L’ARTE DELLA COMMEDIA

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Eduardo De Filippo

L’ARTE DELLA COMMEDIA IN UN MONDO IN DISSOLUZIONE

La commedia di Eduardo riproposta dal figlio Luca

 Un cumulo di attrezzi bruciati, a ridosso le figure in ombra dei comici rovinati dall’incendio del capannone in cui allestivano gli spettacoli; l’immagine opaca di un palazzo fatiscente, minato nelle sue fondamenta, un proscenio in lieve discesa, una realtà comunque malcerta e sdrucciolevole. E’ così che inizia L’arte della commedia, commedia nella commedia di Eduardo De Filippo, un‘originale applicazione della formula del "teatro nel teatro". Oreste Campese, capocomico di una modesta compagnia itinerante, ha perso il teatro viaggiante (ben 300 posti a sedere!) a causa di un incendio, gli rimane solo il baule dei trucchi e dei costumi, con cui "si fanno alti, bassi, magri o grassi". Chiede al prefetto, appena insidiatosi nel paese dell’entroterra napoletano in cui egli è bloccato con i suoi compagni, di aiutarlo, attirando con la sua autorevole presenza la gente del paese nel cinema-teatro messogli a disposizione. Il rifiuto sprezzante del prefetto fa scattare la sfida: se davvero Campese ed i suoi non allestiscono che buffonate, non sarà difficile per il prefetto smascherare gli attori della compagnia, se gli si presenteranno per esporre ciascuno un problematico caso umano. Ed invece l’intreccio finzione-realtà avvolgerà il prefetto in una vischiosissima rete.

La commedia, scritta e rappresentata la prima volta nel 1965, appartiene alla Cantata dei giorni dispari, che raccoglie le commedie eduardiane dal 1945 in poi, in un crescendo di pessimismo sull’uomo e la società (si pensi a De Pretore Vincenzo, del 1957, e Il sindaco del Rione Sanità del 1960). Questa pièce sembra costituire un intervallo, un arresto in questo percorso di Eduardo: ci si sofferma a riflettere sui meccanismi del teatro, sull’importanza del teatro nella società, sul complesso rapporto realtà-finzione. L’opera è difficile da recensire in poche pagine, per le svariate problematiche e i molteplici aspetti che presenta: lo spirito brillante dell’autore nel comporre il dialogo, la pienezza di umanità che sprigiona dai suoi personaggi, le riflessioni teoriche sull’arte teatrale. Le considerazioni esposte nel seguito sforeranno quindi nella storia del teatro, comea, almeno in parte, anche intenzione dell’autore.

