. 

TERRE DI APPARTENENZA ALLE GUAITE: Comprendevano territori dove le Guaite avevano assoluta giurisdizione e utilizzavano i proventi relativi ai tagli ed affitti per le spese particolari. Talvolta alla Guaita pervenivano anche gli affitti per la vendita delle erbe nelle Bandite o di altri appezzamenti di terre esuberanti ai bisogni delle Ville. Nei proventi della Guaita Montanea ad esempio nel periodo 1400-1600 troviamo: vendita della macchia della Guaita, vendita della Macchia di S. Bosco, affitto della macchia spettante alla Comunità, affitto del campo sopra ponte grande e taglio legna della macchia relativa, affitto del taglio della macchia vicina alle Mura castellane. Per la Guaita Uxita per lo stesso periodo troviamo: proventi per il fitto dei pascoli della Guaita, proventi per la vendita del taglio macchie della Guaita, affitto del pascolo di Costa dell’Asino e del pascolo di Alberetti e Colferente. Erano comunque terre di importanza limitata e  di superficie relativamente estesa. In un secondo tempo si aggiungerà anche il provento dei terreni dissodati nell’ambito di ciascuna Guaita ei i proventi delle tartufanare dove queste esistevano. 

TERRE APPARTENENTI ALLE VILLE: amministrate direttamente dai Consigli locali e comprendenti la maggior parte del territorio delle Guaite, provenienti forse o da possessi originari o da eventuali assegnazioni fatte dal centro Visso alle singole Ville, come avvenne per Norcia, destinate ai bisogni del pascolo, legnatico e semina degli abitanti delle rispettive Ville o di aggruppameti di Ville. Però per usufruire del pascolo Comune nel periodo estivo, pascolo che investiva come vedremo anche le terre private non recinte e limitatamente nel tempo quelle giffate o riguardate o bandite, era necessario il pagamento di una particolare tassa, ed il permesso della Cancelleria del Comune per potervi anche ammandriare. La tassa era stabilita ad un tanto a capo e per qualità di bestiame ed era regolata dalla Rub.85 del libri IV° degli Statuti che dice “quod quicumque de dicta Terra Vissi et ejus territorio et districtu amandriaverit, vel aliter retinuerit aliquod genus pecudum, castratorum et agnorum a sex mensis supra natorum, seu tonditorum, et caprarum in montibus comunis, vel alibi ubicumque in territorio terrae praedictae, teneatur et debeat numerum ipsarum bestiare assignare et scribi facere cancellario comunis terrae praedictae …. Qui tali consignans et scribi faciens teneatur et debeat quolibet anno usque et per totum 25 diem dicti mensis juni solvere camerario pro pascuo dictorum bestiarum ….. Excepit hominibus castrorum Sti Angeli et Uxitae qui teneantur consignare bestias Vicariis dictorum Castrorum, modo  praedicti”.  

La disposizione di questa Rubrica la ritroviamo poi nei Capitoli del Bossolo e del Danno dato e maggiormente precisata circa le epoche della denuncia, la tassa ed i controlli del bestiame denunciato. E la rubrica 63 del Libro IV° degli Statuti Vissani nel dire “quod nemo mandrias aut giaccium pecudum faciat in montibus terrae Vissi, aut in quibuscumque partibus ejusdem disctrictus, pascuis terminatis ejusdem comunis Villis duntaxat exceptis.” accenna appunto ai pascoli posti nell’ambito delle terre delle Ville. In questa terra il pascolo era dunque goduto in comune, salvo le solite formalità e le zone esuberanti venivano affittate o sistematicamente, come le Porche di Vallinfante, Le Pure di Nocria, Costa della Croce e Portella (Nocelleto) nelle rispettive Ville della Guaita Montanea; la Banditella o Vallicelle di Cupi nella Guaita Pagese, o saltuariamente come il pascolo nelle bandite. I beni delle Ville, residuati dalle vendite conseguenti l’incameramento più sopra citato, costituiranno quelli che dopo la restaurazione del Governo Pontificio verranno chiamati “Beni delle Frazioni” a ricordo forse della loro antica origine di appartenenza.  

LE TERRE DI PERTINENZA PRIVATA ED I RISTRETTI: sono queste le terre appartenenti ai privati, le così dette “possessionem”, pervenute in loro mani a seguito di titolo valido (acquisto o eredità) o a titolo di lungo possesso che talvolta traeva origine da usurpazione lentamente regolarizzata formalmente con il decorso del tempo. Per ogni anno alcuni massari appositamente designati dovevano effettuare la ricognizione delle Terre delle Ville e curare la riscossione dei canoni stabiliti per la coltivazione delle terre assegnate dalla Villa alla coltivazione dei cereali fuori dai distretti; si verificava spesso il caso che tali terre finissero per essere accatastate all’utente e considerate come proprie. Ciò accade in modo particolare per i terreni costituenti i benefici annessi alle varie e numerose Chiese dell’intero comprensorio Vissano che finirono per essere accatastati, specie in tempi recenti, ai titolari dei benefici e da questi trasmessi ai loro eredi come beni propri. Una massa importante di terre private divennero tali a seguito degli acquisti effettuati all’epoca dell’incameramento dei beni comunitari da parte della Camera Apostolica nei primi del 1800 e di cui abbiamo già detto; e siccome le vendite furono fatte con riserva dei diritti di pascolo e legnatico a favore delle popolazioni, si spiega come sulla quasi totalità delle terre private del Vissano, ubicate fuori dei ristretti delle vigne e degli orti, gravino diritti a favore delle popolazioni delle Ville nel cui comprensorio i beni suddetti si trovano. 

I ristretti erano invece zone ben determinate di proprietà privata, sottratti completamente al diritto di pascolo, anche con bestiame proprio, perché recinti e situati in vicinanza dei centri abitati, confinati ed adibiti alla coltura degli ortaggi, della canapa, della vigna e poi anche dei cereali quando la tecnica della coltivazione cominciò a progredire. Le terre private, situate fuori dei ristretti appunto perché soggette all’uso del pascolo Comune non potevano essere recinte: se boschive potevano essere sottratte al pascolo con la dichiarazione di bandite e durante il tempo necessario perché dopo il taglio si ricostituisse il bosco. 

In relazione al grado di libertà delle terre, cioè alle limitazioni imposte ai proprietari da diritti di uso a favore delle popolazioni, le terre dell’antico Comune di Visso possono suddividersi come appresso nelle seguenti categorie: 

TERRE LIBERE = sulle quali cioè le popolazioni non possono esercitare alcun uso, comprendenti cioè i grandi comprensori pascolivi e boschivi di proprietà del Comune già citati (Valle Lunga, Valle Orteccia ecc. come pascoli; Orneta, Acqua Palomba ecc. come boschi), fino a quando non furono in parte venduti a privati; le terre riservate alle Guaite e da queste affittate, limitatamente al periodo dell’affitto, e finalmente i ristretti degli orti, vigne e canepine. La libertà di queste terre, cioè la loro libera disponibilità da parte dei proprietari è riconosciuta e tutelata dagli Statuti e dai Capitoli del Danno dato. 

TERRE SOGGETTE AL JUS PASCENDI E AI DIRITTI DI LEGNATICO E SEMINA = quelle soggette al diritto di pascolo si possono suddividere in tre categorie a seconda della durata del diritto stesso:

·   Terra dove i diritti a favore delle popolazioni  e di fida a favore del Comune (pascolo estivo) si estendono per tutto il periodo in cui è possibile il pascolo; comprendono le terre appartenenti alle Ville e che non sono affittate, quelle private non comprese nei ristretti e nelle bandite, le terre o sodi falciativi o pascolivi non giffati. In queste terre i diritti di uso delle popolazioni venivano esercitati dalle stesse in conformità delle disposizioni statuarie.

·   Terre dove il diritto di pascolo non può temporaneamente praticarsi perché sottoposte alla procedura eccezionale della giffatura o semina a cereali. Potremo chiamarle terre semi libere in quanto la limitazione del diritto di pascolo variava con la natura delle coltivazioni e quindi a seconda che si trattasse di terreni seminati a grano, biade, prati falciabili e terreni sodivi e pascolivi privati giffati. Dove era un prodotto da raccogliersi, il divieto del “jus pascendi” si estendeva dalla semina al raccolto se si trattava di grano e biade (per solito il pascolo era proibito sino alla metà di agosto), se prati falciabili (da mezzo marzo sino a dopo falciati, comunque non oltre la fine di luglio), se sodi ad erba giffati o direttamente goduti dai proprietari con la procedura accennata più avanti, da mezzo marzo o primi di aprile a tutto agosto.

·   Bandite, cioè terre dove i diritti di pascolo sono limitati ad alcune specie di bestiame e proibiti a tutti gli altri. La bandita poteva interessare Terre delle Ville e terre di privati che ne avessero fatta richiesta. Sulle terre delle Ville e con riferimento al pascolo riguardavano principalmente zone riservate ai bovi aratori e vitelli da latte.Su terre private normalmente boschi e raramente seminativi la dichiarazione di bandita aveva carattere protettivo a causa del taglio recente o per altre cause. Le bandite per bovi aratori il più delle volte comprendevano anche proprietà prative private falciabili dove naturalmente i bovini potevano pascolare soltanto dopo falciato ed asportato il prodotto, o boschi privati che quindi non potevano tagliarsi: in esse gli ovini non potevano accedere prima di un certo periodo, normalmente dai primi di settembre. Questo tipo di bandita rispondeva alle sorgenti necessità agricole ed era diffusissima in tutte le Ville: anzi ogni Villa aveva almeno due bandite per bovi aratori per permettere un comodo pascolo ai bovini  sia nel periodo delle lavorazioni preparatorie (maggesi) sia in quello delle semine: e ciò in relazione ai turni di coltivazione determinati dal pascolo. Questo sistema di coltivazione a turni è bene posto in luce da un attestato del Segretario Coadiutore del Comune di Visso del 30 giugno 1780, che fra l’altro diceva, dopo aver parlato delle Bandite delle quali era dotata ciascuna Villa: “Attesto inoltre che per dare il pascolo libero alli bestiami che sono dentro la giurisdizione di detta Comunità di Visso, è stile e pratica di seminare li terreni esistenti, specialmente nei monti, a vicenda, ossia contrada, non essendo lecito ad alcuno seminare li terreni, benché propri, in quella contrada che più le pare e piace, ma solo può seminare in quella contrada ove tutti generalmente seminano, altrimenti facendosi non vengono riguardate le semenze, e li stessi padroni che qualche volta vogliono seminare qualche terreno in quella contrada, nella quale, in quell’anno, non cade la semenza, vengono convenuti ed inibiti giudizialmente, conforme puol rilevarsi dagli atti esistenti nella Cancelleria Civile di questo Governo di Visso, e tutto ciò, come si è detto, affinché li bestiami abbiano ogni anno una contrada dove possano liberamente pascolare.” 

La dichiarazione di Bandita non poteva essere fatta da privati o da Priori. I Massari della Villa interessata o il privato doveva chiederla direttamente al Consiglio Generale ed una volta approvata la domanda la Bandita veniva descritta e registrata in appositi volumi detti appunto i “Libri delle Bandite”, volumi che interessano il periodo che va dai primi del 1500 alla fine del 1600). 

I Capitoli del Danno Dato del 1613 e la loro nuova stesura del 1633 contendono la dichiarazione di numerose Bandite, alcune a carattere continuativo, alcune a carattere provvisorio specie nei boschi: e dagli atti si rileva come ogni anno dal Consiglio Generale si accogliessero domande per sottrarre al pascolo con la dichiarazione di Bandita appezzamenti boschivi privati, mentre altri erano restituiti al libero pascolo o al legnatico degli aventi diritto o dei proprietari per essere cessato il termine del divieto. Tutto questo indica un alto dominio del Comune sulle terre delle Ville e private: dominio esercitato dal Consiglio Generale e sottratto ai Consigli Locali ed alla Magistratura ordinaria del Comune e ciò per evitare un’eccessiva limitazione del diritto vantato dal Comune sulle erbe che vegetavano durante il periodo estivo su tutto il territorio Comunale, esclusi i ristretti, diritto che si concretizzava nel campo economico mediante concessione ai proprietari di bestiami cittadini e forestieri di far pascolare il bestiame contro pagamento della così detta fida di pascolo o gabella pro pascuo. 

Concludendo ci sembra che l’interpretazione degli atti e documenti antichi pervenuti sino a noi assegni il possesso originario delle terre dell’antico Comune di Visso alle Ville eccettuata la parte riservatasi dal Comune (territori pascolivi di Vallelunga ecc. e boschivi di Orneta ecc.) e cioè tanto nel caso che si ammetta per Visso la distribuzione di terre che fece Norcia, quanto nel caso che si ammetta una confederazione di antichi Villaggi con Visso capoluogo e membro della confederazione stessa.  

 

DIRITTI DI USO CIVICO GRAVANTI LE TERRE  DELL’ANTICO COMUNE DI VISSO

 

Dall’esame già fatto si può facilmente rilevare che su la maggior parte delle terre dell’antico Comune di Visso gravano diritti di uso civico a favore dell’Ente Comune e a favore delle popolazioni, diritti di diversa natura, diversamente operanti nel tempo, che gravano su tutte le terre eccettuate quelle riservate al Comune ed alle Guaite, nonché i ristretti. 

Il diritto a favore dell’Ente Comune è rappresentato dal “jus pascendi” e si delimita nel così detto diritto di pascolo estivo che è economicamente molto importante e che si estende dai primi di giugno a tutto il mese di settembre. Abbiamo visto che esso viene ceduto a terzi cittadini ed anche forestieri contro pagamento della così detta fida di pascolo. 

Le popolazioni hanno invece il diritto di pascolo invernale detto così per distinguerlo da quello di cui sopra la cui durata, tempo permettendolo, si estende da settembre a maggio ed è utilizzato principalmente dal bestiame stanziale, cioè da quel bestiame che rimane nei pascoli locali per tutto l’anno. 

Quindi il diritto di pascolo che grava le terre in questione si scinde in due ben distinti periodi di uso e con espressione impropria potremo dire che esso spetta a due titolari distinti: quello estivo al Comune che lo vende, quello invernale alle popolazioni che lo esercitano senza corrispettivo speciale. 

Non è chiaro come il Comune sia entrato in possesso del diritto di pascolo estivo che un Monitorio del Cardinale Altobrandini del 1603 lo riconosce esplicitamente al Comune, mentre Capitoli precedenti approvati da Signori, da Papi o da Delegati di questi, lasciano capire che tra i diversi privilegi confermati al Comune di Visso ci sia anche quello del jus pascendi su tutto il territorio. Anche le disposizioni Statuarie che abbiamo citate lo lasciano supporre esplicitamente. Sta di fatto che tale diritto, sia pure attraverso litigi e controversie, è sempre stato percepito dal Comune ed i litigi conclusi da sentenze sono di epoca piuttosto recente, come vedremo in seguito e riguardano più che altro l’estensione di tale diritto. 

In epoche relativamente recenti il diritto di pascolo a favore del Comune, seguendo le norme catastali venne considerato come un bene fondiario e tassato malgrado le accanite proteste del Consiglio Comunale del tempo. 

