Sabato blues di Gino Malvestio

Otto e trenta di sabato mattina, apro gli occhi miopi e li spingo a superare le pesanti coperte che mi avvolgono in un sandwich di calore e pace. Ma oltre la pesante trapunta che mi schiaccia sul materasso non c’è altro che buio e odore di chiuso. Un minuto di adattamento e mi accorgo di una riga di luce che maleducatamente penetra verticalmente nella mia camera, e che si proietta nitida sul muro accanto a me. Sento la bile già uscirmi dalla cistifellea, mattutina. E io che mi rigiro e che spiaccico una guancia sul lenzuolo, e che piano piano assumo la posizione di un embrione nel grembo materno. Zero desiderio di riprendere conoscenza, massima repulsione verso attività cerebrali e motorie di ogni genere.

Ma il sonno è rotto ormai, inutile ogni tentativo di tornare indietro, vano ogni sforzo di annullamento e di dispersione. Provo a diventare coperta, materasso, cuscino. Tempo perso.

Alzarsi, lavarsi, vestirsi, mordere qualcosa.

Già l’ansia ad alitarmi sul collo, alito acido. Un saluto veloce e forzato ed esco, neanche dare il tempo alla macchina di scaldarsi, me ne frego della temperatura dell’olio, vado piano solo per riuscire a digitare i tasti e appoggiarmi all’orecchio il freddo telefonino. Mentre la voce mi risponde di si, scarse figure umane mi scorrono ai lati, insulsi segnali di fervore umano mi arrivano filtrati dal vetro sporco dell’auto. Il freddo boia di fuori mi aiuta a conservare vuote sensazioni.

Il mio amico sale e corriamo al Centro Commerciale, è sabato mattina. Stringo i denti, scalo le marce, accelero, cambio le stazioni della radio, parlo, guardo in giro, suono il clacson, freno, accelero, freno, accelero, oddio come odio quelle teste di cazzo che vanno a quaranta all’ora per la strada il sabato mattina.

Corro come un pazzo nel parcheggio del Centro - so che qualcuno mi darà del cretino per questo - e vado a piazzare la macchina proprio vicino all’entrata. Pochi metri da fare immersi nel freddo cane. E poi una sequela vertiginosa di apparizioni in tutti gli strafottuti negozi del Centro, a guardare e toccare, a provare e lasciare, migliaia di messaggi colorati e parlanti a ficcarsi rumorosi nel mio cervello, un ‘esplosione di bisogni e desideri ai quali non oppongo alcuna resistenza. Accarezzo, sfoglio, ammiro, indosso, ascolto, mangio, bevo, parlo, desidero e desidero cose assolutamente lontane da me e dal mio mondo.

Voglia di cioccolato e di spendere soldi.

Ritorno a casa come una lepre isterica, saluto l’amico, e così non arrivo tardi a pranzo. Mangio avidamente con una mano e con l’altra vado via di zapping - TV come miniera di curiosità e di idee e di vita.

Quindi prendo su la mountain bike e vado a farmi il classico giro del sabato pomeriggio, imbacuccato come un eschimese, e ci do dentro con le gambe, a tirar pedalate forsennate, a sformarmi i polmoni, con gli occhi protetti dagli occhiali da sole che controllano la media che voglio assolutamente tenere. Giro della Restera! E torno a casa ad abbattermi sul divano e restar lì distesi morti per una mezz’ora, col cuore che cerca di bucarmi il petto e scappar via. Mi riprendo e ricomincio a respirare, così mi posso fare il tè, un tè che voglio proprio bollente, e che bevo con biscotti cremosi.

Un time out, breve, e niente di più.

Sento che devo assolutamente ascoltare i cd che ho acquistato, che non posso vivere bene senza farlo. E mentre li ascolto, avverto il desidero di leggere il giornale. Ecco, ne sorvolo a bassa quota le pagine, annusandone l’odore, assaporandone le notizie. Impressioni, emozioni, sensazioni. Sgomento, preoccupazione, scalpore. La carta si rovina sotto le mie mani e una pellicola d’inchiostro si forma sui miei polpastrelli. Odio quel tipo di carta.

Poi mi accorgo di aver qualcosa da dire e accendo il computer e mi do a buttar giù frasi spezzate e scollegate, avvolte ancora in una nebbia densa e pericolosa. Lascio cadere le mie dita sui tasti, senza tanto darmi pensiero sul destino delle parole che mi escono dallo stomaco. Le voglio lasciare a fermentare e poi vedrò, se uscirà del buon vino, ok, senno sparirà tutto con un bel "Delete" del mio word processor. E mentre scrivo ho la netta e strana sensazione di vivere, di far parte del mondo. E infatti quando guardo per sbaglio l’orologio mi accorgo che è ora di cena.

Cena consumata da affamato, una manciata di scheletrici minuti ed è tutto finito, già messo in moto il mio intestino, già messo a lavorare mentre fuggo a vestirmi con centinaia di pensieri che mi schiamazzano in testa strepitanti. E allora accendo lo stereo per sentire i Pearl Jam e la loro "Smile", chitarre struggenti e armonica da ultima frontiera, a tutto volume, a tutta anima.

Ma la devo interrompere, gli amici sono arrivati e strombazzano impazienti. Questo ennesimo sabato sera ad una festa dove non conosco praticamente un cane, mi han detto che è un compleanno, non so di chi - e non me ne frega proprio, solo il tirar fuori una diecimila per il regalo collettivo.

In una casetta tipo chalet di legno vecchio e oppressa da alberi incombenti in una campagna congelata.

Dentro poca o niente luce ad illuminare tre ragazzi che suonano, terrorizzati da quello che stanno osando suonare, "This is the end", Doors. Saluti e baci a non so chi, guance giovani e morbide e impomatate che sostengono occhi maliziosi e vuoti, io che prendo la mira e che mi ci attacco con le labbra a mò di ventosa, lattine di birra che si scontrano in brindisi alcolici, panini obesi di Nutella a sporcar mani e bocche, risate grasse, gridolini sorpresi, fumo speziato a fiotti continui. Continuo e non mi fermo ad attaccarmi e staccarmi dalla gente, come una pallina di un flipper umano, non più di qualche pidocchioso minuto a povero cristo, pronto a scappare al più piccolo segnale di noia. Finchè non so neanche io come mi trovo imboscato in un angolo con una bella tipa bella in carne che ci sta, in un angolino buio dove proprio non ci si vede, solo il sentire l’odore l’uno dell’altra, solo l’inizio di tante attenzioni e affettuosità morbose, solo un toccarsi un baciarsi un tenersi un leccarsi un mordersi, finchè quella bastarda che mi rode l’anima, finchè quell’angoscia che mai mi lascia non mi fa scattare dalla poltrona del buio angolo, e mi scaraventa di nuovo in mezzo al gruppo che balla e che balla sugli urli schizoidi dei Prodigy.

Ora guardo sbalordito le luci rosse blu gialle che illuminano a tratti la scena impazzita, insozzando la gente di ombre fuori di senno, e io no, me ne sto fuori da tutto, ad osservare i pantaloni succhiati di una biondina, gli occhiali da mosca di uno strano tipo, i denti bianchi e infiniti del tipo che mette su la musica, il caminetto con le braci che solo pochi istanti prima avrei giurato eterne.

Ora mi trovo sul sedile posteriore dell’auto di un amico.

Ora mi trovo a casa.

Ora mi spoglio.

Ora sono a letto e ho sonno.

Solo un ultimo pensiero, l’ultimo davvero.

Che domani è domenica, l’ennesima domenica.