L’arte della commedia: ossia il ribaltamento, non solo sintattico, della "Commedia dell’Arte". La Commedia viveva di canovacci su cui si imbastivano le improvvisazioni dei primi attori, viveva di personaggi stereotipati, maschere già riassunte nel loro costume: vedere la maschera di Pantalone portava subito a figurarsi il ricco mercante avaro e stizzoso, da cui scaturivano situazioni comiche talvolta di prammatica, talvolta imprevedibili. Non era certo, per quanto forma popolare di teatro, un teatro "realistico", ma, per definirlo anacronisticamente, "espressionistico": le caratteristiche caratteriali erano riassunte in marcate fattezze fisiognomiche. Eduardo stesso, in una serie di lezioni tenute all’Università La Sapienza di Roma, aveva sottolineato la discendenza dalla Commedia delle famose scene di monologo-dialogo di Pasquale, protagonista di Questi fantasmi, con il professore dirimpettaio: era un espediente della commedia dell’arte, in cui i personaggi talvolta emergevano dall’azione, spingendosi a dialogare con il pubblico. Se si pensa inoltre all’attaccamento dell’autore alla napoletanissima maschera di Pulcinella – coraggioso oppositore al potere nella pellicola Il re di Napoli; poetica creatura, piena di tutta la scoppiettante vitalità partenopea, ma anche schiavo della sua irrimediabile condizione servile, in Il figlio di Pulcinella, (1962), splendidamente interpretato da Geppy Gleijeses nella scorsa stagione; esilarante personaggio popolano della versione eduardiana de La tempesta shakespeariana in Napoletano del ‘600 -, non si può interpretare il pensiero dell’autore come polemico nei confronti della Commedia. Piuttosto, essa costituisce una solida base di partenza -da cui anche Goldoni prese le mosse per il suo binomio "il libro della vita e quello del teatro "-, base tto a cui c’è stata un’evoluzione della tecnica drammatica: si supera la netta distinzione tra finzione (attori, "smascherati" dalle maschere, per dir così) e realtà ed i ruoli si confondono. L’umanità dolente che sfila davanti al prefetto può essere quella degli abitanti di Aceto, oppure la compagine di attori di Campese, che porta in scena quindici "sketches" desunti dall’osservazione di quel microscosmo rappresentativo della società che è, per l’autore, il nucleo familiare. Non importa scoprire se il parroco, il dottore e la maestrina sono attori o abitanti di Aceto, dice Campese: l’umanità è una sola, ora incarnata dal teatro, ora vissuta nella realtà. A questo proposito, è episodio chiave proprio l’ultima visita ricevuta dal prefetto, la coppia omertosa sulla scomparsa del figlio e la maestra. Ammesso che i tre non siano attori, qualcuno comunque "recita": o i due contadini, che negano freddamente la morte del figlio, per un’atavica rassegnazione alla morte infantile, ancora frequente nei paesi del sud qualche decennio fa, o/e per una questione di comodo nel sistemare scabrosi affari di famiglia; oppure è la maestra a fingere, pur inconsciamente (il suo ricordo dei fatti è alquanto confuso), in un irrefrenabile impulso autopunitivo che nasce da qualche segreta voragine della sua anima. Insomma, in un mondo in cui coesistono finzione e realtà, non c’è un inoppugnabile criterio di identificazione degli attori: non sono prove determinanti né la coincidenza del parto della figlia di Campese, contemporaneo a quello di Rosetta Carbone, la paesana che vuole suscitare scandalo con il "figlio della colpa", né i termini teatrali (tragedia, spettacolo, fischi) inseriti nei racconti dei personaggi, né tantomeno la particolarità dei casi umani esposti, in perfetta linea con la poetica eduardiana secondo cui il teatro deve rappresentare il verosimile e non il vero, perché la trasposizione pedissequa della realtà non può che risultare noiosa. Come nel pirandelliano Così è (se vi pare), non c’è possibilità di stabilire la verità: quando il prefetto, nel finale, esulta per l’annunciato arrivo del carabiniere che saprà riconoscere i suoi compaesani o smascherare gli impostori, Campese gli fa notare come, tra i costumi di una compagnia, non possa certo mancare quello da carabiniere. E per continuare questa insuperabile promiscuità realtà-finzione, appena pronunciata questa battuta, Luca De Filippo e gli altri attori si offrono immediatamente agli applausi del pubblico, molto calorosi.

Finzione e realtà in un rimando infinito. La messinscena è la summa di ogni finzione, perché richiede la complicità del pubblico per immaginare ciò che non c’è, come proclamato nel prologo dello shakespeariano Enrico V. Un gioco interminabile di specchi che si riflettono: in prefettura si ricevono le "personalità" del paese, che, forse, sono attori che interpretano storie desunte dalla vita di altre persone, forse sono effettivamente chi dicono di essere, impegnati comunque a perorare la propria causa in maniera "teatrale". La stessa formula del teatro nel teatro non è solo struttura portante della commedia, ma permea ogni scena: perfino il segretario del prefetto rassetta i documenti sulla scrivania quando il suo superiore gli volge le spalle, gli riferisce le notizie raccolte sui commedianti accompagnandole, non visto, con ambigui ammiccamenti. Sorge un dubbio: che egli abbia volutamente consegnato a Campese la lista delle visite attese dal prefetto con il foglio di via? Ed i particolari che rimarcano la dualità finzione-realtà sono innumerevoli: Macbeth si presenta con i baffi lievemente storti, per far scoprire l’attore nei panni del personaggio; la ringhiera del balcone di Giulietta rischia di cedere e costringe ad inserire nello spettacolo una scena aggiuntiva per inchiodare la quinta pericolante. Questi dettagli non solo sdrammatizzano, ma conferiscono una sfumatura di realistico al sublime del teatro classico: ci si aspetta un Macbeth non standardizzato, nella storia di Giulietta e Romeo si insinua, ironicamente, che, senza l’infausta complicità del balcone, forse la tragedia non si sarebbe consumata (o forse sarebbe consistita in un banale incidente domestico). Simili critiche al sublime del teatro classico non sono rare in Eduardo, la cui poetica gli contrapponeva la "normalità" ( cioè l’appartenenza alla gente comune ed alla vita quotidiana): sempre in Questi fantasmi, proprio l’amore dei due innamorati per antonomasia è calato nella difficile situazione dei protagonisti e Giulietta, stanca della vita di rinunce che conduce con Romeo, esaurisce ben presto il suo amore, "un fiore che ha bisogno d’acqua per vivere". I riferimenti alla storia teatrale pregressa, sottili e fulminei, non si fermano qui. Il prefetto definisce "personaggi in cerca d’autore" gli attori che il capocomico prospetta di mandargli: Campese rettifica, non personaggi in cerca di autore, ma di pubblico; e lo trovano. Il prefetto, risucchiato nel dramma della maestrina, giallo mai chiarito, si libera dell’ingombro della giacca, non più impettito, è infine emotivamente coinvolto, cerca di far luce. L’occhio alla serratura, titolo dell’ultima commedia del repertorio della compagnia, riprende la definizione che un critico diede al teatro borghese di fine ‘800, asfitticamente concentrato sul triangolo adulterino che il pubblico poteva "spiare" come dal buco della serratura dell’abusato ambiente salottiero. La battuta in cui il prefetto rievoca i suoi giovanili trascorsi artistici ci informa che egli ha recitato la parte di Lazaro di Roio, ne La figlia di Iorio di D’Annunzio, che al teatro borghese cercò un’alternativa che facesse rivivere l’antica tragedia, con soluzione antitetica a quella pirandelliana (ed eduardiana, con tutte le differenze che comunque esistono tra i due autori). La battuta è, inoltre, (marcatamente nel prefetto cui dà vita Orsini: un uomo autorevole ma un po’ frivolo e presuntuoso) un divertito riecheggiamento dell’analoga scena di Amleto in cui Polonio vanta la propria interpretazione di Bruto in Giulio Cesare: se l’ironia shakespeariana sul consigliere del re è bonaria, tanto da citare un’opera propria, Eduardo è più tagliente: il prefetto, che tanto moralizza sulle sconcezze che autori teatrali e teatranti, evidentemente privi di idee, portano in scena con il pretesto dell’insegnamento morale, ha però recitato nella parte di un padre terrore della sua famiglia, ucciso dal figlio.