Tale diritto lo troviamo infatti registrato nel così detto Catasto Piano o Devoti del 1783 sotto la dizione: Visso Comunità ha il jus pascendi sopra tutti li terreni del suo territorio, eccettuato quelli vestiti a viti, li terreni arativi sintantoché vi è il grano, i prati sintanto che non è levato il fieno ed i sodi ad erba di particolari persone dal principio di Marzo sino a tutto agosto”. Ed in tale catasto troviamo anche la seguente intestazione:

Popolazione del Comune di Visso e suoi annessi per diritto di pascere su una superficie di tav. 145.959”. Trattasi evidentemente di diritti afferenti a tutte le zone costituenti l’antico Comune di Visso e quindi comprendenti tutte le cinque Guaite. 

Nelle istruzioni per la formazione del catasto particellare Gregoriano e precisamente nel Moto Proprio del 3 marzo 1819 relativo alla stima dei fondi, all’art. 13 si ordinava che nella stima dei terreni soggetti al pascolo si doveva distinguere il valore del terreno da quello del pascolo, intestando quello ai proprietari del terreno ed il secondo al proprietario o utente del pascolo. All’art. 119 del Regolamento relativo datato 20 marzo 1819 si specifica che il “jus serendi” si dovrà valutare a carico del proprietario del terreno mentre il “jus pascendi domini” al proprietario o utente del pascolo, utilizzato nel nostro caso dai primi di giugno al 30 settembre di ogni anno, e tale diritto si doveva valutare “tanti quanti vendi potes”. 

Quindi nel catasto Gregoriano, ogni particella del territorio Vissano, dopo la sua andata in vigore nel 1835, porta due estimi: uno fa carico al proprietario del terreno per il suo “jus serendi”; l’altro fa carico al proprietario del diritto di pascolo estivo e precisamente al Comune. Di qui le intestazioni seguenti che rintracciamo sin dal I° agosto 1859 e cioè: 

COMUNE DI VISSO: servitù di pascolo annuale che si gode dalla Comunità di Visso e suoi annessi sugli appezzamenti ai quali è contrapposta la lettera “C” (interessa Visso e Castelsantangelo con esclusione delle Ville di Vallopa e S.  Antonio di Visso);

COMUNE DI VISSO: per diritto attivo di pascolo sugli appezzamenti in mappa Vallopa e Villa S. Antonio ai quali è contrapposta la lettera “C”;

COMUNE DI Visso: per diritto attivo di pascolo sugli appezzamenti ai quali è contrapposto la lettera “A” o “B” (interessa solo la zona di Vallelunga);

COMUNITA’ DI VISSO: servitù passiva di pascolo annuale che si gode dalla Comunità di Visso e suoi annessi sugli appezzamenti ai quali è contrapposta la lettera “D” (interessa il territorio di Ussita). 

Inoltre nel foglio di testo della Matrice del catasto rustico del territorio di Visso in base all’estimo riveduto, attivato sin dal I°gennaio 1860 troviamo l’indicazione sommaria delle servitù di pascolo esistente nel territorio dell’antico Comune di Visso e cioè:

LETTERA A = servitù passive di pascolo annuale che si gode dalla Comunità di Visso su tav. 4.129,68 della mappa Vallelunga censita come intestazione n. 309 (Comunità di Visso per diritto attivo di pascolo ecc.).

LETTERA B = servitù passiva di pascolo annuale che si gode per 2/3 dalla Comunità di Visso e per 1/3 da Schiedi Egisto sopra tav. 2.131 della Mappa Vallelunga censita come all’intestazione 309 1/2 (Comunità di Visso e Schiedi Egisto per diritto attivo di pascolo ecc.)

LETTERA C = Servitù di pascolo annuale che si gode dalla Comunità di Visso e suoi annessi su tav. 110.631,94 censita come all’intestazione n. 310 (Comunità di Visso e suoi annessi per diritto di pascere su sez. 1 = diritto di pascolo attivo sugli appezzamenti ecc. e parimenti per le sezioni 2,3,4,5,7,8,9,10,12,13,14, cioè su tutto il territorio di Visso e Castelsantangelo esclusa Vallelunga e Ussita).

LETTERA D = servitù di pascolo annuale che si gode dalla Comunità di Visso e suoi annessi su 5 sezioni del Territorio di Ussita per complessive tav. 37.947,24 come all’intestazione n. 311 (Comunità di Visso e suoi annessi per diritto di pascere: diritto attivo di pascolo sugli appezzamenti contrassegnati con la lettera D nelle sezioni 1,2,3,4,5, comprendenti l’intero territorio di Ussita. 

Nelle intestazioni rileviamo la parola “Annessi” con la quale si designano le Ville o gruppi di Antiche Ville e la scomparsa della divisione in Guaite il tutto per comodità di compilazione delle intestazioni catastali. Le sezioni corrispondono al territorio di giurisdizione delle Antiche Ville o gruppi di Ville. Una sezione a parte è stata fatta per il gruppo pascolivo di Vallelunga dove al posto del Comune di Montefortino comproprietario di un terzo del territorio figura invece certo Schiedi Egisto, che l’aveva acquistata dagli eredi Bernardini, divenutini proprietari all’atto della vendita fattane dalla Camera Apostolica dopo l’incameramento. 

La conseguenza di tali intestazioni che considerarono il diritto di pascolo a favore del Comune come un diritto reale e quindi tassabile, fu che per tale diritto il Comune di Visso pagò i 2/3 dell’imposta fondiaria complessiva e quindi il proprietario restò sgravato di un peso fiscale presso a poco corrispondente alla perdita di reddito determinata dalla mancata completa disponibilità della sua terra soggetta a tale uso. 

Però nel catasto vigente, che andò in vigore nel Vissano dal 1943, forse nella considerazione che le diverse leggi abolitive degli usi civici avevano teoricamente fatto cadere il diritto di pascolo o di fida a favore dei Comuni perché, considerandolo come un uso civico, ne avevano imposto l’affranco, non troviamo più accatastato al Comune il diritto di pascolo che di fatto è tutt’ora operante nelle terre del Vissano, perché l’affranco non è ancora avvenuto. Quindi i Comuni di Visso, Ussita e Castelsantangelo, derivati dalla divisione del 1915, non pagano più una quota della tassa fondiaria interessante i seminativi, i pascoli ed i boschi sui quali permane ancora l’uso di pascolo.

La questione di chi è il titolare del diritto di pascolo estivo nel Vissano è molto antica. La troviamo già poco dopo il 1380 quando Rodolfo II Varano favorì gli Ussitani con privilegi ed avendo autorizzata la costruzione del Castello di Ussita, permise che fosse ritolta al Comune ed erogato nella fabbrica della fortezza il provento della tassa bestiame della Guaita (cioè la così detta gabella del nostro bestiame, come veniva chiamata dai Massari di allora – Pirri, Ussita pag. 7). Nessuna meraviglia quindi che nel 1463 il Comune di Visso approfittando del momento politico favorevole rientrò in possesso di tale gabella sostituendola con un canone di 25 fiorini annui da dedicarsi per la manutenzione del Castello di Ussita, canone che dopo qualche anno non fu più pagato, malgrado le proteste degli Ussitani. 

La questione divenne grave quando, a seguito dell’occupazione francese, Ussita, elevata a Comune autonomo con il nome di Pieve, dovette provvedere alla compilazione del proprio “budget” o bilancio. Si noti bene che con Decreto Imperiale del 1801 in Francia furono abolite tutte le servitù civiche e le terre rese libere, e che tale decreto fu applicato anche nelle terre del Vissano. Malgrado la conseguente abolizione della tassa fida, il Governatore Francese si vide costretto, a  fronte della impossibilità di compilare i bilanci comunali, a continuare a far percepire l’antica gabella “pro pascuo”. 

Infatti il primo bilancio del nuovo Comune di Pieve (ex Guaita Uxitae) che venne approvato nel 1810 dal Prefetto Francese del Dipartimento del Trasimeno, comprende nella parte attiva l’entrata del dazio sul bestiame depascente nel territorio di tale Comune. Il Comune di Visso avanzò formale reclamo alla Prefettura affermando che quel dazio gli spettava per il dominio assoluto ed esclusivo che esso aveva sul territorio  delle cinque ex Guaite, ma il Consiglio di Prefettura, con ordinanza definitiva del 14 febbraio 1814, respinse la pretesa. Altrettanto dovrebbe essere accaduto con Castel S. Angelo, costituito anche esso in Comune autonomo, ma non abbiamo potuto rintracciarne notizie. 

Il 14 maggio 1814 fu ripristinato nel Vissano il Governo Pontificio e si riprese quindi il vecchio ordinamento e con moto proprio di Pio VII° del 16 luglio 1816, Ussita, seguendo la sorte toccata in precedenza alle altre Guaite, divenne frazione di Visso ed il provento per diritto di pascere tornò a figurare intero nel bilancio del Comune. Leone XII° con Moto Proprio del 21 dicembre 1827 ridonò a Ussita parte della sua autonomia elevandola ad appodiato del Comune di Visso insieme a Croce. Con ciò risorse subito la questione della tassa di pascolo. 

La Sacra Congregazione del Buon Governo fece un tentativo di amichevole composizione ma, essendo questo fallito, con nota del 20 novembre 1828 incaricò Mons. Delegato di Spoleto e Rieti di esaminare la questione che si era cristallizzata su questi punti: per Ussita la tassa pascolo, vecchia gabella pro pascuo, era tassa capitale sul bestiame, mentre per Visso era tassa fida, ossia tassa per corrispettivo di pascolo nascente dalla sua pretesa di dominio su tutto il territorio delle ex cinque Guaite. 

Una transazione fatta il 15 settembre 1829 approvata con decisione del 22 gennaio 1830 dalla Sacra Congregazione del Buon Governo, fra i rappresentanti di Ussita e Visso, non ebbe seguito perché non autorizzata dai rispettivi Consigli. 

La transazione era stata preparata sulla base di riconoscere a Visso il dominio assoluto su tutti i pascoli esistenti nel suo territorio e nel territorio delle singole Università adiacenti e ai singoli cittadini il diritto di poter ovunque pascolare il proprio bestiame nei territori stessi, pagando però a Visso l’affida o corrispettivo di pascolo. Anzi, contro questa transazione particolarmente caldeggiata dal rappresentante della Congregazione del Buon Governo insorse Ussita che convenne in giudizio il Comune di Visso innanzi alla Congregazione Civile dell’Amministrazione Camerale, chiedendo che si dichiarasse nulla tale transazione, non spettare al Comune di Visso lo jus pascendi nel territorio di Ussita, essere libera Ussita di percepire tutte le singole sue rendite per reimpiegarle in spese a suo vantaggio. In una prima sentenza del Tribunale Camerale Ussita ebbe torto, ma la questione continuò innanzi al Tribunale della Sacra Rota. Si ebbero tre sentenze: quella del 5 giugno 1837, del 7 giugno 1841 e quella del 12 giugno 1857, tutte favorevoli ad Ussita, le quali, pur non escludendo il diritto di Visso sul territorio delle altre Guaite, lo negava per Ussita, stabilendo che la tassa gabella che si pagava dagli Ussitani non era stata mai fida ossia corrispettivo di pascolo, ma tassa capitale imposta dal Comune di Ussita sin dal 5 maggio 1391, che ad esso solo spettava e che i pascoli del territorio di Ussita appartenevano esclusivamente ai rispettivi proprietari dei terreni.La conseguenza fu che anche Ussita si impose la tassa fida. 

Come la Sacra Rota abbia potuto parlare di un Comune di Ussita che sin dal 1391 percepiva la Gabella bestiame, non si comprende dal momento che nel secondo registro in ordine di tempo (come abbiamo già visto) esistente nell’Archivio del Castello di Ussita è testualmente scritto: “Hic est liber sive quaternus Universitatis Vallis Uxite districtus Terre Vissi…” e la prima registrazione in tale “Liber sive quaternus” è dell’agosto 1381. Come abbiamo già detto ciò significa che in quell’epoca Ussita faceva già parte del Comune di Visso (districtus Terre Vissi) tanto è vero che nel 1380 Rodolfo II Varano tolse al Comune la gabella bestiame per darla alla Guaita di Ussita. Quindi prima del 1380 tale gabella spettava al Comune e non all’Università di Ussita. E se nel 1463 il Comune di Visso rientrò in possesso di tale gabella che gli era stata temporaneamente tolta, non fece questo un’usurpazione ai danni della Guaita di Ussita. Tanto è vero che nella supplica, che nell’agosto o settembre del 1396 Ussita inviava a mezzo di ambasciatori a Rodolfo di Varano, chiedeva che “quod gabella bestiarum de Uxita proveniret pro tempore futuro ad introitus camere dicti Castri”. 

Nel 1422 e precisamente il 16 novembre, l’Università di Ussita inviava a Rodolfo Varano una supplica per la gabella del bestiame dove fra l’altro è detto “Come a V.M. è noto, lu dicto Castello fo facto sotto la protezione et defentione de la vostra nobile casa mediante la benignità et gratia de la benedicta et inclita memoria de Misser Rodolfo, lu quale de molti benefitii et gratie concedette ad dictu luocho per edificare et fare el dicto Castello: et mediante la sua nobilità omne contrario vencemmo: fra l’antri benefitii et gratie ne concedette la gabella del nostro bestiame che se concesse in utilità de lu dicto Castello …..; mo certi suvornaturi ne lu Comuno procura et do mò de volerne ertogliere la dicta gabella: lo quale procuraro con la benedecta memoria de Misser Johanni, lo semegliante etiandio co’ la dicta memoria de misser Gentile, et li dicti Magnifici may ad esto volsero consentire et, gratia et benignità de li nostri Signori, vostri antecessori, et vostra, la decta gabella havimo posseduta per spatio de XLII anni vel circa …..” 

Questo conferma che il Castello di Ussita ebbe il godimento della gabella del bestiame nel 1380  e quindi è evidente che prima di tale epoca altri ne era in possesso. 

Non va dimenticato che fra i privilegi concessi da Rodolfo Varano al Comune di Visso nel 1409 e confermati nel 1423 figura anche il seguente capitolo: “Anche se degnese la V.M.S. ensgravarne della duana del bestiame consueta et tollerla, per la cui cascione poche massarie de bestie in Visse et nel contade sono remaste, che per sostentamento de nostra vita possamo recuverarne et averne, che, essendo obbligati, sonno tante le spese che la endustria delle bestie ad tuctu se torria via et ciò de gratia spitiale” . 

E Rodolfo accordò: “Nui scimo contenti che tengate le bestie come de sopra dicete et con epse giate dove piace, ma se colle decte bestie se pasculi nelli pasculi nostri et ad nui mi deputati ovvero en quilli da nui deputati, volimo che per lo dicto bestiame se paghe quello serrà per nui ordenato …..”. 

Ciò lascia supporre vaste proprietà dei Varano nelle quali concedevano il pascolo del bestiamo contro pagamento della fida. E siccome ai Varano subentrò il Governo Pontificio, che con il Monitorio del Cardinale Altobrandini del 1603 riconobbe il jus pascendi a favore del Comune su tutto il territorio, dobbiamo pensare che la decisione della Sacra Rota nella nota causa non abbia tenuto conto di tali particolarità. 

