ULISSE IN SICILIA

di Giuseppe Quatriglio

La cosiddetta "questione omerica" mi affascinava già sui banchi di scuola del liceo classico anche perché l’insegnante di greco aveva incluso l’argomento tra le materie da studiare, e per questo si poteva discutere in classe, senza sembrare pedanti, se l’Iliade o l’Odissea fossero opera di un solo grande e geniale poeta dell’antichità classica oppure il risultato di un impegno collettivo. Come è fatale che avvenga, finito il liceo avendo affrontato all’università lo studio di materie giuridiche, la "questione omerica" finì con il far parte di un bagaglio di conoscenze scolastiche, anche se c’era una circostanza che continuava ad alimentare riflessioni ed emozioni. Questa: realmente la Sicilia aveva fatto parte del mondo di Ulisse e quindi dell’Odissea.

Da adulto, un preciso interesse per il mondo omerico ebbe inizio per me a metà degli anni cinquanta allorché vidi per caso su un tavolo della redazione del "Giornale di Sicilia" – quotidiano del quale ero già allora redattore – una copia del volume The sicilian origin of the Odyssey che arrivava in Sicilia dalla lontana Nuova Zelanda. Portava la firma del professore Lewis Greville Pocock, docente di materie classiche all’università di Canterbury. Era un opuscolo scritto in lingua inglese e per questo era stato abbandonato. Lo sottrassi al macero e lo lessi con avidità i poco tempo dato che la lingua inglese la parlavo e scrivevo correttamente dopo aver trascorso oltre un anno in un’università americana, fruitore di una borsa di studio Fulbright concessami dal governo degli Stati Uniti perché approfondissi la conoscenza del giornalismo di oltre oceano.

La tesi del professore Pocock era semplice e affascinante e, a questo punto, è meglio riferirla con le sue parole: << Il mio discorso parte dalla scoperta di Samuel Butler. Lo scrittore inglese, nato nel 1835 e morto nel 1902, approdato in Sicilia nell’ultimo ventennio dell’ottocento, scoprì che Scheria dell’Odissea era la città di Trapani, nella parte nord- occidentale della Sicilia. Fu la prima volta nella storia che uno studioso facesse attenzione ai dettagli topografici dell’Odissea. E che la sua identificazione fosse corretta appare abbastanza probabile. E tuttavia, allora, molti non vollero credere a quanto affermato da Butler, pertanto tocca a me affermare che Omero fu un accurato topografo e che non soltanto Scheria, ma anche gli altri luoghi dell’Odissea sono reali.>>

Per quanto mi riguarda personalmente, debbo dire che scrissi subito al professore Pocock in Nuova Zelanda e che allora ebbe inizio tra il giornalista di Palermo e il professore universitario neozelandese una fitta corrispondenza che registrò momenti importanti: un mio articolo dal titolo "Sicilia, terra dei Feaci", che riprendeva la tesi di Pocock, venne pubblicato dal giornale di Sicilia il 7 settembre 1958. lo stesso articolo, tradotto in inglese, apparve nella pagina della rivista "Sicilia" sempre nello stesso anno 1958 (numero 20). Qualche tempo dopo, un articolo in lingua inglese dello stesso Pocock dal titolo "The Odyssey is a sicilian poem", inviato a me venne pubblicato, ancora nella rivista "Sicilia" (numero 28 del 1960). La corrispondenza con Pocock sortì anche una precisazione alla quale il docente neozelandese teneva molto. Nel già ricordato opuscolo Sicilian origin of the Odyssey punta Ligny era stata identificata, in una foto, come la scoglio del Malconsiglio. E’ lo scoglio – per intenderci – che nonostante fosse stato in parte distrutto da colpi di artiglieria duranti esercitazioni militari, può ancora sembrare la neve di Ulisse pietrificato per volere del Dio del mare. Pocock accettò la correlazione e ne diede conto in un altro suo libro di quegli anni dal titolo Reality and allegory in the Odyssey pubblicato nel 1959 ad Amsterdam.

L’ampia corrispondenza con Pocock misi a disposizione del figlio John intervenuta al primo convegno internazionale The sicilian origin of the Odyssey tenutosi a Trapani nel mese di luglio del 1990 per iniziativa della Cooperativa editoriale Antigruppo siciliano che ha lavorato anche per realizzare il secondo convegno con il supporto determinante dell’Endas.

Considererei quanto detto fino ad ora una premessa, prima di fare una riflessione sulla terra di Sicilia che, pur trovandosi geograficamente ai margini dell’Europa continentale riscatta il suo isolamento rimanendo fedele ai miti del mondo classico. In realtà, il Mediterraneo che bagna le sue coste, ha avvicinato sempre l’isola agli avvenimenti cruciali dell’antichità assegnandole il ruolo di protagonista in molte vicende legate all’incivilimento dell’uomo. Sotto questa luce bisogna osservare l’insistenza con cui uomini di cultura di diverse nazionalità hanno fatto della Sicilia il fulcro del più importante discorso poetico dei tempi antichi, quello che fa riferimento ad Omero, all’Odissea e naturalmente ad Ulisse.

