Achille Campanile, o l'inutilità del riso

Enzo Siciliano

Introduzione ad
Agosto, moglie mia non ti conosco
BUR - Rizzoli Editore, 1974-1985

Se il vasto pubblico non ha mai abbandonato Achille Campanile per stima e simpatia, è nuovo, invece, l'interesse per lui da parte della critica.
C'è favore e interesse intorno ad Achille Campanile autore di teatro. E ciò da quando alcuni "allievi" francesi hanno avuto modo di riconoscere all'autore di Centocinquanta la gallina canta la paternità del cosiddetto teatro dell'assurdo. E amaro notare che, se non ci fosse stato quell'avallo, di Campanile si parlerebbe poco o niente.
Ma gli scrittori, quando sia autentica la lega del loro metallo, passano dai più bassi livelli di stima ai più alti, senza che si spostino loro stessi di un centimetro. La moda gira, e anche la borsa valori dell'arte varia di conserva. Ciò porta acqua al mulino di coloro che si battono per la relatività assoluta del giudizio; ma può portarne anche a quello di coloro per i quali la natura della poesia non può restare a lungo sotto cenere.
Ecco, dunque, Campanile ristampato e riletto: dei suoi romanzi degli Anni Trenta Agosto, moglie mia non ti conosco è in qualche modo il gioiello, accanto all'indimenticabile In campagna è un'altra cosa (c'è più gusto).

Chi è Achille Campanile?
Cominciamo col dire che scelti estimatori non gli sono mai mancati, a partire da Pirandello. Nella sua bibliografia figurano Alfredo Gargiulo e Pietro Pancrazi; e ricordo un articolo più che elogiativo di Attilio Bertolucci, di dieci anni fa, fino a Carlo Bo, per il quale Campanile è un " classico del Novecento ". In più c'è la stima orale: non si può tacere di certe persone inequivocabilmente high-brow d'ambiente romano che si ripetono a vicenda, da sempre, le famosissime tragedie in due battute. Ed è ormai una leggenda non vale più la pena d'appurare quanto vera - che a scoprire Campanile, funambolo titolista di giornale in gioventù, sia stato Emilio Cecchi, nella redazione de "La tribuna".
Le tragedie in due battute.  " Lei: - A che pensi? " " Lui: Pensavo: sta a vedere che adesso mi domanda a che penso e io non so cosa dirle. - "
Oppure l'altra, che porta per titolo Guerra. Viene prima esposta una lunga didascalia, nella quale si dice del putiferio di un bombardamento aereo, rombo dei caccia, sibilo e guaito dei proiettili, urlo delle autoambulanze eccetera. In una stanza, un uomo che dormiva, è svegliato da tutto quel fracasso. Prende un megafono, e dice, urlando fuori della finestra: "Ma la finite di rompere i coglioni? Questa è ora di dormire! ".  Silenzio improvviso. Nel silenzio la voce dello speaker (ma speaker di che?) commenta: " Gli attaccanti, colti di sorpresa dalla voce stentorea, sospendono il bombardamento. Anche le batterie aeree smettono di sparare. Cannonieri e aviatori cercano con lo sguardo chi abbia parlato. Nelle carlinghe, gli aviatori si scambiano occhiate di confusione. Poi mettono il silenziatore allo scappamento, volgono la prua degli apparecchi verso il cielo aperto e, terribilmente mortificati, s'allontanano zitti zitti, scomparendo ben presto all'orizzonte. La guerra è finita".
Si dirà che si tratta di gags. Indubbiamente. Ma sono di quelle che tirano giù l'umorismo dal moralistico piedistallo dove ama defilarsi, e lo degradano al suo punto più basso, quello dei vieti truismi, della scemenza, dell'imbecillità.
Un esempio. Un dialoghetto da In campagna è un'altra cosa: parlano  lo scienziato e il pensatore. "Stavo pensando gli disse - al Colosseo. Che roba! Dev'essere vecchio come il cucco" e Non credo - replicò il pensatore. - Il cucco deve essere anteriore." " Vediamo, - fece l'altro - le prime notizie del cucco si hanno nel 1200. "
Di battute simili, Campanile ne sforna in continuo. Come quella del pedone all'automobilista che sta per investirlo: " Suoni la tromba "; e l'altro: " Non so suonarla. Suono il violoncello ".
Sono battute che non fanno ridere. Della risata possibile sanno sollevarne l'eco attutita, soffocata, come se stessimo chiusi in una stanza e sentissimo ridere di là. Sono battute che cascano secche secche, con l'aria dell'innocenza più arresa e della più disarmata insensatezza. Ma poi ti accorgi che esse, innocenza e insensatezza, si riducono, nel gioco delle parole, al grado zero di sé stesse.
Scrisse Pancrazi: " Si pensa a quei lunghi trampolini nei circhi, su cui i pagliacci si avventano per poi fermarsi in cima e scacciarsi una mosca, oppure ne scendono giù piano piano e strusciando una gamba".

Il freddurista è colui che deve necessariamente costruire il suo thrilling verbale su una riduzione, essiccando la realtà, rendendola cartilagine: deve comprimere quel che vede e intende fino a stampigliarne la sigla. Ma quella sigla, perché non gli sfumi in arabesco, deve inciderla con violenza, deve saperci racchiudere più d'una goccia di vetriolo. Una simile alchimia non sempre riesce; e, quando riesce, può infastidire per il tono di sopracciò di cui si investe. II freddurista recita troppo spesso la parte di chi la sa talmente lunga da esser costretto a dire infamità sotto specie di corbellerie.
L'umorismo di Campanile schizza via da una tale maniera con un duplice salto mortale. Riducendo la freddura a scemenza pura ("il riso scemo di Campanile", scriveva ancora Pancrazi), ne smaschera la velleità moralistica; ma decifra, e mette a nudo, la radice assurda, sacrificale e insieme empia del riso.

