Addio a Nicola Badaloni, uomo politico e maestro di filosofia

 

Il 20 gennaio è scomparso Nicola Badaloni. La sua morte ha suscitato un grande cordoglio nei cittadini di Livorno, di cui era stato l’amato sindaco «filosofo» negli anni difficili della ricostruzione, nel mondo della cultura, dell’Università e in quello della politica che lo avevano visto, da sempre, attivo protagonista. Lo ricorda l’amico e allievo Giuliano Campioni.

 

Il 21 dicembre, data del suo ottantesimo compleanno, era stato un giorno felice per “Marco” (come lo chiamava chi era con lui in confidenza) per la sua famiglia e per gli amici che lo avevano incontrato nella sua casa, tra i libri e gli appunti confusamente accatastati, segno della quotidiana, intensa operosità. La mattina aveva ricevuto l’omaggio della sua città con la visita del sindaco amico, Alessandro Cosimi. Per l’occasione era stato intervistato da “L’Unità”, giornale cui era legato e su cui era spesso intervenuto. Qui Badaloni esprimeva le sue preoccupazioni ma anche la sua carica di fiducia. Preoccupazioni per il degrado della vita politica, in particolare, per le sorti della giustizia e della scuola. Fiducia nei giovani, nella loro energia critica, ed ancora nella possibilità, per la sinistra, di un’intelligenza collettiva e propositiva, una volta vinti gli elementi personalistici e di miope egoismo. Compito del politico oggi, diceva, non è soltanto rispondere ai bisogni della gente ma anche “aiutarla a vincere le paure”. Brindava, non a sé, ma alla pace, “il bene supremo”. Nel pomeriggio una delegazione di amici-colleghi, in rappresentanza del dipartimento di Filosofia, aveva presentato a Badaloni – in un bel clima di affetto e di ricordi comuni – la prima copia del volume da loro curato per i suoi ottant’anni: Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano (ETS, Pisa). Il testo raccoglie saggi di filosofia moderna da lui scritti in più anni, dal 1958 al 2000, su varie riviste specialistiche.

Il giorno del suo compleanno ancora una volta, quindi, avevamo incontrato il cuore di Badaloni nei due momenti tra loro strettamente legati: quello di uomo pubblico, impegnato nella politica, e quello dello studioso e maestro di più generazioni. E questo emergeva anche nella cerimonia funebre, nella sala del Consiglio Comunale di Livorno che ha visto la partecipazione di esponenti della politica nazionale, regionale e locale. Giorgio Napolitano, nella sua commossa rievocazione, ha ricordato il compagno con cui ha condiviso molti anni nel Comitato centrale del PCI, l’animatore, come presidente dell’Istituto Gramsci nazionale, di convegni e iniziative, e l’amico di tempi in cui politica e cultura s’intrecciavano fortemente. “Ho trovato - ha detto Napolitano - alcuni fogli manoscritti dove esortava gli intellettuali comunisti a respingere gli atteggiamenti cortigiani e ricordava che’evitare le discussioni è solo un segno della propria debolezza”. Accanto ai politici un gran numero di colleghi, allievi e docenti dell’Università e della Scuola Normale di Pisa.