Forse in tale decisione non fu estraneo l’intervento di Mons. Amici Camillo, ussitano, Delegato di Spoleto dal 1839 al 1840, Vice Presidente della Consulta di Stato nel 1847, Commissario straordinario Pontificio per le Marche nel periodo 1850-1856 e Ministro del Commercio sotto il Cardinale Antonelli. 

Come corollario di tale sentenza i sigg. Caporioni, Paparelli e Rosi chiamarono in causa il Comune di Visso, al quale nel 1859 era tornata ad essere aggregata Ussita, essendo stati soppressi gli appodiati e trasformati in frazioni, perché venissero dichiarate libere le loro proprietà e restituita la tassa di pascolo pagata. Con sentenza del 4 gennaio 1867 e del 30 dicembre 1897 il Tribunale di Camerino accolse la richiesta. Quindi c’è da concludere che malgrado l’esistenza della lettera “D” i terreni privati di Ussita, secondo le due sentenze, dovessero essere esenti da qualsiasi servitù di pascolo a favore del Comune e quindi l’imposizione della tassa fida da parte dello stesso è illegale in quanto i pascoli ubicati nel territorio di Ussita appartenevano esclusivamente ai rispettivi proprietari dei terreni. 

Vedremo come questa generalizzazione è per lo meno azzardata. 

 Abbiamo sinora indicato con i termini “tassa fisa”, gabella bestiame” e “gabella pro pascuo” il compenso richiesto dal Comune pro capo bestiame per la concessione del pascolo estivo sulle terre comunali e private, intendendosi per comunali le terre costituenti la giurisdizione delle antiche Guaite. Non si tratta però di termini diversi ma di termini equivalenti usati per lo stesso oggetto nel corso dei secoli. Secondo noi essi si equivalgono ed il diritto cui si riferiscono trova il suo primo riconoscimento documentale negli statuti del 1461 (essendo questa la data più antica degli Statuti pervenuti sino a noi) e precisamente nella già citata Rub. 85 del Libro IV che prescrive l’obbligo della assegna per il bestiame da far pascolare nel territorio di tutto il Comune e di pagare entro il 25 del mese di giugno la tassa per il pascolo del bestiame assegnato. Inoltre la Riformanza del 21 marzo 1518 riportata a carte 83 dello Statuto di Visso e riguardante la facoltà di dar licenza per ammandriare  e pascolare dice: “que Priores possint de quibus loci dare licentiam, que M.D. Priori tam presentes quam futuri unita cum quator hominibus per qualiber Guaita habeant auctoritate prout presentes concilium terminandi et declarandi loca consueta ubi M. D. Priori pro tempore existentes possint dar licentiam admandriandi et pasculandi unicuique eis placuerit, in quibus quidem locis terminandis nullus possit pascular nec admandriar  abseque licentia M.D. Priori qui dicta loca declaranda et suora no possint aliqui dar licentiam admandriandi nec pasculandi et si dederit non valeant ipso juram non obstantibus Statutis et reformationibus in contrarium loquantibus …..” 

E nel Consiglio Generale del 17 aprile 1518 furono eletti gli uomini che insieme ai cinque Priori stabilivano i luoghi “in quibus M. D. Priori pro tempore existentes possint dar licentiam uniquique pasculandi et admandriandi…..” 

E nel Consiglio del 16 maggio 1518 si stabiliscono invece i luoghi dove i M. D. Priori NON possono dar licenza di ammandriare e pascolare (dall’elenco si vede che tali luoghi  sono le sensite di cui alla Rub. XXIV e 65 del Libro IV degli Statuti oltre a molte bandite che vengono con l’occasione confermate. 

Nel Consiglio generale del 29 luglio 1492 fu stabilito che, dopo una permanenza di quattro giorni nei pascoli del Comune di Visso , doveva pagarsi l’intera gabella pro pascuo mentre, per il bestiame immesso nei pascoli dopo il mese di luglio, la gabella veniva ridotta a metà. 

In seguito, le modalità per introdurre il bestiame, il controllo dei capi introdotti, il divieto di accedere e pascolare in determinati luoghi con le pene relative formeranno oggetto dei Capitoli del Bossolo e di quelli del Danno Dato, ma tutte queste regolamentazioni formalmente accentuarono il carattere di concessione perché non furono applicate soltanto per il bestiame che utilizzava il pascolo estivo, ma anche per quello stanziale. Molte disposizioni hanno carattere puramente finanziario, ma la maggior parte di esse sta a comprovare l’esercizio di un alto dominio del Comune sulle terre delle Guaite. E nei libretti di assegne del bestiame esistenti nell’archivio antico del Comune di Visso  e che partono dal 1520, noi troviamo regolarmente denunciato  ed assegnato il bestiame di cittadini della Guaita di Ussita sia pure in maniera distinta da quello dei cittadini delle altre Guaite. I proventi ricavati annualmente dalla concessione di pascolo estivo affluivano nel bilancio del Centro Visso che li utilizzava per le sue spese di carattere generale. 

Qual è la natura di questa gabella pro pascuo o più semplicemente fida? Sulla sua natura ci illumina la lettera del 25 giugno 1636 diretta dal Cardinale Barberini al Vicario Generale di Spoleto nel quale “la fida” viene qualificata prezzo del pascolo e parimenti prezzo del pascolo la definisce la lettera del Delegato Apostolico di Spoleto del 4 luglio 1816 diretta al Comune. Con altra lettera del 7/9/1816 dello stesso Delegato Apostolico venne riconfermato che la fida spetta al Comune per dominio che questi ha da tempo immemorabile sopra l’intero territorio. 

Concetto questo già espresso nella lettera della Sacra Congregazione del Buon Governo del 21 giugno 1606 nella quale si dichiara che il diritto di pascolo spetta alla Comunità di Visso. 

Del resto diverse decisioni della Sacra Rota chiariscono a chi spetti lo jus pascendi e come tale spettanza si comprovi. 

La decisione 54 del 16 marzo 1700 dice: “Jurispascendi jure dominii ad Comunitatem spectare probatur:

·   ex disposizione Statuti;

·   ex impositione taxae, illiusque solutione et exactione respectiva facta pro pretio herbarum ;

·   ex facultate attribuita per Consilium Generale Communitati pascendi et faciendi pascere animalia in territorio ;

·   ex herbas vendendi, et pretium erogandi in solutionem onerorum Communitativorum;

·   verbum pertinere dominium denotare;

·   verbum libere dominium denotat in disponente. 

In altre decisioni successive sono affermati i seguenti concetti:

· “Juspascendi privative spectat Communitatibus vel ex Statuto, pacto aut prescriptione, ut ex pretio herbarum solvant onera, vel Cameraria, vel Communitativa (decisione n. 74)”

· “Juspascendi jure domini ad Comunitatem spectare quomodo probatur: probatur ex titulo et ex longeva possessione (decisione 143)

· ex sententia in re giudicata (decisione 102)

· ex venditione et locatione pascuorum facta per Communitatem (decisione 143)

· ex dispositione Statuti (decisione 143)

· ex impositione taxae, illiusque solutione et exactione respective facta pro pretium herbarum (decisioni 54 e 143). 

In particolare nella decisione 143 del 26 giugno 1709 è detto:

· fida vulgo nuncupatur pretium herbarum;

· Jurispascendi dominium spectare ad Communitatem probatur ex titulo et ex longeva possessionem;

· Posessio juris pascendi penes communitatem probatur ex venditione et locatione pascuorum. 

Interessanti per chiarire l’argomento sono le spiegazioni che la Congregazione del Buon Governo dà sulle decisioni 143 e 102 della Sacra Rota più sopra riassunte. Esse dicono: “l’affida o sia fida altro propriamente non è che il prezzo delle erbe come afferma la Sacra Rota nella decisione 102 al n. 1 e nella decisione 143 allo stesso numero”. Circa l’affida ed il di lei pagamento si emanarono diverse costituzioni apostoliche. In questa materia varie sono, non meno che frequenti, i ricorsi fatti alla Sacra Congregazione del Buon Governo e particolarmente dagli ecclesiastici sia regolari che secolari e d’altri privilegiati, e varie anche le risoluzioni presesi. 

Con tutta facilità le medesime restano tra di loro conciliate comminandosi con la seguente distinzione, cioè: 

1. o l’affida è prezzo delle erbe che dalla comunità si vendono come padrone del pascolo per titolo legittimo, cioè per ragione di dominio, privilegio Apostolico, concessione, patto, speciale convenzione o consuetudine immemorabile, e in questo primo caso tutti indifferentemente, non meno laici che ecclesiastici, sia regolari che secolari, e gli altri privilegiati ed esenti sono tenuti al di lei pagamento e debbono attendersi le risoluzioni presesi dalla Sacra Congregazione;

2.  o l’affida non è prezzo delle erbe, ma colletta imposta dalla Comunità o sopra agli animali per capita o sopra i padroni dei medesimi che li introducono nei pascoli del suo territorio ed in questo secondo casa deve sub distinguersi: o la colletta è veramente communitativa ed allora alla medesima non debbono contribuire che i soli laici, oppure detta Colletta è destinata al pagamento di pesi camerali e in questo altro caso debbono alla medesima contribuire “non solo i laici ma eziandio gli ecclesiastici si regolari che secolari ed altri privilegiati” 

Tale distinzione conduce a due diverse classificazioni della fida:  una di diritto privato, cioè prezzo delle erbe vendute dalla Comunità come padrona del pascolo ed una di diritto pubblico, cioè una tassa stabilita dalla Comunità sul bestiame introdotto nei pascoli del suo territorio. 

Quindi in relazione alla particolare organizzazione delle terre del Vissano, sino all’incameramento di esse da parte della Camera Apostolica, cioè sino ai primi del 1800, i pascoli di cui alla Rubrica 62 del Libro IV degli Statuti (Vallelunga, Valleorteccia ecc.) danno luogo alla fida di carattere privato che in fatti non è nella fattispecie se non prezzo delle erbe, mentre i Monti Comunis di cui alla Rubrica 85 dello stesso Libro degli Statuti, nella quale ricordiamo viene stabilito il prezzo a capo per le bestie introdotte al pascolo estivo nel territorio, danno luogo alla fida della seconda specie, cioè alla vera e propria gabella bestiame, in quanto il Comune assicura ai proprietari del bestiame introdotto da qualsiasi molestia nell’uso del pascolo. 

Quindi la fida di pascolo assume carattere di uso civico sui beni demaniali del Comune, mentre conserva quello di diritto patrimoniale sui beni comunali che hanno tale caratteristica. 

Ne tale situazione ci sembra alterata a seguito delle vendite che la Camera Apostolica fece di parte dei beni costituenti le terre comunitative dell’antico Comune di Visso, e particolarmente di parte dei beni costituenti il vasto comprensorio pascolivo di cui alla citata Rub. 52 del Libro IV degli Statuti, in quanto il Comune e per esso l’Autorità Superiore (dalla quale nell’epoca in cui si ragiona dipendeva) aveva la facoltà di cambiare la destinazione del territorio, in quanto era sempre il supremo regolatore degli usi sia pure attraverso le deliberazioni collegiali del Consiglio Generale. Però le vendite furono effettuate con riserva dei diritti delle popolazioni e quindi i terreni comunitativi, divenuti privati (specie quelli di Quarto San Lorenzo, Monte di Gualdo, Piano Perduto ecc.) passarono nella categoria dei Monti Comunis nei quali era consentito il pascolo contro il pagamento della seconda specie di fida, cioè della gabella bestiame. 

In precedenza si è avuta la tendenza ad ammettere che la tassa fida appartenga al Comune di Visso perché questi l’acquistò da Tiboldo di Farolfo nel 1255. Si fa rilevare infatti che nella vendita che egli fece al Comune di Visso erano compresi anche i diritti feudali, fra i quali era compreso certamente quello di fidare il bestiame. Quindi la tassa fida o l’erbatico o la gabella pro pascuo che l’antico Comune di Visso prima ed i tre comuni di Visso, Ussita e Castelsantangelo poi riscuotono sui bestiami ammessi al pascolo estivo nel loro territorio sia sui terreni che appartengono al Comune, sia su quelli di proprietà privata, sarebbe corrispettivo di carattere patrimoniale e non uso civico. Però questa tesi dimentica che con atto del 13 giugno 1828 la Camera Apostolica retrocesse i terreni comunitativi  invenduti ed in precedenza incamerati, agli antichi possessori, cioè alle Guaite e per esse ai singoli Villaggi che le componevano e quindi la fida assume un carattere pubblico perché il suo titolare non è più il Comune, ma le popolazioni. E ciò anche se il Comune continui a curarne l’incasso e l’applicazione secondo le modalità stabilite da secoli.

Ci sembra che la restituzione delle terre comunitative invendute alle Ville o meglio agli antichi possessori, sia altra prova indiretta di quanto da noi asserito, e cioè che in epoca imprecisata il Comune di Visso si comportò come quello vicino di Norcia, cioè ripartì le terre fra le Ville e Castelli che lo componevano. E con ciò si spiega la natura della tassa fida o erbatico per tutto il territorio dell’antico Comune di Visso, mentre il far risalire all’atto di vendita del 1255 il possesso jure proprio del diritto di pascolo estivo o di fida al Comune di Visso, vuol dire limitarla alla parte del Vissano comprendente la sola Guaita Montanea, Villa e Pagese. Rimarrebbero fuori la Guaita Uxita e Plebis con le conclusioni emerse nella nota causa con Visso. 

E’ nostro convincimento invece che non ci debbano essere motivi di differenza fra la natura della fida di pascolo o erbatico o gabella bestiame delle diverse Guaite in quanto anche sugli usi delle stesse si esercitò lungamente l’azione livellatrice, amalgamatrice e legislativa del Comune. Se differenza ci fossero state gli Statuti le avrebbero certamente indicate. 

Questo nostro esame sulla natura e sull’appartenenza del diritto estivo di pascolo deriva dalla necessità in cui si troveranno i tecnici che dovranno affrancare le terre dell’antico Comune di Visso dagli usi civici che le gravano, di rispondere ai quesiti posti dal Commissariato per la Liquidazione degli Usi Civici di Bologna con lettera 28 gennaio 1938 all’Istruttore demaniale di Castel Sant’Angelo. E cioè di accertare l’esatta natura delle terre così dette comunali agli effetti della liquidazione dell’uso su di esse gravante a favore delle popolazioni delle singole frazioni, sia pure nei limiti degli annessi o appodiati. Cioè di accertare se “sia il godimento dei frazionisti in proprio che quello del Comune nel fidare il bestiame da commercio derivino o meno dallo stesso titolo originario di proprietà indivisibilmente considerato. In caso affermativo il Comune riscuoterebbe la fida per il bestiame da commercio, come rappresentante della frazione se i beni fossero di autonoma pertinenza di quest’ultima. Se l’originaria proprietà fosse del Comune e non delle frazioni, gli utenti frazionisti del pascolo e del legnatico lo sarebbero come abitanti del Comune e non come frazionisti, e il godimento di ciascuno di loro entro l’appodiato rappresenta una modalità dell’esercizio del diritto, per la migliore comodità dei singoli aggregati comunali differenziati in frazioni”. Si deve quindi stabilire, per questo caso, se trattasi di beni di demanio frazionale o comunale. 