Dobbiamo partire da Samuel Butler, lo scrittore irrequieto che costantemente colpì i conformisti della società vittoriana. Il suo libro The authoress of the Odyssey pubblicato nel1897 destò nel suo paese incredulità e scalpore e lo stesso Butler venne deriso. In realtà Butler, dopo aver tradotto dal greco l’Odissea e avere compiuto una serie di viaggi nella Sicilia occidentale, si convinse che l’Odissea era stata scritta da una giovane donna siciliana celatasi nel personaggio di Nausicaa, la figlia del re di Scheria, Alcinoo.

Scheria, la terra dei Feaci, cercò appunto lo scrittore inglese nelle carte dell’Ammiraglio britannico e alla fine la identificò con trapani avendo riscontrato nella civiltà siciliana i requisiti descritti nel poema. Sorprendente gli apparve la posizione della scoglio del Malconsiglio, a poca distanza da Punta di Ligny. Questa roccia costantemente battuta dalle onde, vista sotto una determinata luce, può apparire ancora oggi una chiglia semisommersa. A Butler sembrò la nave di Alcinoo tramutata in pietra da Nettuno adirato contro i Feaci che avevano cercato di condurre Ulisse salvo in patria.

Butler, come si sa, fu osteggiato e del suo libro poté vendere solo duecento copie. Ma fu grato a Trapani e ai trapanesi che lo avevano aiutato nelle sue ricerche sul campo. Per questo dispose, per testamento, che il manoscritto del suo tanto discusso libro venisse donato alla biblioteca di Trapani. E così il 6 maggio 1903 il suo amico H. F. Jones consegnò il manoscritto nelle mani del sindaco do Trapani. Dopo oltre sessant’anni, nel 1968, il libro di Butler venne tradotto in lingua italiana e pubblicato da un coraggioso editore della città falcata, l’editore Celebes. La traduzione venne fatta da Giuseppe Barrabili, il cui fratello Vincenzo ha un posto ben preciso nella nostra ricostruzione.

Torniamo al 1952, l’anno in cui Lewis Greville Pocock raggiunse Trapani per studiare la teoria di Butler. Ritornato i patria scrisse nel giro di pochi anni addirittura tre libri sulle sue esperienze e sulle sue ricerche. Egli non accettò del tutto quanto aveva formulato Butler, sulla convinzione che fosse stata una donna a scrivere il poema e sulle peregrinazioni di Ulisse. Convenne tuttavia su un punto fondamentale: Trapani non poteva essere che la terra dei Feaci, la Scheria omerica, aggiungendo che l’esistenza nel mare che bagna la città di uno scoglio avente la forma di una nave semisommersa ( e in tempi remoti la similitudine doveva essere quasi perfetta ) aveva ispirato l’intero episodio relativo al soggiorno di Ulisse nella terra di Alcinoo e della bella Nausicaa.

Questo fermento di studi spinse il colonnello di artiglieria a riposo trapanese Vincenzo Barrabini ( fratello di Giuseppe traduttore del libro di Butler) a continuare nelle ricerche. Egli così giunse dove non erano riusciti ad arrivare né Butler né Pocock. Come precisò nel suo libro "L’Odissea rivelata" apparso a Palermo nel mese di novembre 1967 per i tipi di Flaccovio, Barrabini trovò nel terreno ( sono le sue parole ) "corrispondenza piena con quanto affermato nel poema" . e giunse alla conclusione che il viaggio di Ulisse alla ricerca della patria altro non era stato che un periplo della Sicilia: partito da Erice, attraverso lo stretto di Messina, per Taormina e Pantelleria, l’eroe di Omero approdò a Scheria, in territorio di Trapani.

Con l’aiuto della topografia egli pertanto aggiunse altre tessere al mosaico iniziato da Butler e proseguito da Pocock. Da allora il grande controverso quadro di una Sicilia omerica è apparso con contorni meno sbiaditi, anche se ancor oggi sarà difficile smontare l’impalcatura della critica ufficiale in base alla quale i luoghi omerici sono quelli tramandati dalla tradizione classica, quelli stessi che abbiamo imparato a conoscere sui banchi di scuola.

Il fatti è che il discorso di Barrabini si fece logico quando spiegava, per esempio che Dulichio, l’isoletta dalla quale partirono i Proci per recarsi ad Itaca è siciliana. Dulichio – asseriva Barrabini – è parola greca che significa "paese lungo" e tra le isolette del gruppo dello Stragnone di Marsala, ve n’è una che ufficialmente è chiamata Isola Longa dato che si estende per sei chilometri ed è larga solo un chilometro. Se tremila anni fa in quest’isolette si parlava greco, il nome non poteva essere che "Dulichio". E che si parlasse greco lo attesta il nome "Carco", di derivazione ellenica,conservato a tutt’oggi dalla sua zone meridionale.