Livorno ha un ruolo importante per Badaloni. Lì anche la lezione dell’insegnante di liceo Arturo Massolo che, nelle conversazioni con il giovane Badaloni, affrontava con chiarezza antifascista, insieme con i temi della Storicità della metafisica che andava scrivendo, temi politici e sociali di drammatica attualità. Era, quello, il primo incontro con la problematica filosofica di una storicità liberata dai vincoli della metodologia crociana e dal peso dello “spirito assolutamente creatore” di Gentile. L’antifascismo di Badaloni non fu però solo una scelta culturale: “la mia scuola di antifascismo fu a Livorno […] partecipavo a riunioni dei miei amici iscritti al partito comunista e mi sentivo partecipe di un’aura cospiratoria” dichiara nella bella intervista “Filosofia, marxismo, impegno politico” raccolta da Vittoria Franco nel maggio 1998 (“Iride” 26, 1999). A Livorno si sviluppava la sua attività politica e culturale degli anni ‘50 in una prospettiva internazionale ma anche nel “nido delle aquile” (l’ultimo piano della federazione del PCI di Corso Amedeo) a contatto con altri giovani e discutendo di tutto: cinema, spettacolo, storia del movimento operaio, politica. La Livorno che gli apparteneva era la città “porto franco”: città di immigrazione e di tolleranza, città di movimento, di incontri, crocevia culturale e soprattutto città proletaria, di ceti popolari legati alle attività del porto. Significativamente durante il periodo in cui fu sindaco, accanto agli studi sugli autori del Rinascimento e su Vico, conduceva puntuali e pionieristiche indagini sulla storia di Livorno nell’Ottocento. Studiare i movimenti molecolari, economici e sociali, i rapporti fra condizioni e rivolte popolari con l’impegno di intellettuali come Guerrazzi o Carlo Bini, era un modo per ritrovare la genesi storica di fenomeni e situazioni che andava a incontrare anche come amministratore e, insieme, per evidenziarne il significato all’interno della storia italiana ed europea.

Nel 1941 Badaloni si iscrisse alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Pisa, dove ha poi sempre insegnato a partire dall’anno 1957-58. A Pisa si è formato e soprattutto ha formato intere generazioni: in dirigenti politici, amministratori, studiosi, insegnanti, è unanime il riconoscimento di un incontro importante, decisivo nella loro vita. Badaloni è stato, in anni complessi, dal 1968 al 1979, autorevole preside della facoltà, anche se esercitava questo ruolo con sufficiente distanza e ironia. Nell’intervista a Vittoria Franco, ricorda di avere impedito che fosse cancellata una vivace e sovversiva pittura murale frutto di una occupazione: “Però io mi divertivo a mantenere l’affresco e a fare lezione in quell’aula con quel tanto di ironia che è teorizzato da Rorty. Una componente ironica è necessaria per poter affrontare la dura resistenza delle cose”. Il preside “comunista” non ebbe mai compiacenza superficiale verso i movimenti: senza indulgere, senza esorcismi né lenocinii, ne comprese prima di altri il senso di rinnovamento e di liberazione dell’individuo.

A Pisa Badaloni incontrò la lezione di Guido Calogero e della sua Scuola dell’uomo (“un libro bellissimo”, sorta d’introduzione all’impegno etico-politico e alla libertà), il cui insegnamento fu seguito solo per pochi mesi perché interrotto dall’arresto e dal confino. Il successore fu Cesare Luporini: con lui il rapporto di militanza e il confronto politico e teorico rimarranno sempre un punto fermo. Badaloni iniziò allora, accanto agli studi di storiografia filosofica, un’intensa riflessione sul significato della ricerca storica e della filosofia, che confluirà nel volume del 1962 Marxismo come storicismo . Sono evidenti il rifiuto delle diverse riduzioni soggettivistiche della ricerca storica, la critica di ogni partenogenesi delle idee, l’ostilità verso semplificazione e dogmatismo, la lontananza da schemi prefissati e criteri valutativi preformati. Le proposte dello storicismo di impronta gramsciana vengono intese come critica alla tentazione di stabilire rapporti tra universalizzazione e realtà storiche che non siano persuasivamente documentabili: “la storia della filosofia è veramente storia fatta su documenti, su nessi reali accertabili e non idealizzazione fatta sulle analogie” scrive nel saggio “Filosofia, storia e storia della filosofia nel marxismo” (1964). Ed è significativo che, in punti cruciali, il riferimento diretto sia a Garin e alla sua “necessità di mantenersi saldamente ancorati alla filologia”. Negli ultimi anni a Badaloni è sembrato riduttivo il termine “storicismo”, da lui stesso usato, in quanto il suo storicismo era radicale storicità consapevole di sé, strumento per conoscere i condizionamenti materiali e creare spazi di libertà: “è infatti paradossale (anche se il paradosso è voluto e ha un valore provocatorio) definire storicismo una concezione che, come quella che io professavo allora e tuttora professo, presuppone una stratificazione di livelli della realtà, che è testimoniata dal nostro stesso corpo e dal suo organo principale, che è il cervello. Infatti, è non solo pretenzioso, ma anche pericolosamente riduttivo, puntare solo sulla componente che appare alla superficie e lasciare nell’ombra gli elementi fondanti. Persino la più avveduta azione storico-politica di oggi […] ha come suo presupposto, tuttavia sempre operante, rudimentali istinti di autodifesa, che la storia via via ha arricchito di bisogni e di impulsi, che trascendono tale struttura elementare” (in Amici che consentono e dissentono del 2001). È questo il senso di un’intensa ricerca che, allargandosi a Freud e a Nietzsche, ha tenuto conto sempre più del peso di condizionamenti materiali, delle forze dell’inconscio e che ha sentito l’esigenza di “esplicitare le contraddizioni su piani diversi perché diversi sono i livelli della struttura temporale della nostra esistenza, fatta di condizionatezza naturale, di tradizioni, di passato, di necessità del presente ed anche di proiezioni”.