Quanto alle terre di natura privata occorrerà accertare innanzi tutto se effettivamente sussiste in base ai titoli, da esaminare accuratamente, il diritto del Comune ad imporre la tassa fida o di erbatico”. Ed è proprio a questi quesiti che abbiamo cercato di rispondere con l’indagine precedente. 

Sin dal 1559 troviamo un Consiglio Generale del Comune di Visso che permette il pascolo nel territorio Comunale di bestiame forestiero, cioè appartenente e non residente, contro pagamento della gabella pro pascuo leggermente aumentata rispetto a quella pagata dai bestiami di residenti. La Congregazione del Buon Governo con sentenza del 22 agosto 1758 ordinò che per l’introduzione di bestiame di non residenti nei pascoli del territorio di Visso, oltre alle consuete formalità si dovesse avere una particolare licenza del  Comune, e nel Consiglio Generale del 16 luglio 1759 fu confermato l’obbligo della concessione di una particolare licenza senza la quale il Cancelliere del Comune non poteva neppure ricevere la denuncia del bestiame forestiero introdotto. Gravi pene pecuniarie erano poi stabilite per chi avesse introdotto sotto nome proprio bestiame appartenente a forestieri allo scopo di evadere la richiesta di licenza e il pagamento della maggiore gabella. 

Quindi, riassumendo, possiamo stabilire i seguenti punti:

1.      il Comune riserva a se l’uso di alcuni pascoli (Rub. 62 Libro IV degli Statuti) dei quali dispone anche le modalità della vendita;

2.      sugli altri terreni pascolivi del territorio comunale, compresi i privati non recinti, concede la introduzione del bestiame da commercio di proprietà dei cittadini, ed anche di forestieri, stabilendo caso per caso la zona di pascolo, l’obbligo della denuncia degli spostamenti delle mandrie, del numero dei capi e della località degli stazzi;

3.      per l’introduzione del bestiame di cui al n, 2 stabilisce il corrispettivo per ogni capo, la modalità del pagamento, nonché la durata del pascolo (periodo estivo = quattro mesi) e le zone;

4.      consente il pascolo invernale senza particolare corrispettivo, limitando però la zona come sopra al territorio assegnato alla Villa in cui risiede il possessore del bestiame non di commercio, cioè stanziale. 

Come abbiamo visto le divergenze tra Comune e Guaita di Ussita per la gabella pro pascuo erano molto antiche e si accentuarono nella seconda metà del 1800; ma esse assunsero anche un aspetto politico in quanto Ussita anelava a diventare Comune autonomo. La sua azione in tal senso creò agitazioni più o meno profonde nelle altre frazioni, specie di quelle del Gruppo Croce, aggregato nei primi del 1800 a Visso, ed in quelle della Guaita Montanea. 

Le agitazioni avevano un substrato economico per l’impossibilità di alcuni gruppi di Ville, diventate frazioni, di coprire con le proprie rendite il fabbisogno normale e per le opere pubbliche delle quali avevano urgente necessità. Inoltre c’era il sospetto che il Capoluogo approfittasse della sua posizione di privilegio per fare la parte del leone nella ripartizione delle rendite delle frazioni e nella loro erogazione. I Villaggi poi, facenti capo a Croce, rivendicavano poi anche l’amministrazione diretta dei loro beni e l’impiego a favore esclusivo dei loro abitanti delle rendite frazionali del Gruppo. 

Fra polemiche ed agitazioni varie si addivenne finalmente nel 1880 alla separazione patrimoniale fra le varie frazioni di Visso, e si mantenne in tale separazione di patrimoni e di rendite e spese patrimoniali la ripartizione delle antiche Guaite, nel senso che si costituirono quattro amministratori speciali oltre quella generale del Comune e cioè:

·   Amministrazione speciale Visso, comprendente i territori delle antiche Guaite Plebis, Villa e Pagese;

·   Amministrazione speciale Ussita, comprendente i territori dell’antica Guaita Uxita;

·   Amministrazione speciale Castelsantangelo, comprendente i territori dell’antica Guaita Montanea;

·   Amministrazione speciale Croce, comprendente i territori dell’ex Comune di Croce, di Mevale, di Chiusita, di Rasenna e Riofreddo, aggregati di recente a Visso come si è detto. 

Il vasto comprensorio pascolivo di Valle Lunga, Valle Orteccia ecc. di cui abbiamo parlato fu compreso nell’Amministrazione speciale di Visso perché di pertinenza della Guaita Plebis, pur essendo situato nel comprensorio della ex Guaita Montanea. 

In tali bilanci speciali affluivano le rendite e spese patrimoniali delle zone di competenza mentre nel bilancio generale de Comune affluivano le rendite costituite dalle tasse, dai dazi, imposte varie ecc. 

Il provento della tassa fida affluiva invece nei singoli bilanci speciali in relazione al numero dei capi di bestiami che nella stagione estiva erano introdotti al pascolo nel territorio delle rispettive Amministrazioni. 

Il R.D. 11 gennaio 1880 n. 5242 serie 2° che come abbiamo detto autorizzava le frazioni di Ussita, Castel S. Angelo, Visso e Croce che costituivano il Comune di Visso a tenere ciascuna le proprie rendite e spese patrimoniali contemplate nell’ultimo capoverso dall’art. 13 della legge Comunale e Provinciale del 1865, separate da quelle altre del Comune di Visso. Però tale decreto non ebbe immediata applicazione per lo specioso pretesto che per le frazioni di Visso, Ussita e Castel S. Angelo bisognava fare una divisione ex novo dei loro beni, in quanto quelli ex comunitativi incamerati a suo tempo dalla Camera Apostolica e non venduti, erano stati retrocessi al Comune di Visso nel 1828 a titolo di anfituesi perpetua senza distinguerli per frazioni!!! Dopo varie vicende amministrative, in quanto il Comune di Visso si agitava per la soppressione del Decreto del 1880, nel 1885 fu data pratica applicazione alle disposizioni del decreto stesso e quindi diventarono operanti le Amministrazioni speciali sopra indicate. Naturalmente si continuò ad applicare la fida di pascolo e, quando nel 1905 venne istituita la tassa bestiame, cioè una tassa sul valore attribuito al bestiame di ogni genere esistente nel territorio di ogni Comune, nel Vissano, malgrado l’esistenza della fida di pascolo e malgrado che Ussita nella nota causa con Visso avesse sostenuto che la gabella pro pascuo era tassa sul valore capitale, si impose anche il nuovo tributo. In Tal modo nelle località del vissano, dove la tassa fida aveva già il carattere d’imposizione, si applicarono tutte e due le tasse, attribuendo la fida di pascolo ai bilanci speciali delle frazioni e la nuova tassa bestiame al bilancio generale del Comune, e ciò malgrado le proteste delle popolazioni. 

Quando nel 1921 avvenne la separazione effettiva in tre Comuni autonomi dell’antico Comune di Visso, la fida di pascolo venne considerata in modo diverso: 

·   Il Comune di Ussita considera la tassa fida come diritto patrimoniale del Comune e, poiché non ha separato le rendite e le spese patrimoniali dei singoli suoi annessi corrispondenti ai territori delle antiche Ville (tanto è vero che nel nuovo catasto andato in vigore nel 1943 figurano in un’unica intestazione al Comune tutte le terre degli antichi annessi), essa è compresa con le rendite dei boschi nel Bilancio Comunale. 

·   A Castelsantangelo la fida di pascolo ha avuta la stessa denominazione, cioè è stata considerata un diritto patrimoniale del Comune (che egualmente non ha diviso le rendite e spese patrimoniali delle Vecchie Ville pur avendo nel nuovo catasto l’intestazione delle terre al Comune con riferimento però agli annessi) e quindi compresa nel Bilancio Comunale, che è unico come quello di Ussita. 

·   A Visso invece la tassa pascolo è compresa nei Bilanci delle singole amministrazioni speciali in quanto le rendite e spese patrimoniali sono state tenute separate e nel nuovo catasto si è mantenuto il riferimento degli Annessi. Nel Bilancio speciale di Visso è naturalmente compreso anche il provento dei boschi e l’affitto delle zone pascolive di Valle Lunga e Valle Orteccia: il bestiame depascente nelle due Valli paga soltanto la tassa bestiame al Comune di Castelsantangelo competente per territorio, mentre nel Bilancio di Visso affluisce soltanto il fitto del pascolo delle due Valli, residuo del più esteso comprensorio di cui alla Rub. 62 del Libro IV degli Statuti. 

Il Decreto Reale del 1880 parla esplicitamente di rendite, spese e passività patrimoniali e quindi si potrebbe pensare che tale sia la natura delle terre dell’antico Comune di Visso, cioè beni patrimoniali. Invece la menzione di patrimonialità fatta nel Decreto del 1880 non è fatta in senso contrapposto a demanialità, ma solo per riferimento generico a rendite e spese di gestione, di entrata e di uscite distinte da quelle del Comune, con ciò non toccandosi menomamente il punto dei diritti di uso delle popolazioni, la cui esistenza è l’indice più sicuro della demanialità delle terre. D’altra parte è anche evidente che se la menzione di patrimonialità fosse stata intenzionale, diretta cioè alla specificazione della patrimonialità, in senso proprio, per le disposizione della Legge 16 giugno 1927 n. 1766 non sarebbe precluso chiedere l’accertamento della vera natura delle terre. E ciò perché nella predetta legge è fatto esplicito riferimento ai beni di originaria appartenenza alle frazioni sottoposti agli usi civici delle popolazioni. D’altra parte sarebbe inconcepibile che un semplice atto amministrativo potesse togliere ai frazionisti la libera amministrazione delle loro terre proprio appunto quando tale atto amministrativo non serviva ad altro che per la tutela dei loro diritti. 

Non si può opporre a sostegno della patrimonialità dei beni il fatto della percezione della tassa fida, l’affitto dei pascoli esuberanti o la vendita di parte delle erbe, la restrizione del diritto di pascolo ad alcuni periodi dell’anno, la limitazione del legnatico, la vendita dei tagli boschivi anche ad estranei, la regolamentazione del periodo di semina. E non vale neppure per dimostrare la patrimonialità dei beni in parola il fatto che le terre in questione, all’atto della retrocessione alla Comunità, furono assoggettate ad enfiteusi perpetua, al pagamento di canoni ed all’imposizione di pesi di carattere pubblico identici a quelli assunti dalla Camera Apostolica all’atto del loro incameramento. A parte il fatto che tutto questo non è inconciliabile con il concetto della demanialità dal momento che il contenuto del diritto di uso civico può restringersi senza per questo snaturarsi o scomparire, sta il fatto che si tratta di beni di uso civico di originaria appartenenza delle Ville, poi frazioni; e non va dimenticato il tenore dell’art. 46 del Regolamento 26 febbraio 1928 n. 332 per l’applicazione della Legge sulla liquidazione degli Usi Civici del 16 giugno 1927 n. 1766, che stabilisce che quando le terre non abbiano rendite bastanti al pagamento delle imposte su di esse gravanti ed alle spese necessarie per la loro amministrazione e sorveglianza, il Comune o l’associazione agraria possono sopperirvi imponendo agli utenti un corrispettivo per l’esercizio degli usi consentiti. E lo stesso articolo enuncia che le erbe e la legna esuberanti debbono essere vendute a profitto dell’Amministrazione del Comune o dell’Associazione Agraria, con preferenza ai cittadini utenti. Ciò significa che sulle terre di uso civico di originaria appartenenza alle frazioni, l’imposizione della fida da parte di chi ne ha titolo e la vendita dell’esuberanza dei prodotti non tolgono alle terre stesse il carattere di demanialità conferitole dall’esistenza dell’uso civico per far loro assumere il carattere della patrimonialità. 

Neppure il canone dal quale furono gravate le terre all’atto della retrocessione in enfiteusi perpetua agli antichi proprietari, rende possibile la tesi della patrimonialità di cui parla il Decreto del 1880 perché non trattasi di onere reale incompatibile con la natura demaniale delle terre. Infatti va tenuto presente il momento in cui tale canone fu imposto, la persona e condizione del retrocedente (Stato), le ragioni che avevano determinato l’incameramento e sopra tutto che esse, ritornando ad appartenere allo stesso Ente espropriato, ripresero l’originaria unica destinazione a vantaggio delle popolazioni, con una restituzione integrale, limitata soltanto da nuovi pesi, che per non essere inconciliabili con l’esercizio degli usi civici, non potevano mutare, per incompatibilità  la natura delle terre. 

Diversa sarebbe stata invece la situazione se le terre fossero state vendute a privati, in quanto con il passaggio in proprietà di privati si sarebbe verificato il caso dell’esistenza di usi civici su terre non più aventi natura demaniale. E la vigente legge sugli usi civici impone appunto la liquidazione di essi e l’affrancazione delle terre (art. 5 e seguenti Legge 16 giugno 1927 n. 1766) mentre sulle terre comuni che per la loro natura boschiva e pascoliva  si sottraggono alla quotizzazione, gli usi civici, ristretti al solo contenuto di essenzialità, vengono conservati e regolati (art. 42 e 43 del Regolamento 26 febbraio 1929 n. 332). 

Né le diverse vicende amministrative che condussero dapprima all’aggregazione dei Comuni di Pieve e di Castelsantangelo  a quello di Visso dopo la fine dell’occupazione Francese e poi degli Appodiati relativi, non poterono mutare l’originaria natura dei beni anche se il patrimonio di tali frazioni venne considerato unico. Tutte queste vicende non dettero luogo se non a concentrazioni di carattere puramente amministrativo e non ad una fusione dei rispettivi patrimoni, con la perdita per ciascun gruppo dell’originaria autonomia ed individualità. I beni non cessarono di appartenere alle rispettive popolazioni alle quali fu tolta la già ridotta potestà amministrativa e la diretta gestione delle terre. Quindi il Decreto del 1880, se consentì l’amministrazione separata dei beni delle frazioni, partì dal concetto incontrovertibile che si trattasse di beni frazionali, cioè di beni di spettanza originaria delle frazioni, di conseguenza non fusi con quelli del Comune. Quindi quando gli appodiati vennero soppressi ed aggregati alla Comunità madre (Comune di Visso) quali frazionari, con i rispettivi nuclei abitati, conservanti ciascuna la propria consistenza patrimoniale, non si verificò altro se non una modifica , sia pure notevolissima di carattere amministrativo. In altre parole il Comune principale (Visso) sostituì quello di Ussita e Castelsantangelo, subentrando in vece e luogo di questi ultimi nell’amministrazione dei beni dei singoli Villaggi che conservarono intatta la loro preesistente consistenza patrimoniale: ciò che non costituisce concetto  giuridicamente assurdo, perché la nozione di frazione è raggiunta ogni qualvolta sussista un centro di popolazione distinto da quello  del capoluogo, non occorrendo necessariamente a configurarlo l’estremo dell’amministrazione autonoma. 

Quindi la patrimonialità del Decreto del 1880 non ha riferimento alla natura giuridica dei beni oggetto delle amministrazioni separate di cui al detto Decreto. 

