ALCHIMIE DI MORANDO PRESSO
IL FRONTE DEL PORTO
ALCHIMIE DI MORANDO PRESSO IL FRONTE DEL PORTO
Walter Morando è il maggiore artista vivente in Italia che raffiguri, ed esalti esteticamente, quella cosa sul viale del tramonto che sono i porti. Egli abita all’ultimo piano di una casa, le cui finestre danno su uno spettacolare panorama: il porto di Savona. Qui vive e qui è nato. Fin da fanciullo il porto è stato per lui il palcoscenico della vita, il racconto della fatica umana, la piattaforma del viaggio della fantasia. Navi che vanno, navi che vengono. Persone e cose, cose e persone: turbinare di destini tra ferrigne lamiere, sotto il sole, la pioggia, il vento, la bufera.
Come altri artisti hanno amato il mare, Morando ama questa stazione di navi. Non un porto-passeggeri, bensì un porto-merci. L’aspetto prosaico, duro; oggettuale, si direbbe con parola tecnica. Ebbene, nonostante la scelta così anomala egli riesce a farci commuovere – noi disinibiti e sofisticati consumatori di telecamere, videoregistratori e computer – dinnanzi a reperti ceramici che modellano oggetti di lavoro umili, semplici e anonimi. In ciò non v’è un retorico romanticismo del lavoro, né una ripresa del folklorico o, peggio, del pittoresco. La spinta a questo tipo di creazione è intimamente psicologica. Si tratta di un bisogno di «individuazione».
Apparentemente, Morando propone un lessico di forme e di strutture – ganci, catene, lamiere, e via dicendo – tipiche di porti; sostanzialmente, egli addita la bellezza e al verità delle forme primarie dell’homo faber. Non si tratta dunque di una operazione di «archeologia industriale» o «portuale». La pulsione effettiva è di carattere antropologico: laddove nel «crogiolo della psiche» l’artista unisce il calore della terra al calore degli smalti, e il tutto viene trasfigurato dal calore del fuoco. Il «crogiolo della psiche» non è altro che un’alchemica condizione creante. Un rito artistico che si trasforma in un mito del profondo: il bisogno di liberazione dell’anima umana dalle coazioni opprimenti del mondo tecnologico.
Terra, acqua, fuoco e aria. Quegli gli elementi primari del processo alchemico che presiede l’opus ceramico, coadiuvato da una «chimica» di ingobbi, smalti opachi e lucidi, ossidi fondenti, e altre sapienti e segrete diavolerie. La tecnica di Morando non appare mai fine a se stessa, bensì diventa un «racconto» sulla e dentro la materia. Crepe e corrosioni immettono nei suoi lavori la nozione del tempo. Fenditure e sfregamenti alludono alla motilità delle cose. Ruvidità, spessori, superfici carezzevoli, incavi trasmutano ferrigne strutture in tattili e suadenti corporeità.
Catene, ganci, carrucole, bulloni, corde, ruote dentate, maniglioni, staffe, e così via, come in una metamorfosi assumono un’aura tra il metafisico e il surreale. Nasce così un «immaginario plastico», ricco di valenze ora sadiche ora masochiste: esso fa slittare ogni residuo di memoria o di funzionalità degli oggetti a un livello arcaico, quello in cui la «bellezza-violenta» di questi materiali è esibita imperativamente.
C’è un realismo dell’oggetto accanto al suo iperrealismo; ma a latere esso mostra, da una parte una parte una sua surrealtà, dall’altra quella comicità propria dell’informe. Mitopoiesi del binomio materia-immagine. Tutto ciò realizzato da parte di Morando con l’abilità ingenua dell’artigiano, e parallelamente con l’astuzia formativa dell’artista. In altre parole, i suoi lavori coagulano, con vivezza spontanea e semplicità il fluttuante livello dell’esistenza psichica con il velo sentimentale dei ricordi (le struggenti tecnologie portuali, segno d’una età eroica).
La socialità dei lavori di Morando non sta dunque in un populismo di maniera, ma nella percezione che ne deriva di un destino sia umano che storico che è la lotta tra forma, informe e non-forma. Abitatori di una età informatica e tecnotronica, abbiamo bisogno di un recupero della «fanciullezza» della nostra epoca tecnologica. Questo è un bisogno inconscio e collettivo, ma sola la sgorgante sensibilità di un artista può captare le vibrazioni estetiche che fanno iridescente siffatta pulsione.
Gli utensili che Morando ripropone coagulano più lavori: il lavoro, la mano, la corrosione marina. Terre grosse o fini, chiare o scure, superfici lisce o porose, ossidi e smalti, grès e maiolica e ingobbio: un ampio ventaglio di impasti e di sensazioni tattili. Le tipologie di Morando sono molteplici. I suoi piatti, piccoli e grandi, accolgono ganci e nodi e cordami che movimentano quasi drammaticamente la convessità lucida e maculata. Le catene, porose e smaltate, esprimono una loro fluidità, un’idea di potenza e di prigionia. Altri utensili portuali parlano un linguaggio carico di intrinseca iconicità, ora alludente allo zoomorfismo ora rasentante l’antropomorfismo, con una carica di magico.
Morando, in lavori di acuta originalità plastica, ha anche ricreato fari ceramici, con luci rotanti, elementi di grande impatto nell’ambiente architettonico. Vi sono ancora navi dalle forme complicate, racchiudenti nel loro volume la fenomenologia di strumenti molteplici, sicché il risultato è un surreale pastiche di membrature, di curve, di viluppi, di escrescenze, con sottintesa una ironica affettività. A tutto ciò s’aggiunge una panoramica di bitte, di boccaporti, di maniglioni, lucido elogio di una «foresta ferrigna» però impregnata d’umanità. Non ultimi i containers: fredde scatolarità, dai colori gelidi e razionali, strutturati con un vago gusto pop.
Ultimamente Morando ha allargato la sua produzione. Nei porti le navi in disarmo vengono tagliate a pezzi; e così quelle lamiere, in cui si incide la storia di mille viaggi, sono state riffate dall’artista savonese in un materiale molto docile e sensibile, la cellulosa. La sua fibrosità permette di fare sia delle superfici piatte sia delle strutture polimorfe, per così dire «mimando» le asperità dei pezzi d lamiera. Essi appaiono in altorilievo, sbrecciati o contorti, casuali, con forme di bulloni arrugginiti, ottenute con ossido di ferro di manganese impastati con tecniche miste, in una vera pittorica alchimia. Detti pezzi di finta lamiera, dai colori ora vividi ora bui e tempestati di segni anch’essi casuali, vengono talora chiusi in teche di plexiglass, con un effetto d’estraniamento.
Come definire quest’ampio arco di lavori di Walter Morando? In questo mondo e tempo meccanicamente schizomorfi, quasi per una omeopatica cura l’artista ci offre il suo mondo umbratile, in cui palpita il fuoco e si offrono duri lacerti ferrosi e ferrigni: un mixage di materiali che va’ oltre una crepuscolare informalità, e che cerca di afferrare la Stimmung incantata che anima il grembo originario dell’Essere.
Riccardo Barletta
Milano, 2 marzo 1992