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Buio sul castello Utveggio, su via dell’Autonomia
Siciliana, buio sul golfo di Palermo, sull’Arenella, sull’Acquasanta, le
tenebre coprono tutto, si può solo sentire ogni giorno, alle 17, il
suono delle sirene che arriva da via dell’Autonomia Siciliana, le
macchine blindate che sbucano d’improvviso da quelle tenebre in una via
che dovrebbe essere sgombra, dove dovrebbe essere vietato fare sostare
le macchine e che invece ne è tanto piena che, una volta entrati, se ne
può uscire solo a marcia indietro.
Ogni
giorno, alla stessa ora, il giudice scende dalla macchina lasciando la
sua borsa di cuoio sul sedile posteriore, deve solo suonare il
campanello della casa di sua madre e dirle di scendere perché deve
accompagnarla dal cardiologo.
Tutti gli uomini e l’unica donna della sua scorta scendono insieme a lui
e gli si fanno attorno, non hanno che il loro corpo per proteggerlo. Il
giudice suona il campanello e non si capisce se riesce a pronunciare
qualche parola prima che l’esplosione di centinaia di chili di tritolo,
anzi di Semtex, l’esplosivo usato dai militari, scateni l’inferno.
Antonino Vullo, l’autista della macchina del
giudice, è restato dentro l’auto, sta facendo la manovra per essere
pronto a ripartire appena il guidice ritornerà tenendo per il braccio la
madre. Un’onda di calore lo sbalza all’indietro ma la macchina è
blindata e resiste all’onda d’urto.
Ogni giorno, alla stessa ora, scende ferito e
intontito dalla macchina e camminando sente sotto i piedi delle cose
molli, sono i pezzi dei suoi compagni, cammina con i piedi in mezzo alle
pozzanghere, è il sangue dei suoi compagni, del suo giudice, insieme ai
quali, da allora, continuerà a desiderare di essere morto per non dovere
rivivere ogni giorno ed ogni notte, nei suoi terribili sogni, sempre la
stessa scena.
Il giudice viene tagliato in due, il troncone del
suo corpo viene sbalzato tra quel che rimane
della cancellata e la facciata crollata del palazzo. Dei corpi dei
ragazzi che lo proteggevano non rimane quasi nulla, una mano vola ogni
giorno in alto, in una sequenza senza fine, e si ferma su quello che è
rimasto su un balcone del quinto piano.
La madre del giudice sa che è scoppiata
quella bomba che tutti sanno, da due mesi, servirà per eliminare, dopo
l’altro giudice, anche suo figlio, ma, per pietà, il suo cervello le fa
credere che siano scoppiate le tubature del gas ed allora, a piedi nudi,
corre per le scale, cerca di arrivare all’esterno, scende per quattro
piani in mezzo alle macerie, alle vetrate distrutte, ma arriva giù senza
un graffio. Forse suo figlio, prima di andare via per sempre, la prende
in braccio e la porta giù, dolcemente e, quando passa vicino al suo
corpo, le chiude gli occhi per non farle vedere quello che è rimasto di
lui, quello che è rimasto di Emanuela, di Agostino, di Claudio, di
Vincenzo, di Walter. In ospedale, dove la porta un pompiere che la
raccoglie dalle braccia del giudice, dirà di non avere visto niente di
quell’inferno che c’era davanti al numero 19 di via d’Amelio, di non
avere visto il corpo di suo figlio, di non avere visto il sangue che
riempiva la strada
Ogni
giorno alla stessa ora, qualcuno, dal Castello Utveggio, vede
distintamente il giudice che sta per premere il pulsante del citofono e
preme il pulsante del telecomando che scatena l’inferno, il castello ora
è immeso nelle tenebre ma da lassù l’ingresso del numero 19 di via
D’Amelio si distingue chiaramente, illuminato dalla luce accecante dei
riflettori ed è facile sincronizzare il comando al momento in cui viene
premuto il campanello e non lasciare scampo al giudice ed agli uomini
della sua scorta.
Ogni giorno, alla stessa ora, il Cap. Giovanni
Arcangioli si avvicina alla Croma blindata del Giudice e prende la borsa
di cuoio che contiene l’agenda rossa, o è qualcuno a porgergliela, in
mezzo alle fiamme ed al fumo non si distingue bene, ma poi si allontana
con passo sicuro, guardandosi intorno, verso via dell’Autonomia
Siciliana dove c’è qualcuno ad aspettarlo Quell’attentato è stato
preparato anche per potere avere in mano quell’agenda.