Abbiamo più volte accennato che gli usi delle popolazioni si esercitavano sulla quasi totalità dei territori assegnati a ciascuna Villa, eccettuati i ristretti. Dal Catasto Gregoriano risulta che le terre dell’antico Comune di Visso colpite da servitù di pascolo sono suddivise come segue: 

Comune di Ussita (ex Guaita Uxita)

Superficie complessiva                                                      Ha 5.440,20

Superficie terre soggette a servitù di pascolo                      Ha 3.974,72

Superficie terre intestate al Comune per gli Annessi             Ha 2.353,73

 

Comune di Castelsantangelo (ex Guaita Montanea)

Superficie complessiva                                                        Ha 7.094,17

Superficie terre soggette a servitù di pascolo                        Ha 5.927,09

Superficie terre intestate al Comune per gli Annessi               Ha 4.465,67

 

Comune di Visso (escluso Croce)

Superficie complessiva                                                         Ha 5.402,76

Superficie terre soggette a servitù di pascolo                         Ha 5.136,17

Superficie terre intestate al Comune per gli Annessi               Ha 2.642,33. 

Come si vede le superficie libere da servitù sono modeste. 

 Le particolari zone libere, o almeno che appaiano tali nel Catasto Gregoriano, sono le seguenti facenti parte degli Annessi: 

Comune di Visso:

Mappa Cupi = Le Vallicelle di circa Ha 83 

Comune di Castelsantangelo:

Mappa Nocelleto: Monticelli e Vallopara di Ha 112 circa

Mappa Vallelunga di Ha 794,57. 

Comune di Ussita:

Mappa Casali: Santillo e Pianelle di Ha 207 circa;

Mappa Vallestretta: Colle della Croce di Ha 27 circa;

Mappa Calcara Castelfantellino: Piccarello, antica bandita per bovi aratori di Ha 100 circa. 

Però c’è da osservare che nel Catasto Gregoriano alcune terre intestate al Comune “per l’Annesso di ….” sono contrassegnate dalla lettera indicante la servitù di pascolo, mentre altre non sono contrassegnate  da lettera alcuna: ciò che non è di agevole comprensione perché trattandosi di terre di originaria appartenenza degli Annessi (ex antiche Ville), esse avrebbero dovuto conservare l’antico carattere  e cioè essere in misura più o meno estesa soggette agli usi di pascere delle popolazioni. 

Trattando delle terre dell’antico Comune di Visso, abbiamo di deliberato proposito omesso di trattare delle terre della zona del Castello di Croce, poi Comune di Croce, aggregato a Visso all’epoca della dominazione Francese e poi dopo la restaurazione trasformato prima in Appodiato e poi in frazione del predetto Comune di Visso. 

Il pascolo, sia esso estivo che invernale, deve avvenire in zone delimitate dalla circoscrizione delle antiche Ville. La delimitazione rimane tutt’ora rigida ed eventuali sconfinamenti in zone limitrofe ma appartenenti alla circoscrizione di un’altra Villa, costituisce fatto contravvenzionale e come tale viene punito. In caso d’introduzione di bestiame forestiero si procede all’assegnazione di una determinata zona entro la quale il bestiame stesso deve essere contenuto pena contravvenzione. Escluse le zone affittate o destinate al bestiame forestiero o malato, il pascolo si effettuava promiscuamente entro l’ambito di ciascun Annesso, nei pascoli o sodi ad erba, nei seminativi senza prodotto, nei prati dopo asportato il fieno e nei boschi dove lo consentivano le prescrizioni del Danno dato prima e quelle forestali poi. E, siccome con l’andar dei secoli e con l’accentuarsi della proprietà privata si arrivò al punto di un vero e proprio frammischiamento tra proprietà pubblica e di privati, si giungeva alla curiosa situazione che nei luoghi non recinti il proprietario di un fondo non poteva farvi pascolare il proprio bestiame, specie quando venne a cadere la possibilità di far riservare  o giffare la propria terra. 

In antico nessuna disposizione regolava il numero dei capi da introdursi nei pascoli comuni. L’unico limite era dato dal rapporto tra il numero dei capi e la possibilità di alimentazione degli stessi in relazione anche all’altitudine dei pascoli. All’inizio dell’autunno il bestiame da commercio lasciava i pascoli dell’antico Comune di Visso e si trasferiva in quelli più bassi della Marca sino a quando non fu istituita la Dogana dei pascoli nell’Agro Romano, con l’obbligo quindi ai proprietari di bestiame di portarvi a pascere nel periodo autunno-primavera il proprio armento. 

Nei Consigli del 1600 si trovano forti lamentele contro l’introduzione del bestiame forestiero, sia pure con regolare autorizzazione del Comune, in numero tanto eccessivo da mettere a repentaglio anche la possibilità di alimentazione dei bestiami dei cittadini. 

Si ripeteva quello che nel 1400 si era verificato per i pascoli di Ussita per l’introduzione di un gran numero di capi ovini da parte dei Varano, introduzione che provocò serie proteste degli Ussitani. 

Dobbiamo mettere in rilievo che dopo la sentenza nella causa per diritto di pascere tra Ussita e Visso, conclusasi nel 1857 nel modo indicato, altre sentenze trattarono dell’interessante argomento poiché i privati, presa per base la sentenza ottenuta da Ussita, insorsero contro l’applicazione della fida di pascolo per bestiame depascente  su terreni privati. Le questioni interessarono proprietari della ex Guaita Montanea (attuale Comune di Castelsantangelo) e di quella di Ussita. In ambedue le questioni il Comune non poté dimostrare in maniera convincente di essere in possesso di titolo valido per l’imposizione di tale fida. 

Il possesso di un titolo valido fu escluso dalla sentenza del Commissariato per la Liquidazione degli Usi Civici di Roma del 30 aprile – 4 maggio 1929 nella causa Comune di Castelsantangelo contro Ghezzi e Castelli, causa per imposizione di tassa fida su terreni provenienti dalla vecchia zona di Quarto San Lorenzo, di cui alla Rub 62 degli Statuti più volte citati, acquistati durante l’incameramento. Tale sentenza fu confermata poi dal Tribunale di Macerata, dalla Corte di Appello di Ancona e finalmente dalla Cassazione di Roma in data 2 giugno 1936. 

Per la zona di Ussita la esclude la sentenza del Tribunale di Camerino del 1867 nella causa Comune di Visso contro Sili, Caporioni ecc. per rimborso di fida di pascolo imposta e percepita sul territorio di loro proprietà. Recentemente, nel 1939, una sentenza del commissariato degli Usi Civici di Bologna, nella causa Comune di Visso contro Dialuce ecc. esclude financo che la tassa di fida possa essere un diritto patrimoniale del Comune. E tutto questo malgrado che di volta in volta i Comuni di Visso e di Castelsantangelo si fossero affaticati a cercare di comprovare attraverso disposizioni statuarie, intestazioni catastali, pagamento di tributi, acquisto di diritti feudali, imposizione da tempo immemorabile ecc, la legittimità dell’imposizione della tassa di fida. 

Eppure abbiamo rintracciato nei documenti dell’Archivio di Visso una copia di sentenza della Sacra Rota del 1757 nella quale si riconosceva a Visso la facoltà di assoggettare alla fida il bestiame depascente nella Montagna Paganico o Pianelle di proprietà dei fratelli Vitalini in territorio di Ussita, quella stessa proprietà che la sentenza del 1867 dichiarerà invece immune da imposizione di fida!!! E’ da notare che la sentenza della Sacra Rota del 1757 era la conclusione di un giudizio iniziato un secolo prima, tanto è vero che nell’Archivio di Visso abbiamo rintracciato una pergamena del Cardinale Paluzio Altieri del 23 gennaio 1676 con la quale si ordina al Comune di Visso la restaurazione (ripresa) della causa con i Vitalini per jus pascendi e quindi, per essere più vicina nel tempo, doveva rispecchiare meglio delle cause seguenti l’esatto stato di diritto delle proprietà in discussione. 

Noi abbiamo visto su quali presupposti errati si basò la sentenza per diritto di pascere fra Ussita e Visso del 1857, ma, poiché essa era divenuta definitiva, era logico che la sua conclusione influisse anche sulle questioni successive aventi la stessa natura se non anche lo stesso oggetto, Però il curioso è che malgrado la sentenza del 1757 confermante l’esistenza della tassa fida sulla proprietà dei Vitalini, nel Catasto Gregoriano, all’atto del suo impianto, non troviamo indicazione alcuna di servitù di sorta. Eppure nell’intervallo non c’è notizia di eventuali atti di affranco che del resto non potevano essere effettuati se non dopo la notificazione Pontificia del 1849 e che non fu eccepito nella contestazione conclusasi del 1867. 

In altra sentenza della Giunta di Arbitri di Camerino del 1893 (alcuni proprietari erano insorti contro la dichiarazione del Comune che i loro beni erano affetti di servitù di pascolo), si giunse alla dichiarazione che tutti i beni di questi proprietari erano liberi da qualsiasi servitù facendo chiaramente apparire che in definitiva  si trattava più che di un uso civico, di una promiscuità di pascolo e quindi sottratta alle disposizioni della legge riguardante gli usi. 

Indubbiamente in tutte le questioni che ebbero per oggetto la legittimità del Comune d’imporre la tassa fida, influirono negativamente la complessa situazione giuridica delle terre, gli interessi preminenti degli armentari, la frammentarietà della documentazione storica. In nessuna delle cause riguardanti la zona di Ussita si fece cenno dell’incameramento dei beni ex comunitativi ad opera della Camera Apostolica e sopra tutto della loro vendita a privati con riserve su per giù del seguente tenore: “nella vendita et alienazione del suddetto fondo rustico sia e si intenda espressamente riservato il jus pascendi, il jus lignandi e qualunque altro legittimo diritto o servitù che a qualsivoglia persona o corpo in qualunque modo potesse de jure competere sopra il predio medesimo” (atto di vendita del 16 gennaio 1805della Congregazione Canonica ai F.lli Quaglia). E poiché il Comune di Visso, sostituitosi alle Guaite ed alle Amministrazioni delle Antiche Ville, non può essere considerato che un semplice Amministratore delle terre che, come abbiamo visto, sono di originaria appartenenza delle antiche Università, è la natura originaria delle terre che doveva essere esaminata perché è essa che attribuisce agli originari suoi legittimi possessori il diritto di fida e le servitù mantenute in vigore sulle terre diventate private dalla riserva di cui sopra. 

Per ben comprendere come ciò sia stato possibile bisogna risalire al concetto di proprietà dell’epoca. Nei primi del 1800 la compenetrazione di diversi diritti di proprietà sulla stessa cosa non era ritenuta come oggi contraddittoria. Su quasi tutte le terre gravava una molteciplità di diritti diversi per natura, ma ciascuno dei quali nella propria sfera appariva rispettabile. Nessuno pretendeva l’esclusività rigida, caratteristica della proprietà secondo il diritto romano e si aggiunga che i diritti di pascolo erano ritenuti di carattere reale e quindi soggetti di vendita o di enfiteusi, indipendentemente dalla terra in cui si esercitavano. Quindi era concepibile la vendita della terra e non la vendita del diritto di pascolo e viceversa. Che il pascolo estivo potesse essere in possesso di persona o Ente diverso dall’Università o Comune proprietario della terra lo prova, per la zona, un rapporto che il 14 luglio 1787 il Tesoriere di Camerino inviava al superiore Ufficio di Tesoreria in Roma e nel quale si accenna ad un Breve di Giulio III° del 1550, provocato dalle richieste delle popolazioni che abitavano le Ville sparse in quelle montagne. Le popolazioni suddette avevano lamentato di essere state spogliate dalle loro terre con autorità assoluta dai Duchi di Varano, signori di Camerino e dominatori in un certo periodo anche del Vissano, e che la Camera Apostolica, succeduta ai Varano, pretendeva continuare nello spoglio. Con il breve di cui sopra, che porta la data del 1 luglio 1550, il Cardinale Legato decise a favore delle popolazioni le quali rientrarono in possesso dei terreni comunitativi. Nel documento stesso (lettera del 1887) che “nello Stato di Camerino vi sono diverse montagne di proprietà delle Comunità medesime nel territorio delle quali esistono. La reverenda Camera, e per essa la Tesoreria di detta Città, ha in dette montagne il jus del pascolo da S. Angelo di maggio a S. Angelo di settembre di ciascuno anno secondo l’antica inveterata osservanza e questo diritto di pascolo che è promiscuo con le stesse Comunità, suole affittarsi alle masserie che dalla maremma vengono l’estate in montagna”. 

L’intervento di Giulio III° dovrebbe essersi applicato anche a favore del Governo di Visso poiché nell’archivio antico di detto Comune è conservato il Breve di Giulio III° del 30 maggio del 1550, con il quale fra l’altro vengono confermati alla Comunità di Visso Statuti e privilegi precedentemente concessi. 

Quanto precede dimostra che per le concezioni giuridiche del tempo c’era una scissione profonda tra i diversi diritti che potevano gravare sullo stesso terreno e quindi non c’è da meravigliarsi se la Camera Apostolica vendeva il solo terreno incamerato, senza pregiudizio sia del diritto di pascolo della Comunità e sia dei diritti delle popolazioni originariamente proprietarie. 

Quindi elemento discriminativo in tutta questa questione era, secondo il nostro modestissimo avviso, la nature delle terre passate in proprietà privata e per le quali si chiedeva o si sosteneva l’esonero della tassa fida perché se il privato non dimostrava di aver acquistato con il terreno anche i diritti di pascolo su di esso gravanti (considerati, lo rammentiamo, come diritti reali), rispettivamente in possesso del Comune e delle popolazioni o non ne avesse provveduto all’affranco, è evidente che, mentre la proprietà della terra passava, al privato rimanevano su di essa i diritti sopra accennati. 

Perciò secondo noi non è il Comune, che in rappresentanza delle antiche Ville deve dimostrare il suo diritto ad imporre la fida e produrre quindi il titolo relativo, ma è il privato che deve dimostrare che il suo terreno è libero dai diritti sopra indicati. E per la dimostrazione non può servire una decisione generica come quella della sentenza del 1857 che, come abbiamo visto, è partita da presupposti storici inesatti ed ha contestato al Comune di Visso la facoltà di imporre la tassa fida sui territori di Ussita, non perché la tassa fida non poteva essere imposta, ma perché non lo poteva ad esclusivo vantaggio del centro di Visso. E difatti noi abbiamo visto che Ussita, sia sotto il nome di gabella bestiame, o pro pascuo, o fida ha sempre pagato una tale imposizione come è dimostrato dai documenti di archivio dal 1381 ad oggi. E se si tiene presente che soltanto i ristretti degli orti e delle vigne erano libere dai diritti di pascolo e questo per le disposizioni Statuarie esaminate, per i Decreti del Bossolo e per i Capitoli del Danno Dato, ci si rende facilmente ragione che chi pretende l’esenzioni dalle servitù di pascolo di cui parliamo, deve documentarlo e non può far ricadere l’obbligo di tale documentazione su chi da tempo immemorabile ha esercitato ed esercita attualmente tali servitù. E ciò, ripetiamo, per l’originaria natura delle terre dell’Antico Comune di Visso, sulle quali, soltanto in epoche relativamente recenti si affermò la proprietà privata. Va rilevato che le terre tutte dell’antico Comune di Visso erano ad antiquo di dominio collettivo perché il territorio tutto dislocato ad altitudine che va dai 600 ai 2000 metri non consentiva altro uso se non quello del pascolo e del legnatico e gli abitanti delle Antiche Ville sparse sulle pendici ed a fondo valle non avevano altro mezzo di sostentamento che il godimento in comune di quelle terre con il pascolo ed il legnatico e con la semina via via sempre più estesa di qualche appezzamento dapprima vicino e poi sempre più lontano dal centro abitato. 