Anche i ciclopi che Omero dipinge come creature mostruose dovevano abitare, secondo le congetture dell’ex colonnello trapanese, dalla parti di Trapani. Nell'estrema punta meridionale del monte Erice, a Pizzolungo, si apre, sulla faccia rivolta verso Trapani, una spelonca che presenta i caratteri descritti nel poema. I ciclopi che accorsero alle imprecazioni di Poliremo accecato da Ulisse erano, in effetti, persone tranquille, dedite alla pastorizia. La parola ciclope – arguì Barrabini – significa "faccia di luna" e "faccia rotonda". Per convincersene – concludeva – basta recarsi a Trapani e osservare la gente delle erigine montagne che ha mantenuto i lineamenti antichi.

Può sembrare in qualche punto acrobatico, anche non privi di forti suggestioni, il discorso fatto da Barrabini, ma il fatto è che l’ex colonnello trapanese non fu l’ultimo ad anatomizzare la leggenda omerica. Nel 1968 due fratelli tedeschi, Armin e Hans – Helmut Wolf pubblicarono a Tubuigen, dopo studi durati un decennio, il libro Der weg des Odysseus ("La via di Ulisse"). I due fratelli, uno studioso di storia e l’altro di professione architetto, seguirono un metodo scrupolosamente geografico.

La rotta di Ulisse da Troia ad Itaca – questo il punto forte del loro ragionamento – è geometricamente ricostruibile su un foglio basandosi unicamente sulle condizioni nautiche fornite dallo stesso Omero. Questo viaggio porta – secondo le intuizioni dei due tedeschi – da Troia alla costa tunisina (paese – per loro – dei Lotofagi e dei Ciclopi), passa da Malta (identificata per l’isola di Eolo ) e costeggia le parti meridionali e settentrionali delle Sicilia.

Nell’isola i fratelli Wolf collocarono varie località descritte nel poema omerico: il porto dei Lestrigoni e il castello di Lamos ad Erice; l’isola di Circe ad Ustica; il tempio di Ades e Persefone a Imera; l’isola delle Sirene a Punta Faro; Scilla e Cariddi a Messina; l’isola di Calipso a Lipari. Per i due tedeschi è la Calabria il paese dei Feaci.

La tesi, quando venne esposta anche in Sicilia, e proprio a Palermo, apparve rivoluzionaria e lontana dalla interpretazione tradizionale dei luoghi omerici e anche dalla identificazione degli studiosi Butler, Pocock e Barrabini.

Ci si può fermare. Fino ad oggi sono più di settanta la teorie sulla identificazione dei luoghi omerici. Una carta geografica che mostrasse tutte la località secondo le interpretazioni di una schiera di studiosi già molto folta, dovrebbe estendersi dal Golfo Persico fino all’isola di Tenerife. Ma l’argomento di questa conversazione ci impone alcune riflessioni su un antico fatto poetico in equilibrio tra realtà e mito, tra gioco letterario e riscontro topografico.

Un fatto è certo: è la Sicilia al centro del discorso omerico ed Ulisse negli intendimenti del poeta, non ignora l’isola mediterranea. Ulisse, dunque, l’eroe di tutte le avventure anche dell’uomo del nostro tempo, lo vediamo calpestare il suolo della Sicilia leggendo soltanto le pagine di Omero, anche fidandoci della interpretazione classica.

Ulisse non è il reduce della guerra di Troia che si deve confrontare in momento drammatico della sua avventura con il ciclope Poliremo? E il mito dei ciclopi non nacque dopo il ritrovamento in Sicilia di resti fossili giganteschi che gli antichi non seppero identificare? Quella occhiaia unica al centro dell’enorme cranio era segno tipico della presenza di "uomini giganteschi" con un occhio solo. Questa la convinzione degli antichi. Ma è noto ormai da tempo che la grande occhiaia al centro del cranio altro non poteva essere che ilo foro nasale dell’elefantino siciliano. Lo ha affermato recentemente la studiosa americana Adrienne Mayor e della materia si è occupato il "Corriere delle Sera" ilo 19 marzo 2000 nella pagina 29 dedicata alle scienze. Tuttavia lo studioso di preistoria, il trapanese Francesco Torre, di questa verità scientifica aveva scritto già nel 1980 nel libro La preistoria in Sicilia pubblicato dall’editore Ila Palma.

Ecco dunque un altro importante tassello per collocare definitivamente Ulisse in Sicilia. E’ una prova in più oltre quelle tanto acutamente documentate da Nat Scammacca che assieme alla Nina pazientemente tradusse nel 1986 dall’inglese il libro di Pocock "The sicilian origin of the Odyssey".

Con tutti i distingui e le riserve possibili, possiamo concludere e dare credito e Butler, a Pocock, a Barrabini soprattutto, a questi tenaci studiosi che non hanno soltanto faticato sui libri classici, ma hanno anche percosso chilometri, in strade impervie e in trazzere alla ricerca di una affascinante verità che non è soltanto poetica e questo lo affermiamo perché siamo convinti che l’autore dell’Odissea pensò alla Sicilia, l’isola che egli spesso chiamò "verde Trinacria" e "terra del sole" per narrare l’episodio della perfetta ospitalità offerta al naufrago Ulisse nel felice regno di Alcinoo e della bella Nausicaa.

Giuseppe Quatriglio