Nell’allontanarsi dalla macchina calpesta gli stessi pezzi di carne, lo
stesso sangue che ha calpestato l’agente Vullo, ma dal suo viso non
traspaiono emozioni, forse ha un preciso incarico da compiere, è come
essere in guerra, e in guerra le emozioni devono essere controllate.
Arriva in Via dell’Autonomia Siciliana ma qui le luci dei riflettori che
illuminano la scena della strage non arrivano, c’è il buio, il buio
assoluto e non si riesce a vedere a chi il Cap. Arcangioli consegna la
borsa e chi ne estrae l’agenda rossa del Giudice. Vediamo solo, ancora
sotto la luce dei riflettori, qualcuno che un’ora dopo riporta la borsa,
ormai vuota di quell’agenda che potrebbe inchiodare gli assassini del
Giudice e chi aveva interesse ad eliminarlo,, sul sedile posteriore
della macchina blindata.
Sono passati 16 anni e ogni anno, al 19 di luglio,
arrivano i padroni dei tecnici delle luci, portano delle corone, le
appoggiano alle cancellate, si fanno fotografare, e intanto sorvegliano
che tutto vada come previsto, che i riflettori siano sempre accesi con
la loro luce accecante sul luogo della strage e che tutto intorno sia
tenebra, che niente si riesca a vedere di quello che è successo, di
quello che succede, intorno al luogo della strage.
Ma i tecnici delle luci possono controllare solo i
riflettori, non possono controllare il cielo e ogni tanto, nel buio,
qualche lampo arriva a squarciare le tenebre e lascia intravedere anche
se solo per un attimo, quello che loro non vogliono farci vedere, quello
che non dobbiamo, non possiamo vedere, non possiamo sapere perché su di
esso sono fondati gli equilibri e i ricatti incrociati che tengono in
piedi questa seconda repubblica, questo nuovo regime fondato sul sangue
delle stragi del 1992.
Ecco un lampo che squarcia le tenebre. Sono le 7
del mattino del 19 luglio, in via Cilea, a casa del Giudice che è in
piedi dalle 5, arriva una telefonata del suo capo, Pietro Giammanco. Non
gli ha mai telefonato a quell’ora, e di domenica, non lo ha avvisato di
un rapporto del Ros in cui si rivelava che era arrivato a Palermo un
carico di tritolo per l’attentato al Giudice che ha potuto conoscere la
circostanza per caso, all’aereoporto, incontrando il ministro Scotti, e
che sui motivi di questa omissione con il suo capo, ha avuto un violento
alterco. Non gli ha ancora concesso, da quando è rientrato da Marsala
prendendo le funzioni di Procuratore Aggiunto a Palermo, la delega per
condurre le indagini in corso sulle cosche palermitane e, in
conseguenza, la possibilità di interrogare senza la sua espressa
autorizzazione, pentiti chiave come Gaspare Mutolo. Ora, il 19 luglio,
quando la macchina per l’attentato è già posteggiata davanti al numero
19 di via D’Amelio, gli telefona per dirgli che gli concede quella
delega e gli dice una frase che, oggi, suona in maniera sinistra “così
si chiude la partita”. La moglie del Giudice, Agnese, lo sente
urlare al telefono e dire “no, la partita comincia adesso” e lo
stesso giudice, qualche tempo prima, aveva confidato al maresciallo
Canale, che
lo affiancava nelle indagini, che “in estate avrebbe
fatto arrestare Giammanco perché dicesse cosa conosceva sull’omicidio
Lima”. Dal recarsi ai funerali del quale lo stesso Giammanco venne
dissuaso solo all’ultimo momento da un procuratore.