L’imbarazzante situazione in cui venne a trovarsi l’antico Comune di Visso dopo le sentenze del 1857 e del 1867 è chiaramente prospettata nel Regolamento di Polizia Rurale, che omologato dal Ministero di Agricoltura Industria e Commercio il 6 novembre 1889, andò in vigore con il primo gennaio 1880. Tale regolamento sostituì le disposizioni degli Antichi Statuti Vissani e dei Capitoli del Danno dato relative al pascolo ed i compilatori, combattuti dal desiderio di mantenere malgrado tutto al Comune il diritto di fida e le sentenze del 1857 e 1867 che gli negavano tale facoltà, usarono la dizione di “terreni destinati al pascolo promiscuo”. 

Infatti il capitolo 1° di tale Regolamento che tratta dei pascoli all’art. 1 stabilisce che “nessuno potrà condurre a pascolare sia nei beni altrui che in quelli comunali animali propri o di altri senza il permesso dei proprietari” e all’art. 2 stabilisce che “tale proibizione cessa quando trattasi di terreni:

a) di proprietà del Comune e da questi destinati al pascolo promiscuo;

b) di privata proprietà affetti dalla servitù di pascolo a favore del Comune e destinati da questo al pascolo promiscuo nell’epoca in cui ha luogo la detta servitù, salvo sempre nei proprietari il diritto di affrancazione nei modi di legge.” 

E all’art. 3 fa capolino la tassa fida sotto la denominazione di tassa pascolo. Difatti esso dice: “in siffatti terreni (quelli dell’art. 2 sopra citato), che per il godimento del pascolo sono divisi fra le varie frazioni del Comune, prosegue il solito diritto di pascolare promiscuamente il bestiame ferma l’osservanza delle disposizioni vigenti in proposito, l’obbligo del pagamento della tassa di pascolo che viene imposta dal Municipio sui bestiami che ne godono e l’adempimento di tutte le altre disposizioni che credesse il Comune di emanare in seguito per regolare l’uso del pascolo stesso nell’interesse dell’agricoltura e dell’industria pastorizia.” 

In questi articoli citati è evidente la nuova costruzione giuridica che il Comune di Visso cerca di dare alla vecchia questione della tassa pascolo o fida. Si comincia con lo spostare la proprietà delle terre dalle antiche Ville, poi frazioni al Comune; si immagina una destinazione data dal Comune alle terre stesse per una promiscuità di pascolo regolato dalle norme del Codice Civile; si considera l’antica divisione degli Annessi come una disposizione pratica per facilitare e regolare l’uso del pascolo, tenendo conto dell’ubicazione degli aventi diritto; e finalmente si sancisce l’obbligo del pagamento di una tassa di pascolo che rappresenta in definitiva la continuazione della vecchia consuetudine per la concessione del diritto di pascolo: tassa che come in antico verrà stabilita pro capo. 

Questa nuova impostazione giuridica della questione che verrà poi accolta dalla sentenza della Giunta degli Arbitri di Camerino del 1893 che, come si ricorderà, considerava il pascolo sulle terre della ex Guaita di Ussita come comunione e non già come uso civico, dimentica completamente i diritti delle popolazioni gravanti da tempo immemorabile su tutto il territorio dell’antico Comune di Visso, terre che oggi vengono chiamate comunali. Dimentica che in catasto le terre che ora il Comune amministra e che immagina divise in zone destinate per il pascolo, sono intestate si al Comune ma in rappresentanza dei singoli annessi, che poi sono le antiche Ville delle Valli del Vissano, i quali ne sono in definitiva i legittimi proprietari; dimentica che il bestiame può essere immesso nei pascoli anche da non proprietari di terreni e che la così detta proprietà comunale, che poi non è tale perché di originaria appartenenza delle Ville, ha una superficie molto maggiore di quella privata sottoposta alla così detta servitù di pascolo e sulla quale il Comune sino al 1° gennaio 1943 pagò la tassa fondiaria in relazione ai 2/3 del reddito imponibile. E poiché la tassa pascolo viene prospettata come un corrispettivo a fronte di una concessione del Comune su terre che si considerano Comunali per la concessione del pascolo promiscuo, si pongono i presupposti per considerare la tassa fida come diritto patrimoniale del Comune. 

E difatti in tutte le questioni susseguenti si considererà la fida come un diritto patrimoniale del Comune quando essa riguarda le proprietà private, in quanto la concessione del pascolo viene considerata come vendita delle erbe che vegetano sulle proprietà private e non private durante il periodo estivo, o meglio il periodo che va dai primi di giugno al 30 settembre di ogni anno. 

Dopo quanto precede, appare evidente come le sentenze nella causa Ghezzi Castelli contro il Comune di Castelsantangelo ed in quella Comune di Visso contro Dialuce ecc. (quest’ultima riguardante i beni di originaria appartenenza della frazione Croce) abbiano fatta giustizia di una costruzione giuridica che non tiene conto dell’originaria appartenenza delle terre e l’evoluzione storica del loro possesso attraverso i secoli. 

Il legnatico è un altro diritto che grava le terre boschive del Vissano e trae origine dall’antico uso di poter utilizzare per i bisogni famigliari la legna secca esistente nei boschi o la legna da lavoro necessaria per i primitivi attrezzi agricoli dell’epoca più antica. Negli Statuti troviamo già concessione in alcuni boschi per il taglio di legname necessario per le travature delle abitazioni, per i timoni dell’aratro, per le soglie delle così dette “treggie” (specie di slitte  per il trasporto a valle dei prodotti delle colture), la concessione di far pali per le vigne, la possibilità di raccogliere fogliame per foraggio. Ma con il passare degli anni tali usi si attenuarono ed attualmente non sono ridotti che alla possibilità di utilizzare il legname secco per riscaldamento ed usi vari, più che altro pali per vigne. 

Le varie disposizioni della legge forestale hanno tolto al legnatico molto della sua primitiva importanza ed oggi praticamente il diritto è ridotto alla possibilità di ottenere, contro tenue corrisposta di denaro, l’utilizzazione a taglio di una zona di bosco, il cui prodotto in legname si ritiene sufficiente per la necessità famigliare dell’utente. Può utilizzare questa concessione anche il cittadino proprietario di boschi e la possibilità di usufruire di questo diritto di legnatico è riservata a coloro che risiedono nella frazione, senza la condizione necessaria per ottenere ad esempio il diritto di pascolo che è quella di dieci anni di residenza. 

Nel territorio dell’antico Comune di Visso soltanto i boschi di proprietà frazionale, o meglio di antica appartenenza dei Villaggi, sono soggetti alla concessione di legnatico a favore degli abitanti della frazione rispettiva: quelli di proprietà privata rimangono praticamente  esenti dal legnatico ed in essi non viene neppure esercitato il diritto  di raccolta di legna morta o secca, raccolta che viene effettuata dal proprietario. 

Della legna raccolta usufruendo del legnatico è assolutamente proibito il commercio, per quanto sino a pochi anni fa le popolazioni delle Ville vicino al capoluogo approfittassero del legnatico per rifornire di legna gli abitanti del Centro, o per cambiarla con generi alimentari. E nella maggior parte dei casi il Comune utilizza i tagli boschivi delle proprietà delle antiche Ville vendendone il ricavato a terzi. 

Le masserie che durante i mesi estivi effettuano l’alpeggio in montagna possono tagliare nei boschi comunali, più vicini al loro stazzo, la legna necessaria per la confezione dei loro prodotti, per il riscaldamento e per eventuali attrezzi di lavoro: e ciò anche se il proprietario del bestiame ha residenza in frazione diversa da quella dove il bestiame è ammesso al pascolo od è addirittura forestiero. 

Oltre che negli Statuti, la regolamentazione dell’uso dei boschi la troviamo anche nei Capitoli del Danno Dato. Alcuni boschi sono dichiarati bandite per riparare i danni arrecati dal pascolo del bestiame che, come abbiamo detto, si estendeva anche sugli appezzamenti boscati sia dei privati che delle Ville. Di quelli dichiarati di spettanza della Comunità di pascolo era sottoposto a condizioni speciali, il taglio non era consentito se non per vantaggio del Comune. Nei boschi indicati nella Rub. 39 del Libro IV degli Statuti, il taglio poteva avvenire soltanto con particolare autorizzazione del Consiglio Generale. Del resto il diritto di legnatico della popolazione è esplicitamente riconosciuto da alcuni Consigli Generali del 1809 del Comune di Visso dove è detto che “la maggior parte dei beni restituiti dalla Camera Apostolica agli antichi possessori dopo l’incameramento sono beni comunali che servono e sono sempre serviti per uso di pascere e legnare a comodo degli abitanti delle rispettive Ville”. E nel Consiglio del 31 ottobre 1814 è parimenti detto: “.. che nello stato dei medesimi (beni comunitativi) formato dalla Sacra Congregazione del Buon Governo nell’anno suddetto 1809 vi sono stati compresi indistintamente tutti i beni di questa Comunità e dei rispettivi Villaggi, e per essi dei loro abitanti, some sono descritti nel pubblico censimento, senza esservi avvertito che all’esclusione della montagna denominata Vallelunga e Vallorteccia, tutti gli altri non sono che boscaglie, sterpugliati, brecciati e terre inutili ed infruttuose che non servono che all’uso di legnare e di pascolo per la popolazione……  ne’ sarebbero d’altronde suscettibili di sottoporsi ad un affitto qualsiasi perché altrimenti verrebbe la popolazione a privarsi del di lei antico diritto di legnarvi e di pascervi…..”. 

Il diritto di legnatico non ebbe fasi così movimentate come quello di pascolo, principalmente per la limitata importanza che esso aveva nell’economia locale. Le disposizioni Statuarie per le elezioni dei Custodi e Guardiani dei boschi, le proibizioni di tagliare, cavar ceppi e provvedersi di frasca verde si mantennero inalterate nei secoli sino all’editto del 1796 di Clemente XIII e all’altro editto di Pio VI del 1789 intesi a regolare il taglio del legname da costruzione nelle macchie Camerali, Comunitative  ed i particolari persone. E poiché continuavano, anzi, s’intensificavano gli abusi nell’utilizzazione dei boschi sia pubblici che privati, intervenne l’editto del Cardinal Consalvi del 27 novembre 1805 con il quale era prevista particolare autorizzazione per il taglio di alcune specie di alberi (quercia, ischio, farnia, cerro, pino, olmo) sia che si trattasse di piante isolate che di boschi sottoposti a tagli periodici. Al punto quinto di tale editto era stabilito che ad “ovviare gli inconvenienti dei tagli ed incisioni che seguono nelle selve e macchie Comunitative e Camerali e anche di particolari, ove le popolazioni hanno il jus legnandi, prescriviamo e dichiariamo che questo diritto sia limitato e ristretto alla sola legna morta e così pure ai soli cespugli infruttiferi”. Per le selve, invece, solite a tagliarsi per carbone, legna o fascine, si prescriveva al punto quarto “si continueranno a tenere per quest’uso facendo tagli periodici nelle rispettive loro scadenze, con che si debbano lasciare in ogni taglio le guide ……”. 

La conseguenza fu che le Comunità esclusero il diritto di legnatico per uso commercio, anche per piccole vendite anche nell’ambito del Comune: stabilirono i quantitativi di legna spettanti pro capite, eliminarono il diritto di tagliare liberamente il legname da lavoro e lo sottoposero a particolari condizioni.  La legge forestale del 20 giugno 1877 n. 3917 all’art. 29 dispone che “niun diritto di uso eccedente i termini dell’art. 521 del Codice Civile potrà essere concesso sopra boschi e terreni sottoposti a vincolo forestale”. E poiché nel Vissano i terreni e i boschi soggetti a vincolo forestale costituirono la maggior parte della superficie dell’Antico Comune di Visso, la risultanza fu una forte limitazione del diritto di legnatico. 

Attraverso i documenti dell’archivio possiamo rilevare tre fasi del diritto di legnatico nelle terre dell’antico Comune di Visso e cioè: dapprima era ammesso il taglio di qualsiasi specie di legna e per qualsiasi uso; in un secondo tempo era lecito tagliare ogni sorta di legna con determinata autorizzazione ma solo per uso domestico e per riparazione di casa o costruzione di attrezzi rurali; infine la popolazione aveva diritto di raccogliere soltanto la legna morta e secca in misura via via ristretta agli usi famigliari. 

Dobbiamo accennare ora all’uso civico misto pascendi e lignandi, cioè al “frondatico” o “frascatico”. Il frondatico consiste nel diritto di tagliare rami da alberi per fare fronda la quale deve servire per nutrimento e strame alle bestie. Per l’addietro questo diritto si trova largamente esercitato nell’antico Comune di Visso perché, non essendo possibile far pascolare il bestiame sui monti durante il periodo invernale ed essendo limitata la produzione dei foraggi, si procedeva verso settembre al taglio delle frasche che, unite in fascine, si conservavano per darle al bestiame come alimento nei mesi più rigidi ad integrazione della scarsa provvista di foraggio. Questi naturalmente si cibava naturalmente soltanto delle foglie, mentre i rami venivano destinati al focolare domestico. Di qui la natura mista di questo diritto che è un “jus pascendi et lignandi” insieme. Il frondatico si esercitava anche nei terreni lavorativi ed era costituito dalla raccolta delle foglie verdi, la così detta sfrondatura. In alcuni boschi del Vissano era vietato con disposizioni Statutarie, in altri era permesso, in altri era oggetto di speciali bandite nelle quali si vietava il legnatico per mantenere intatto il bosco che viene utilizzato per la fronda e per i pali di sostegno delle vigne. Attualmente questo uso si è molto ridotto ma è sempre praticato per la integrazione delle scorte foraggiere del bestiame bovino ed ovino che permane sul posto anche l’inverno.   

  

L’USO CIVICO DI SEMINA

  

Per quanto nelle zone occupate dai popoli germanici non troviamo di regola molto diffuso l’uso di semina, perché tale occupazione aveva distrutto col latifondo ogni traccia di tale uso, nelle terre dell’antico Comune di Visso lo troviamo invece esercitato dalle popolazioni. 

Dagli Statuti abbiamo già citato le rubriche che riguardano tale diritto o meglio che dimostrano l’esercizio di tale uso. E’ logico che, date le condizioni di poca sicurezza nei tempi più antichi, le zone coltivate erano ristrette, situate non distante dal Castello o dai luoghi fortificati mentre al di la di queste esigue fasce di coltivazione si estendeva la zona pascoliva e boschiva, dove il diritto al lavoro dei vassalli si esercitava mediante la semina che per ragioni agrarie si avvicendava con il pascolo. 