Se pensate che il meglio di sé Campanile lo diede negli anni del fascismo, c'è da ragionare sulle fortuite coincidenze in cui l'arte, senza alcun deciso proposito, va a incappare. Al fascismo, alla piccola e querula borghesia fascista, Campanile, volendo o no, faceva il contropelo.
Lo avvertì, appunto, Pancrazi, che - cito sempre dal solito articolo, datato 1927 - scriveva: "In un'aria greve come quella d'oggi, in una letteratura così singolarmente sprovvista del senso del ridicolo, e in cui basterebbe stringere appena i tempi e allargare i gesti perché molti drammi e tragedie si cambiassero in farse, l'umorismo smaccato di Campanile può anche sembrare un salutare reagente; un romanesco piantala! venuto a tempo ".
Agosto, moglie mia non ti conosco, e non solo esso, può essere letto come una presa in giro, condotta con una mano svagata e schizofrenica, dei costumi idioti dei benpensanti d'una volta - personaggi pirandelliani slittati lontano dal loro ansioso raziocinare, e rimasti a tu per tu con un mazzetto di frasi fatte impossibili ad adoperarsi se non in modo sconveniente.
Il capitano della nave che fa naufragio, e ai passeggeri e all'equipaggio dà, invece che cinture salvagente, cinture di castità; il naufragio in cui tutti perdono la chiave della cintura, e di qui le conseguenze più ignobili e inverosimili, ma le più verosimiglianti a confronto della temperatura morale dell'epoca; la ricerca del palombaro che ripeschi nel fondo del mare le benedette chiavi: e poi il ragazzotto stupido che deve sposarsi, la ragazzetta timida e vogliosa che redime un dongiovanni... Pur nella sua coerenza romanzesca, questo libro è un repertorio di pazzesche stoltezze: si scivola da una situazione all'altra per una semplice associazione di idee, o associando a ruota libera luoghi deputati e situazioni rituali del romanzo sentimentale, col risultato di sventrarlo, o di farne crollare le idiote impalcature nel polverone delle risate a bocca storta.
Si è tanto parlato di " antiromanzo " negli ultimi anni. E' strano che non sia venuto in mente a nessuno di tirare giù dallo scaffale un libro di Achille Campanile e di rileggerlo in chiave di quella teoria. Se Campanile è autore di un teatro dell'assurdo, anche più d'assurdo è intrisa la sua narrativa. La quale è anche sempre elegante, sempre silhouettata e acquarellata in puro stile deco. Come non vedere la mano di un Cocteau in quella pagina di Agosto, moglie mia non ti conosco che dipinge il mare delle ore meridiane, con i cavalloni che, finalmente soli, dopo il chiasso mattutino dei bagnanti, come ragazzi avidi di vita riescono a fare la loro nuotata divertendosi un mondo. O nel finale, in quel sollevarsi, " calma nell'aria della sera ", della voce di un tenorino, una voce " bianca, così bianca e incerta e dolce da far rabbrividire ", come non sentirvi una francese musicalità, sospesa fra Ravel e Honegger?
Ma oltre alla grazia deco, nell'immaginazione di Campanile, vi sono striature color acido. Quella famiglia di ciechi bellissimi che va sulla spiaggia con una disinvoltura che da i brividi; o la viaggiatrice morta di sincope e rimasta seduta su una panca della stazione di Trastevere, sempre in Agosto, moglie mia non ti conosco, alludono a impasti culturali ed espressivi più complessi.
In Campanile c'è l'eco di un futurismo disinnescato da qualsiasi miccia superoministica. E il futurismo che se la prende con la logica del linguaggio comune. Diciamo: invece che Marinetti, è presente il Palazzeschi del Codice di Perelà o dei Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi.
Ma, in più, c'è la bonomia, la romanesca e cinica bonomia di un attore-autore come Ettore Petrolini. Non potremmo dire che anche di Petrolini fu il " riso scemo "?
E' riuscito a Campanile di distillare in umorismo e satira, la sufficienza "romana", ma compiendo un passo più in là, mostrando, come ho detto, che il riso, nell'attimo in cui scocca, è anche empio. Per questo, al risuonare d'una battuta di Campanile si ha l'impressione del bruciarsi d'ogni intenzione derisoria e d'ogni caustica necessità ideale. E' come se lo scrittore ci portasse di peso nel cimitero della risata, a ridere di tutte le risate che si son fatti i piccoli e i grandi uomini, e poi ci dicesse: via, via, basta, non c'è niente da fare.
In Campanile il riso riflette l'inutilità di se stesso.

Che prospettive si aprono oltre questa metafisica inutilità? Forse una delusione profonda, un sentimento di relativismo radicale. Oltre Campanile si incontra il Flaiano migliore, col suo celebrare continuo e ininterrotto il vanitas vanitatum. Oppure, si incontra la sfrontata causticità dell'ironico Malerba, o le pagine del più giovane Celati, quando sono depurate d'ogni culturalistica interferenza. Sul fondo incrocia il Longanesi degli anni buoni.
E' pur sempre un ridere che contraddice ogni sua prevedibile movenza, e si capovolge nel contrario. Da ultimo i maestri della risata hanno dichiarato forfait, e hanno passato la mano ad altri, a scrittori del tutto diversi: per esempio, a scrittori come Samuel Beckett.