La commedia si apre con un primo tempo dichiaratamente "teorico", sulla scia di Questa sera si recita a soggetto di Pirandello. Se l’autore siciliano ha posto al suo lavoro come incipit, stridente e brutale, l’esposizione della propria poetica, anche se poi distorta dall’invadenza registica del dottor Hinkfuss, Eduardo integra, più garbatamente, la discussione sul teatro nella conversazione di Oreste Campese con il prefetto. Qui però non si tratta di un dibattito interno al teatro, di una valutazione delle sue componenti e dei loro rapporti reciproci (attore-personaggio e opera-regia, nel dramma suddetto), ma del valore che il teatro ha nella società ed, inevitabilmente, dell’interazione con lo Stato. L’interpretazione, viva e coinvolgente, che Umberto Orsini dà al prefetto è quella di un politico di recente nomina, magari appena arrivato da Roma, seccato più della relegazione in un paesino misconosciuto che dei disagi fisici (doccia fredda, materasso sfondato) che trova negli alloggi della prefettura. Egli è estremamente distaccato, tutto chiuso nelle sue convinzioni stereotipate sul teatro come nel suo impeccabile completo marrone. E’ rigido, dal passo sempre un po’ più felpato man mano che il nervosismo cresce, come si aspettasse sempre l’agguato di qualcuno – e divertente è il soprassalto che gli causa la maestra spuntata improvvisamente alle sue spalle!-, con i suoi capelli brillantinati stile anni ’30, anello con pietra al dito. Il tono della voce è imperioso, tagliente, arrochito probabilmente più dall’abitudine al comando che dal fumo delle innumerevoli sigarette: insomma un’impostazione vocale che, abbinata ad alcune posture molto cariche, richiama le secche ed incisive proclamazioni del duce, documentate dai filmati dell’epoca. Appartiene al deprecato ventennio anche l’appellativo "eccellenza" di cui si fregia (si noti che la commedia è ambientata nel 1964: in quegli anni ci fu un ritorno di fiamma dell’estrema destra, in seguito ad un’intesa tra la democrazia cristiana e la destra, che portò alla presidenza del consiglio il missino Tambroni, dimessosi entro pochi mesi per porre un freno ai disordini che derivarono dalla sua nomina). Dunque una connotazione politica della commedia? Sì, ma non riferita a quell’unico momento politico, bensì estesa al rapporto teatro–potere in generale. "In Inghilterra, da qualche parte, si conserva ancora la corda con cui si pose fine alle sofferenze di qualche Arlecchino": lo stato ha sempre osteggiato il teatro (si pensi alla fuga dei comici dell’arte dall’Italia a seguito della Controriforma, al veto legislativo al seppellimento degli attori in terra consacrata e via di seguito), e il fatto che "autori coraggiosi non sono mancati", è preoccupante conferma che, per affrontare certi temi, occorresse coraggio. Le sottili allusioni all’epoca del fascio dipendono, inoltre, da una ulteriore, nuova forma di ingerenza dello stato nel Teatro, risalente a quel periodo. Al di là della censura (tra l’altro più subdolamente esercitata anche ai giorni nostri: basti pensare alla relegazione ai margini del mondo dello spettacolo di Beppe Grillo, a certe latitanze di autori come Dario Fo e Franca Rame, scomodi non solo alla destra, ma anche alla "caricatura" di sinistra attualmente al potere), nell’epoca fascista cominciarono le sovvenzioni statali ai teatri, nacquero gli Stabili, che non potevano, con queste premesse, essere indipendenti dalla situazione politica. Del resto, già ad Atene nel V sec. A. C., come acutamente nota Hauser, il biglietto gratuito per i cittadini meno abbienti era, più che espressione di un autentico regime democratico, spia di un controllo dello stato sul teatro: "solo un teatro che dipenda dai propri introiti può essere veramente popolare"; non casualmente, quindi, il conservatore Sofocle, tra i tre grandi tragici, conseguì di gran lunga il maggior numero di vittorie negli agoni drammatici. Tornando alla storia contemporanea, il fascio negò sovvenzioni alle compagnie dialettali, i cui repertori venivano riduttivamente considerati di puro divertimento. Fatta questa storia del teatro statale, il politico portato in scena da Orsini è forse ancor più figlio dei giorni nostri che del fascismo: egli, pur disprezzando il semplice repertorio di Campese, parla a favore di un teatro di disimpegno: per lo stato è sempre e comunque meglio che la gente non pensi troppo, ma che si distragga; "la confusione" di cui si lamenta il capocomico è il risultato dell’ambiguità politica che, apertamente, deve sostenere il teatro –scuole di recitazione-, ma, occultamente lo ostacola. Il disprezzo per L’occhio alla serratura è allora il ritrarsi dal pericolo di essere messo di fronte ad una società e a problemi che è più comodo non conoscere, per non doverli risolvere? E’ questo il compito del teatro, la funzione sociale dell’attore, non riconosciuta nel sillabario su cui studiava Oreste bambino?