La vasta estensione di zone pascolive, caratteristica delle terre dell’antico Comune di Visso, divennero necessariamente un campo di godimento per le popolazioni e forse l’origine prima delle diverse Ville. 

Il diritto di semina nell’antico Comune di Visso perdette molto della sua diffusione quando i privati potettero acquistare, dopo l’incameramento dei beni comunitativi da parte della Camera Apostolica quelle terre che erano loro necessarie per l’esercizio della coltura cerealicola. In precedenza il diritto di semina era molto più diffuso e negli Archivi si rintracciano lunghi elenchi di persone autorizzate  alla semina di terre comunali contro pagamento di determinato corrispettivo in denaro. 

Nella Rub. 91 del Libro IV degli Statuti di Visso noi troviamo comminate pene contro coloro che non restituiscono il “coptimum de terris comunis” ma nella riformanza del 14 giugno 1514 inclusa a pag. 98 degli Statuti è contenuto il divieto ai proprietari delle terre di fare ranco senza licenza sia nei loro beni, come negli altri. E poco più oltre a carte 99 degli stessi Statuti è stata riportata la riformanza del Consiglio Generale del 18 marzo 1515 nella quale si tratta fra l’altro del modo di dare “licenza di fare ranco con condizione”. Ora la parola ranco sembra indicare quella forma di colonia perpetua che spesso si accompagnava e spesso si confondeva con il diritto civico di semina. E ciò ci sembra possibile perché la natura alpestre e macchiosa dei terreni dell’antico Comune di Visso mal si prestava alla costituzione di grande masse di terreno continuo dove esercitare lo jus serendi e quindi il coltivatore era indotto a scegliere una data zona che disboscava e dissodava per poi seminarvi e conservarne il possesso temporaneo pagando al proprietario la corrisposta secondo la consuetudine locale, in modo che altri non possa occuparla e lavorarla senza il suo permesso. 

Il divieto di far ranco va collegato anche ad un motivo economico dovuto al prevalere della pastorizia sull’agricoltura per modo che ogni sviluppo di questa porterebbe danno all’espansione della prima: si voleva quindi evitare la costituzione di colonie perpetue sulle terre comuni preferendo che si esercitasse invece l’uso civico di semina. Ma poiché la necessità di disporre di cereali diventava sempre più urgente, vedi le continue concessioni di Papi e Signori di trarre le grasce dalla Marca senza pagamento di gabella, verso il 1500 si attenuò la rigidità del divieto per modo che nel 1515 noi troviamo aggiunto al Libro degli Statuti la deliberazione del Consiglio che consente la licenza di far ranco con condizione. Quindi possiamo dedurne che, sia pure con opportune ed estese limitazioni, il diritto di semina coesisteva con la colonia perpetua nelle terre dell’antico Comune di Visso. 

Come abbiamo già rilevato nelle terre dell’antico Comune di Visso erano frequenti le bandite per il pascolo dei bovi aratori e per quanto tali bandite non siano prova certa dell’esistenza di un diritto di semina, in quanto le troviamo anche in Comuni dove il diritto di semina non c’era, esse in aggiunta agli altri elementi sopra citati stanno appunto a dimostrare l’esistenza di tale diritto, sia pure regolato dal Comune per la tutela dell’industria fondamentale del territorio e cioè di quella armentaria. 

Altro uso civico è quello delle “spigolo o spicatico” che troviamo indicato al capo 46 dei Capitoli del Danno Dato del 1633 che dice: “le spicarole non possino entrare a raccogliere le spiche finchè non sono levati li mannocchi, sotto pena di un fiorino per ciascuna volta, ma dandoseli licenza dai Padroni di entrarvi, le spicarole ci possino entrare senza pena”. Ci è noto che la giurisprudenza ha ritenuto lo spicatico o spicilegium (uso di raccogliere la spiga nei campi mietuti) come una semplice tolleranza invece di un vero e proprio diritto, anche perché il legislatore non ha creduto necessario comprenderla fra i diritti di uso civico sia nella Legge del 1888 che in quella del 1927. Quest’ultima dice all’art. 4 ultimo capoverso che fra gli usi civici “non vi sono invece comprese le consuetudini di cacciare, spigolare, raccogliere erbe ed altre della stessa natura. Di queste gli utenti rimarranno nell’esercizio, finché non divengano incompatibili con la migliore destinazione data al fondo dal proprietario”. Nel regolamento del 26 febbraio 1928 n. 332 per l’applicazione della legge 16 giugno 1927 n. 1766, all’art. 9 è previsto invece l’affranco degli usi di cacciare, spigolare, raccogliere erbe ed altri simili, qualora derivino da titolo e non da consuetudine. Ciò non ci sembra aderente alla natura del diritto stesso e alla sua storia perché, se si fosse trattata di una semplice tolleranza, i Capitoli del Danno Dato non ne avrebbero fatto menzione, sia pure per stabilire il fatto contravvenzionale. Il divieto contenuto nei capitoli suddetti altro non è se non una conferma della vera natura del diritto di “spicilegio” che originariamente appare sempre come diritto civico. 

Difatti dall’esistenza del diritto di spigolare si originò la disposizione che vietava il pascolo nelle stoppie per un determinato periodo dalla mietitura e ciò per dar modo agli aventi diritto dello spicilegio di esercitarlo. Dice infatti il punto 45 dei Capitoli del Danno Dato del 1633 “che non si possino pascere le stoppie con bestie minute dove sono le barcate, le quali non possano tenervesi più di dieci giorni e dentro detti giorni sia pena un bolognino per bestia minuta, quali passati non ci sia più pena”. Identica disposizione si rintraccia nel Cap. 49 del Danno dato del 1613 con la variante che i giorni in cui il grano poteva rimanere abbarcato sul campo era soltanto venti giorni. 

Attualmente l’uso di spigolare è scomparso, mentre è rimasto il divieto di pascolo nelle stoppie e nelle mezzagne che sarebbero gli spazi di terreno rimasti liberi nelle zone avvicendate con la cultura di cereali. 

Non troviamo negli statuti e nei Capitoli del Danno Dato disposizioni riguardanti la raccolta dei tartufi cha attualmente e da tempo si esercita sulle terre pubbliche e private dell’antico Comune di Visso. In epoche posteriori e precisamente verso la metà del 1700, tra i proventi delle Ville troviamo anche quelli delle tartufanare che venivano cedute in affitto. Poi non si trova più traccia dell’affitto e qualunque cittadino, mediante il pagamento di una tassa annuale al Comune, poteva dedicarsi alla ricerca dei tartufi, senza limitazione di zone, ma con la limitazione soltanto della giurisdizione territoriale Comunale. Ma il fatto che con tale semplice licenza si possono raccogliere tartufi, sia nelle proprietà pubbliche che in quelle private non recinte, senza restrizioni derivanti dalla residenza in una Villa determinata, ne fa praticamente un diritto aperto a tutti gli abitanti del Comune e quindi un vero e proprio uso secondo il concetto moderno. 

Altra servitù caratteristica del territorio dell’antico Comune di Visso è quella del transito del bestiame transumante che deve raggiungere i pascoli alti o lontani. Tale bestiame può transitare soltanto, sia nella “monticazione” che nella “smonticazione”, per le così dette strade doganali e pascolare per lo spazio di 20 canne romane, circa 60 metri, nei terreni adiacenti la detta strada e che non siano posti a coltura o seminati: esso può trattenersi nel territorio del Comune, sempre lungo le predette strade doganali, non oltre due giorni ed in capo al terzo deve aver raggiunto la località dove il pascolo deve esercitarsi. 

Prima del 1800 la questione veniva regolata dagli Statuti e dai Decreti del Bossolo, poi il 17 dicembre 1823 la notificazione del Cardinale Camerlengo Bartolomeo Pacca conferma all’art. 4 la conservazione ai pastori e proprietari di masserie il privilegio di farle passare per le così dette strade doganali. E all’art. 9 stabilisce la gratuità del pascolo e del transito effettuato per due giorni lungo le dette strade. 

La notificazione Pontificia del 29 dicembre 1849 mantiene all’art. 23 le disposizioni sopra ricordate sul transito per le strade doganali e parimenti viene confermato tale diritto immemorabile dalla notificazione del 28 aprile 1860 del Governo Pontificio, Ministero del Commercio e Lavori Pubblici. E per quanto questa ultima notificazione fosse stata emanata quando il Vissano aveva cessato di appartenere al Governo Pontificio, il diritto acquistato dai proprietari di masserie riguardanti le terre comunali ed i proprietari di fondi adiacenti le strade doganali, rappresenta una servitù costituita per utilità pubblica e non fu mai né espressamente né virtualmente abolita dalle leggi  del Regno d’Italia. Anzi, l’art. 21 del R.D. 30 novembre 1865 contenente disposizioni transitorie per l’attuazione del Codice Civile espressamente dichiarò conservate le servitù, anche discontinue, fossero o no apparenti, che al giorno dell’attuazione del Codice erano state acquistate col possesso secondo leggi anteriori. Quindi tale peso permane tutt’ora anche se praticamente le strade doganali non vengono più usate con l’intensità di una volta.  

 

LA SITUAZIONE DEGLI USI SULLE TERRE DELL’ANTICO COMUNE DI VISSO IN CONSEGUENZA DELLE LEGGI ABOLITIVE

E’ noto che nelle terre dell’antico Comune di Visso, come in quelle altre delle Stato Pontificio fu l’occupazione Napoleonica a dare il primo colpo ai diritti di uso civico e particolarmente a quelli di pascolo sulle proprietà private, che, considerati come residui feudali, vennero aboliti. 

Però si fece subito macchina indietro, e difatti nel bollettino 138 delle Leggi Francesi del 31/12/1810, dopo la premessa che i diritti di pascolo negli Stati Romani sono per la maggio parte di una natura particolare e diversa dai diritti di pascolo Comune o reciproco che esistono in Francia, si ordina: 1°) il mantenimento dell’antica legislazione sui diritti di pastura e di pascolo esistenti negli Stati Romani in conformità delle Leggi e giurisprudenza antica; 2°) l’abolizione dei diritti di pascolo che derivassero unicamente dalla giurisdizione feudale. 

Per quanto riguarda il Vissano, con lettera dell’8 maggio 1812, comunicata in copia anche ai Sindaci di Pieve (Ussita) e Castelsantangelo, l’Uditore del Consiglio di Stato, sottoprefetto del Circondario di Spoleto (Dipartimento del Trasimeno) scriveva al Sindaco di Visso che, “non ostante l’estensione data al Decreto Imperiale del 3 gennaio ultimo, portante la nuova divisione del territorio di questo Dipartimento, ciò che riguarda la percezione dei dazi comunali deve restare nel medesimo piede di cui era per l’innanzi.” 

Questa lettera si riferiva in modo particolare alla fida di pascolo per modo che praticamente l’occupazione Francese non mutò lo stato dei diritti di uso civico gravanti le terre dell’antico Comune di Visso, anche se le terre formarono oggetto di tre diversi Comuni. 

Nessuna pratica importanza ebbe l’editto del Cardinale Consalvi sulla conservazione dei boschi, emanato il 27 dicembre 1805, in quanto lo “jus lignandi” continuò ad essere esercitato come in passato e come in passato continuò il pascolo del bestiame grosso e minuto nei boschi secondo le disposizioni degli Statuti e le penalità del Danno Dato. 

La notificazione Pontificia del 29 dicembre 1849 gettò praticamente le prime basi giuridiche per l’affranco degli usi civici, ma siccome trattavasi di affrancazione facoltativa, trovò pochissime applicazioni nel territorio del Vissano: la più importante fu quella riguardante Monte Lieto (montagna ex Carucci) che, per non essere stata completamente affrancata dalle due servitù di pascolo che la gravavano (a favore del Comune l’una e delle popolazioni l’altra), ha dato luogo in proseguo di tempo a contestazioni giudiziarie che ancora durano. 

Questa notificazione è importante perché essa abolisce la validità degli Statuti e delle altre leggi locali che con tale notificazione fossero in contrasto. Però nel Vissano rimasero in vigore i Capitoli del Danno Dato trasformati in un secondo tempo nel Regolamento di Polizia Rurale che approvato nel 1889 andò in vigore il 1° gennaio 1890 ed è tutt’ora in vigore. 

Sotto il Governo Italiano la materia formò oggetto delle due leggi 24 giugno 1888 n. 5489 e 2 luglio 1891 n. 381 delle quali fu approvato il T.U. con R.D. 3 agosto 1891 n. 510. Con queste leggi le servitù civiche esercitate sopra beni comunali e privati, con o senza corrispettivo, vennero abolite, ma l’abolizione restò praticamente inattiva nelle terre dell’antico Comune di Visso in quanto la Giunta di Arbitri, incaricata fra l’altro della risoluzione delle eventuali questioni relative alle servitù civiche ed allo svincolo di esse, ebbe pochissimo lavoro. Nelle poche sentenze emesse dalla Giunta di Arbitri di Camerino, competente per territorio (9 in tutto delle quali due riguardanti la nota questione Sili, Rosi, Caporioni, Paparelli e Piscini, e le altre beni di Parrocchie), venne sempre ritenuto che nei casi sottoposti non trattavasi di servitù civiche, ma di pascolo promiscuo. Su tale determinazione certamente influì la sentenza rotale del 1857 relativa alla causa per diritto di pascolo tra Visso ed Ussita, la quale fra l’altro concludeva che i pascoli del territorio di Ussita appartenevano esclusivamente ai rispettivi proprietari dei terreni. 

La successiva legge del 4 agosto 1894 n. 397, con la quale si riconosceva, dopo determinate formalità, la personalità giuridica alle Associazioni istituite a profitto della generalità degli abitanti di un Comune, o di una frazione di un Comune, le Università agrarie ecc. per la coltivazione od il godimento collettivo dei fondi, non ebbe pratica applicazione nel Vissano perché, malgrado esistessero le condizioni giuridiche volute per la costituzione di Comunanze corrispondenti alle antiche Ville o agli Annessi, di fatto non ne venne costituita neppure una. Ciò in contrasto con quanto avvenne nei comuni vicini di Norcia, Preci, Camerino, Pievetorina ecc. 

Ciò dipese, secondo noi, da due fattori: uno relativo alla rappresentanza Comunale composta in prevalenza di grossi possessori di armenti i quali avevano interesse diretto a mantenere lo stato quo che assicurava pascoli abbondanti nel periodo estivo a prezzi vantaggiosissimi, l’altro dalla persuasione che qualunque alterazione del secolare ordinamento dei pascoli avrebbe portato alla rovina economica il Comune, in quanto non avrebbe consentito il libero esercitarsi dell’industria armentizia transumante, unica industria e possibilità di vita della zona. Il Comune sosteneva la patrimonialità delle terre di originaria appartenenza delle antiche Ville!!!! 