Ecco un altro lampo, è ancora il 19 Luglio e si
vede il Giudice nella casa in cui si trasferisce in estate, a
Villagrazia di Carini che invece di dormire per una mezzora, come è
solito fare dopo aver mangiato, continua a fumare nervosamente tanto da
riempire un portacenere di mozziconi, e intanto scrive sulla sua agenda
rossa, poi prende la sua borsa di cuoio, vi mette dentro l’agenda e il
pacchetto di sigarette, saluta i suoi, e parte con la scorta verso il
suo ultimo appuntamento, quello con la morte che, dopo la morte di
Giovanni Falcone, ha sempre saputo che sarebbe presto arrivata, tanto da
continuare a dire a sua madre e a sua moglie “devo fare in fretta,
devo fare in fretta”
Ecco un altro lampo e in mezzo alle tenebre che
circondano il castello Utveggio si vede qualcuno in attesa, ecco che
arriva una telefonata sul suo cellulare ed allora punta il binocolo sul
portone al numero 19 di via d’Amelio, vede scendere il giudice dalla
macchina blindata, lo vede alzare la mano verso il pulsante del citofono
e allora preme un altro pulsante di un telecomando che stringe nella
mano e subito si vede una colonna di fumo e si sente un boato ed allora,
dopo avere osservato in mezzo al fumo, per un attimo, gli effetti
dell’esplosione, prende il cellulare fa un numero e dice appena qualche
parola. Poi il baleno provocato dal lampo finisce e tutto ripiomba
ancora nelle tenebre.
Ecco un altro lampo, e si vede una barca nel golfo
di Palermo, è piena di uomini,
ma non sono persone qualsiasi, appartengono tutti
ai servizi segreti così che le loro testimonianze potranno, dovranno
essere tutte concordi. E’ quasi l’ora dell’attentato e tutti sono in
silenzio, sembrano attendere qualcosa. Poi si ode, attutito dalla
distanza e dalla montagna un tremendo boato, e dalla parte di
Palermo verso il monte Pellegrino si vede alzare una alta colonna di
fumo e quasi subito dopo arriva una telefonata. Il giudice è morto, quel
maledetto ostacolo sulla via della trattativa è eliminato. Dai telefoni
cellulari sulla barca partono altre telefonate concitate poi il motore
viene acceso e la barca riparte velocemente verso il porto.
Per chiunque, in Italia, sono passate dalle quattro
alle cinque ore prima di sapere che il giudice era morto, che quella
morte annunciata era arrivata, ma per chi stava su quella barca sono
bastati solo centoquaranta secondi per sapere tutto. Ma ora il baleno
provocato dal lampo è finito e tutto è ripiombato nelle tenebre.
Un altro lampo, ma stavolta è troppo di breve
durata per capire se è veramente Bruno Contrada quell’uomo che si aggira
in via D’Amelio subito dopo la strage come due capitani del Ros, Umberto Sinico e Raffaele del Sole affermano di avere saputo dal funzionario di
polizia Roberto Di Legami che riportava a sua volta una relazione di
servizio, poi distrutta, di alcuni agenti accorsi sul lugo della strage.
Ancora un altro lampo che squarcia per poco tempo
le tenebre. È la fine di Giugno e si riesce a vedere Vito Cianciminio
che consegna al Cap. De Donno e al Col. Mori un foglio scritto a mano,
il papello di Riina, con le dodici richieste del capo della cupola per
fermare l’attacco al cuore dello Stato.
Un altro lampo, è il 1 di Luglio e si vede il
giudice al ministero, davanti alla porte di Mancino, per un incontro a
cui è stato chiamato dallo stesso ministro mentre stava interrogando
Gaspare Mutolo. Il giudice ha annotato questo appuntamento nella sua
agenda : 1 Luglio, ore 19 : Mancino, ma la luce provocata dal
lampo si esaurisce e non riusciamo a vedere chi c’e’ dietro quella porta
ad aspettarlo e che cosa gli viene detto. Dall’agitazione del giudice
quando torna ad interrogare Mutolo si può solo immaginare che gli viene
detto che lo Stato ha deciso di aderire alla richieste contenute nel papello e la reazione del giudice che deve essere stata così violenta e
sdegnata da non lasciare spazio, per concludere la trattativa, ad altra
possibilità se non quella di eliminarlo, ed eliminarlo in fretta. Ma le
tenebre sono troppo fitte per vedere qualcosa e solo Mancino ci potrebbe
dire, se guarisse improvvisamente dalle sue amnesie, che cosa accadde
veramente in quella stanza.
Altrimenti potremo solo aspettare, se mai avverrà,
che una serie continua di lampi squarci le tenebre ed allora potremo
veramente vedere quali e quanti mani, tra quelli che oggi godono i
frutti dei nuovi equilibri raggiunti, siano lorde del sangue delle
stragi del 92 e di quelle altre stragi che, nel 93, furono necessarie
prima che la trattativa venisse conclusa.
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