Il tema dei "figli d’arte" –la compagnia è composta da Campese ed i suoi familiari- è leggibile anche in chiave autobiografica: Eduardo ci racconta un pezzo di vita sua e della tradizione artistica della famiglia Scarpetta- De Filippo; con il figlio Luca come interprete, questo fattore si fa quadratico. Un Luca De Filippo che non cerca di imitare il padre e vive un Oreste Campese tutto suo, dimesso e pacifico, lancia la sua sfida al prefetto forse senza la minima intenzione di darvi un seguito, a fronte del personaggio più umile e brillante ma più ambiguo e ammiccante di sottintesi intepretato da Eduardo. Ottima la performance di Umberto Orsini, nel complesso ed in chicche, come la posa stravaccata sul divano quando riceve Oreste, scomposto, una gamba distesa, segno della sua conscia superiorità e rievocazione della gamba di legno che esibiva il politico consumato di Johnny Stecchino, interpretato da Franco Volpi. Un prefetto reinventato rispetto all’alto modello lasciato da Ferruccio Ceresa: ed un merito dello spettacolo è sicuramente quello di non aver "copiato" la celebre versione recitata dallo stesso Eduardo (Campese) e Ceresa (il prefetto), ma di averla rivisitata e plasmata su attori di personalità differente dai predecessori, arricchendola di suggestioni scenografiche degli anni ’90.

La scenografia è composta dai resti del capannone bruciato, una specie di carro di Tespi contro cui sono accoccolati, nell’ombra, gli attori (o i paesani?). Un lieve velo trasparente, che riporta il palazzo della prefettura, costringe il capocomico nella parte più avanzata del proscenio: è la costrizione della politica sull’arte? Il palazzo appare superbo di glorie passate: ma è ora in uno stato peggiore del degrado, si sta disfacendo dalle fondamenta, si sta dissolvendo. La sensazione è rinnovata con maggiore forza dagli interni della prefettura: antichi stucchi che adornano il soffitto lottano per non crollare, come le volte mancanti; le pareti si stanno sbriciolando, mancano di sostegno dal basso, il divano è tarlato; l’accesso all’ufficio del prefetto avviene attraverso una porta, ma essa è quasi più una limitazione spaziale che un varco, perché manca la parete separatoria, il prefetto è molto più "a disposizione" di quanto lui stesso sappia. Insomma, se la labilità di un mondo costruito sulla finzione è ben manifesto e chiaro agli "attori" di tale mondo, sembra invece pericolosamente ignota la fatiscenza della realtà, sia sociale che politica, rosa inavvertitamente ma irrefrenabilmente, fino ad un prevedibile, inevitabile tracollo.