Inoltre, avvalendosi del disposto dell’art. 13 della legge 4 agosto 1894 n. 397 che stabiliva “nei terreni montuosi non suscettibili di migliore coltura, e soverchiamente frazionati, sarà in facoltà del Governo, su domanda degli interessati, udita la Giunta Prov.le Amm.va ed il Consiglio di Stato, di sospendere l’applicazione della Legge 24 giugno 1888”, gli utenti dei diritti di pascolo sui terreni situati nel Comune di Visso il 31 ottobre 1897 domandavano la sospensione dell’affranco delle servitù civiche, e la ottennero con il Decreto Reale del 15 settembre 1898. Quindi nel Vissano non si parlò più di affranco ed il tentativo di cui al Decreto Luogotenenziale del 20 agosto 1916 con il quale si ammisero le affrancazioni consensuali, non ebbe applicazione alcuna nella zona in parola. 

Sorvoliamo sull’applicazione pratica delle disposizioni della Legge 16 giugno 1927 n. 1766 perché le sue vicissitudine sono ben conosciute. 

Riassumendo quanto siamo andati esponendo nelle pagine precedenti ci sembra evidente che:

non vi è dubbio che la proprietà dei beni collettivi delle Ville soggette al Comune di Visso appartenesse alle medesime. Ciò risulta in modo sicuro dal complesso delle disposizioni statuarie e dagli atti consigliari del secolo XV. Anzi, in talune disposizioni dello Statuto è detto espressamente  “dei prata et possessiones hominum Villae Gualdi et hominum aliarum Villarum districtus et Terrae Vissi” (Rub. 62 Libro IV°). E poiché il Comune ha sancito numerose disposizioni tendenti a regolare e disciplinare gli usi degli uomini su dette terre e su quelle private non recinte, viene automaticamente comprovata l’esistenza degli usi medesimi (vedere disposizioni Statuarie e del Danno Dato citate dalle quali risulta come il Comune avesse facoltà di istituire bandite sulle terre collettive e private non recinte con l’approvazione del Consiglio Generale che era poi l’assemblea generale degli Uomini di tutte le Ville). Particolare risalto va dato alla disposizione della Rub. 40 dove è sancito il divieto “quod nullus cesam faciat in silvis forchae de Gualdo” che ammette implicitamente il diritto di cesare e quindi di semina, in aggiunta all’altro più frequentemente ricordato di pascolo. 

L’altro dominio che il Comune esercitava sui beni delle singole Ville, insieme alla tutela e sorveglianza sui medesimi, portava alla conseguenza che le Universitatis Hominum non potessero deliberare alcuna innovazione su tali beni senza l’approvazione del Comune. Di qui le frequenti istanze che i Massari delle Ville solevano presentare a nome delle Università da loro rappresentate, al Consiglio Generale. O le Ville in antico erano un’Università di Uomini o meglio di individui, o prima di entrare a far parte della maggiore circoscrizione Comunale di Visso erano esse stesse un Comune giuridico con amministrazione e patrimonio proprio. In quest’ultima ipotesi una volta che l’Università aveva perduto il suo carattere di persona giuridica, ossia di Comunis, era logico e conseguente che ridiventasse un’università d’individui non diversa da quella che esisteva nei tempi del dominio germanico (Longobardi), allorché il concetto di Comune non era sorto né in teoria né in pratica. Successe allora nel ”Comunis Vissi” lo stesso fenomeno che si era verificato nel periodo Romano, ove i Vici che si trovavano nel territorio del Municipium, ossia della Civitas, erano soggetti all’alto suo dominio e ricevevano da esso amministrazione e giustizia. E come allora, anche adesso il Comune esercitò il suo alto dominio sui beni appartenenti alle Ville poste sotto la sua alta giurisdizione. Di qui un’alta sorveglianza e tutela del Comune di Visso sui beni delle Ville che nel loro insieme formavano i “bona comunalia”, ma che nella loro fattispecie rappresentavano i “bona Universitatis Hominum” della tale o tal’altra Villa. Di modo che l’Università della Villa poteva disporre “ad libitum” dei propri beni, ma con l’osservanza delle norme dello Statuto Comunale e con l’approvazione prima dell’Assemblea degli Uomini della Villa e quindi del Comune. In altre parole il Comune di Visso agiva sulle Università delle Ville, attraverso le Guaite, nella stessa guisa che attualmente agisce sulle Università e Comunanze Agrarie l’Autorità Governativa, a cui dalla legge è stata affidata la loro tutela e vigilanza. Infatti esse possono fare regolamenti d’uso, trasformare la destinazione economica delle terre collettive, procedere al taglio dei boschi, all’applicazione della tassa pascolo, al godimento gratuito del patrimonio, alla limitazione o allargamento del godimento ecc., ma si richiede sempre l’approvazione della Giunta Prov.le Amm.va e del Ministero, che non solo possono annullare le deliberazioni prese in Assemblea dalle Università Agrarie stesse, ma possono anche modificarle. E tutto ciò senza che venga a disconoscersi o menomarsi il diritto della Università sui beni comuni. Lo stesso avveniva nei rapporti amministrativi relativi alle terre collettive fra il Comune di Visso e le Ville. 

Per le terre dell’antico Comune di Visso non si rintracciano notizie di concessioni enfiteutiche collettive che pure erano frequentissime nel periodo feudale: possiamo supporle pensando ai vasti domini che l’Abate di S. Eutizio doveva avere nelle valli del Vissano, ma è pura ipotesi, tanto più che nel periodo statuario non rimane traccia alcuna dei domini collettivi eventualmente derivanti da antiche concessioni livellarie. Troviamo soltanto terre dei privati, terre delle Ville e terre riservate al Comune o alle Guaite. 

Su queste terre le popolazioni da tempo immemorabile esercitavano i seguenti usi: pascolo, legnatico, semina ed altri usi minori  come frondatico, spigatico, raccolta di tartufi. Ed anche da tempo immemorabile il Comune impone la fida di pascolo per i bestiami introdotti nel territorio comunale nel periodo estivo (10 giugno – 30 settembre) mentre in quello invernale (I° ottobre – 31 maggio) il bestiame stanziale può pascolare senza corresponsione di particolari tasse al Comune. Tali diritti interessavano tanto le proprietà così dette Comunali, quanto quelle private: fanno eccezione soltanto le zone recinte in prossimità degli abitati coltivate a viti, ortaggi o a coltura avvicendata. 

Questi diritti hanno formato oggetto di denuncia presentata il 2 giugno 1926 dagli Amministratori Comunali dell’epoca in ottemperanza alle disposizioni del D.L. 22 maggio 1924 n. 751 sul riordinamento degli Usi Civici. Gli Istruttori Demaniali dei tre Comuni sorti dalla divisione dell’antico Comune di Visso hanno concordemente riconosciuta nelle loro relazioni all’Ecc.mo Commissariato per la Liquidazione degli Usi Civici di Bologna l’esistenza e della tassa fida e degli usi di pascolo, legnatico e semina a favore delle popolazioni, anche sulle terre private. Però l’affranco non è stato eseguito in nessuno dei tre Comuni, anche se per quello di Castelsantangelo le pratiche relative furono quasi ultimate. 

Sui diritti esistenti sulle terre private e sul diritto del Comune di Visso ad imporre la fida di pascolo si sono avute nel corso dei secoli le seguenti sentenze:

·   quella del 1759 della Sacra Rota che riconosceva al Comune di Visso il diritto di imporre la fida sui bestiami depascenti nella montagna Paganico o Pianelle di proprietà dei signori Vitalini in territorio di Ussita;

·   quella o meglio quelle della S. Rota del 1837, 1841 e 1857 con le quali nella questione per “jus pascendi” tra Visso ed Ussita si riconobbe che la fida di pascolo non poteva essere imposta dal Comune di Visso nelle terre di Ussita essendo quest’ultima libera di percepire tutte le singole sue rendite e che i pascoli nel suo territorio appartenevano esclusivamente e liberamente ai rispettivi proprietari;

·   quella del Tribunale di Camerino del 1867 con la quale si dichiarava non essere competuto e non competere al Comune di Visso in rappresentanza del Comune di Ussita il diritto d’imporre la fida sopra i bestiami dei signori Caporioni e Sili e quindi si dichiaravano tutti i beni rustici intestati   ad essi e posseduti nel territorio di Ussita liberi ed immuni dalla proprietà o diritto comunale di pascolo (sentenza collegata con quelle della S. Rota sopra indicate).

·   Quella della Giunta d’Arbitri di Camerino del 1893 con la quale venivano dichiarati esenti e liberi da qualsiasi servitù di pascolo i terreni posti in territorio di Ussita ed intestati negli elenchi del Comune di Visso (compilati per la legge 24 giugno 1888 n. 5489) ai signori Sili, Rosi e Caporioni. Altre successive sentenze della stessa Giunta d’Arbitri, in tutto otto, e riguardanti beni di Parrocchie e piccoli appezzamenti privati  figuranti negli stessi elenchi pervennero alle stesse conclusioni.

·   Quella del R. Commissariato per la Liquidazione degli Usi Civici di Roma del 1929 con la quale si riconobbe che alle popolazioni di due frazioni di Castelsantangelo spettava il diritto di pascere con bestiame bovino sulle terre dei Signori Ghezzi e Castelli di origine ex comunitativa, negando però il diritto di fida al Comune.

·   Quella del R. Commissariato degli Usi Civici di Bologna del 1939, con la quale si riconobbero di originaria  appartenenza delle frazioni di Visso (Croce, Fematre e Orvano), gravati da usi civici, beni che il Comune considerava invece patrimoniali perché tali li aveva classificati, insieme a quelli di Ussita e Castelsantangelo, un Decreto del 1880. 

Nella sentenza del Tribunale di Camerino ed in quella della Giunta di Arbitri, rispettivamente del 1867 e del 1893, vennero considerate come promiscuità regolate dalla legge civile le antichissime facoltà delle popolazioni di pascere i loro bestiami sulle terre private e comunali non recinte e nel periodo in cui non erano seminate. Si immaginò cioè che dato il frammischiamento della proprietà comunale con quella privata i proprietari di bestiame non potevano agevolmente utilizzare il pascolo nel loro terreno, mentre i non proprietari di terreni ma possessori di bestiame non avrebbero potuto utilizzare agevolmente il pascolo dei terreni comunali al quale avevano diritto senza invadere quelli dei privati. Ad evitare ciò si immaginò che in epoca molto antica il Comune permettesse ai privati il pascolo sulla proprietà comunale mentre i privati acconsentirono che sulle loro proprietà private esercitasse il pascolo anche la generalità degli  abitanti. Quindi la necessità delle cose avrebbe fatto sorgere una promiscuità di pascolo ben diversa dall’uso civico e regolata perciò dalle disposizioni del codice civile, allora in vigore. 

E’ vero che talora il pascolo promiscuo si fonda sulla reciprocità e comunione. Così si trova in molti luoghi, in virtù di antiche consuetudini, alcune delle quali risalgono sino al diritto romano. In tali casi esso perdura fino a che gli interessati non credano di risolvere questa specie di comunione. In conformità di così antiche tradizioni anche il nostro cessato Codice Civile nell’art. 682 dichiarò che nei territori ove è stabilita la reciprocità di pascoli, il proprietario che lo vuole può recedere in tutto o in parte dalla comunione del pascolo seguendo norme determinate. Però osserva il Calisse “il carattere di tale specie di comunione nell’uso delle terre è l’appartenere ad un gruppo di proprietari, perché son terre che servono di compimento ad altri fondi, dando ad essi l’utilità del pascolo e del bosco che altrimenti per se non avrebbero. Un simile rapporto può anche sorgere per volontà dei proprietari, ma essi non varrebbero mai a dargli il carattere pubblico, poiché il fatto che ne fu ragione rimarrebbe sempre nei limiti degli interessi privati”. La reciprocità dei pascoli di cui all’articolo citato deve essere quindi regolata dal titolo, cioè da contratto e, in mancanza di questo, dalla consuetudine. Naturalmente, nel caso delle terre di Ussita, il contratto comprovante l’esistenza della promiscuità indicata nelle sentenze del 1867 e 1893 non esisteva in quanto in nessun atto dell’Archivio di Ussita e di quello di Visso (anche in occasione della lunghissima causa del pascipascolo fra Ussita e Visso non se ne parlò) si accenna ad un fatto del genere: rimaneva quindi la consuetudine. Però a tale riguardo occorre notare che per le province comprese nell’ex Stato Pontificio, non è più possibile parlare di servitù di pascolo meramente consuetudinaria perché la legge edittale del 29 dicembre 1849 stabilì che dopo il triennio della sua pubblicazione, le servitù di pascolo si sarebbero ritenute come proibitorie e negative. Dice infatti l’art. 10 di tale notificazione “Servitù consuetudinarie = E’ in facoltà del proprietario  del fondo di esonerarsi dalla detta indennità (prescritta nell’art. 2) dimostrando che la servitù derivava da sola consuetudine ed era meramente affermativa o facoltativa ed assumendo inoltre il peso di restringere il fondo e di ridurlo interamente a migliore coltura. Questa facoltà deve essere sperimentata nel perentorio termine di un triennio decorrendo dal I° ottobre 1850”. Osserviamo che i terreni oggetto delle due sentenze del 1867 e 1893 nelle epoche suddette erano tutt’ora aperti  e niente affatto migliorati ed i proprietari del 1850 non si avvalsero della facoltà stabilita dalla notificazione appunto perché non potevano dimostrare di averne le condizioni richieste.

Pur trattandosi di sentenze passate in giudicato, abbiamo i nostri dubbi che esse possano aver mutato la natura dei diritti delle popolazioni gravanti sulle terre in questione e quindi produrre la loro estinzione. Per noi erano usi civici e tali sono rimasti. 

Com’è noto l’art. 682 del vecchio Codice Civile non fu riprodotto nel Codice attualmente in vigore e la legge 16 giugno 1927 n. 1766 parla di promiscuità ma in senso ben diverso da quello indicato dalle due sentenze che si commentano. 

Dice il Curis al suo commento alla Legge n. 1766 che “non bisogna confondere la promiscuità con gli usi civici. Le promiscuità come sono intese dalla Legge, rappresentano il concorso dei diritti di due o più persone giuridiche,che non avrebbero nessun obbligo di stabilire tali comunioni, mentre gli usi civici costituiscono un diritto essenziale degli abitanti sul fondo, al quale essi erano legati”. E fa il seguente esempio: “Se gli abitanti di un Comune esercitano il diritto di legnare nel bosco di un Comune limitrofo, non ci troviamo dinnanzi ad una promiscuità particolare. Ma se lo stesso diritto viene esercitato sopra un fondo privato, nel territorio del proprio Comune o di un altro Comune, si ha l’uso civico. Del pari si ha l’uso civico e non la promiscuità qualora due o più comuni, frazioni o associazioni esercitano insieme il pascolo, il legnatico, ecc. sopra un territorio di privata proprietà”. 

Ne concludiamo che quella specie di promiscuità di pascolo che le sentenze del 1867 e del 1893 credettero di accertare sui beni dei Sigg. Silli, Caporioni, Rosi ed altri situati in territorio di Ussita, non recinti, non possono considerarsi come promiscuità regolata dalle disposizioni del Codice Civile, ma come vero e proprio uso civico a favore delle popolazioni. Si tratta insomma di “jus pascendi civicum”, sia pure limitato nel tempo di uso.

 

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