Nicola Badaloni nel dicembre scorso ha licenziato un nuovo volume (Laici credenti all’alba del moderno. La linea Herbert-Vico , Le Monnier, Firenze) a cui ha lavorato con passione negli ultimi anni, in condizioni difficili. L’affinità tra l’autore del De Veritate e quello della Scienza Nuova è nell’idea, impregnata di laicità, di provvidenza-natura. Variano le modalità in cui queste affinità si presentano nei rispettivi contesti, più specificamente dipendenti dalla natura e da aspirazioni metafisico-religiose in Herbert, più intensamente interne alla storia e al suo sviluppo sociale e giuridico in Vico. La sorte ha voluto che con quest’ultimo scritto Badaloni si collegasse alle sue prime ricerche e pubblicazioni (1946) che avevano trovato poi sviluppo nell’Introduzione a G. B. Vico (1961) e infine nel volume della collana “I filosofi” di Laterza (1984). Difficile indicare anche le linee più significative della sua ricerca senza sacrificarne alcune: ricordo il libro su Campanella del 1965 e quello su Antonio Conti del 1968, i saggi sul galileismo in Italia, la storia della cultura italiana tra illuminismo e romanticismo nella Storia d’Italia Einaudi, del 1973. Badaloni disegna una linea di sviluppo del pensiero moderno fino a Hegel, Feuerbach e agli autori del marxismo: Marx, Engels, Labriola, Gramsci. A questi autori, oltre a numerosi saggi, ha dedicato monografie storiche e ricerche teoriche tra cui: Per il comunismo. Questioni di teoria (1972), Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica (1975), in cui sottolinea l’originalità del marxismo antideterminista del filosofo/politico sardo, Dialettica del capitale del 1980 (“l’opera che mi ha appassionato di più è il libro su Marx in cui mettevo in discussione le forme di sottomissione reale e formale al capitale”), Gramsci: la filosofia della prassi (1981), Forme della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche 1962-1981 (1982), Il problema dell’immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci (1988). L’indagine e la definizione storica del ruolo di Badaloni nella cultura e nella politica della seconda metà del Novecento, saranno opera di più specialisti. Io che ho iniziato un cammino mai interrotto con “Marco” nel lontano autunno del 1964, non ho affrontato da specialista nessuna delle molte tematiche da lui studiate eppure ho sempre sentito e sento Badaloni come un mio esemplare maestro.

Credo che la sua prima lezione, per me, sia in quel senso della storia che, proprio perché lontano da ogni prevaricazione, significa conoscenza già capace di andare verso il cambiamento. Un’esperienza che si contrappone, oltre che alla linearità e sicurezza di un processo cumulativo, anche al voluttuoso dilettantismo proprio “dell’ozioso raffinato nel giardino del sapere” che ha bisogno della storia per riempire il vuoto interiore. Qui mi piace ricordare la forza della visione positiva di “Marco” Badaloni, la viva passionalità lontana da ogni indulgenza verso la crisi anche nei momenti più duri, e da ultimo, il suo senso, pieno, di una felicità fisica, quando si concedeva lunghe nuotate nel suo mare, finché gli è stato possibile.

 

Giuliano Campioni

 

Da: Athenet, n. 12 (2005).