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Carlo Goldoni

 Un grande Massimo Popolizio nella parte dei due gemelli

RONCONI SCOPRE UN GOLDONI NOIR NE I DUE GEMELLI VENEZIANI

Ritorna in cartellone una delle commedie meno rappresentate di Goldoni, I due gemelli veneziani, per la regia di Luca Ronconi: e le sorprese ovviamente non mancano. La trama è basata sulla catena di equivoci scatenata dalla contemporanea presenza a Verona di Zanetto, allevato a Bergamo e cresciuto sempliciotto, e giunto in città con il proposito di accasarsi con Rosaura, la figlia del dottor Ballanzone, e del gemello Tonino, scappato da Venezia per ricongiungersi all'amata Beatrice. Ma Beatrice è insidiata anche da Florindo, "amico" di Tonino e dal vanaglorioso Lelio, mentre Rosaura è bramata dal vecchio Pancrazio, ipocrita ospite della casa del dottore. Il finale dipana tutti i pasticci tessuti nelle tre ore e mezza di spettacolo.

I due gemelli: le due facce dell’arguzia e della dabbenaggine. Goldoni originalmente, già in in uno dei suoi primi cimenti con il genere teatrale della commedia (I due gemelli veneziani è del 1747, all’inizio della sua carriera di drammaturgo) punta sul contrasto somiglianza fisica/antitesi di spirito, anziché contrapporre i due personaggi sul piano morale; analoga opposizione nella commedia inglese della Restaurazione che rappresentava furbi e sciocchi, wits and gulls. Ci muoviamo, per ora, nel solco tracciato dalla tradizione teatrale: negli Adelphoe di Terenzio il contrasto è pure tra due metodi educativi: quello rigido, da buon "pater familias" Romano, applicato dal padre dei ragazzi sul figlio allevato in campagna e quello più liberale che si diffondeva nella capitale, che lo zio permette al nipote (salvo poi ottenere risultati sorprendenti ed inaspettati: è il sistema più repressivo è quello che induce a tralignare). E non si dimentichi che il modello remoto degli equivoci generati dallo scambio tra due gemelli risale addirittura ai Menaechmi di Plauto. Nella pièce si ravvisano, però, anche influenze delle teorie illuministiche sull’educazione: si pensi all’Emilio di Rousseau (1762), dove essa è frutto dell’ambiente costruito attorno al ragazzo dal precettore e degli stimoli che ne derivano. È un "mondo artificiale", in cui però il bambino è lasciato il più possibile libero di sperimentare l’infanzia, per essere poi istruito nelle scienze dal suo precettore quando sarà in grado di recepirle in maniera critica. Con ironia, l’autore combina questi elementi con il luogo comune, diffuso nella Serenissima, dei montanari -e, in particolare, dei Bergamaschi- tonti a fronte del buon senso e dell’arguzia veneziana: non a caso Zanetto, il gemello allevato a Bergamo, richiama per omofonia lo "Zanni", la figura dell’ignorante e misero contadino/facchino delle vallate bergamasche che si era sviluppata, a partire dal ‘500, nella maschera di Arlecchino.

Insomma, modernamente, i due gemelli di Goldoni sono identici fisicamente, ma molto diversi per carattere e modo di comportarsi. La commedia, tra le prime scritte dall’autore, si discosta alquanto dalla commedia goldoniana solitamente nel repertorio delle compagnie: la commedia termina con la morte di uno dei due gemelli, Zanetto, e con il suicidio del signor Pancrazio, sedicente virtuoso installatosi in casa del dottor Ballanzone per insidiare la mano di Rosaura. Si può pensare alla semplice contaminazione di generi in un Goldoni che si dedicava anche alla stesura di tragicommedie e di libretti per melodrammi; ma in questo lavoro c’è una connotazione sinistra che la enuclea sia dalla grande produzione della commedie che da quella meno famosa dei melodrammi. La commedia è infatti giocosa, la trama ben costruita, l’equivoco per cui entrambi i gemelli sono creduti Zanetto e si ritrovano tra due morose e diversi spasimanti rivali è condotto con una perizia degna delle commedie maggiori. Il finale è, quindi, ancor più sorprendente. Nella commedia affiorano i fantasmi della società che Goldoni avrebbe, spesso con più indulgenza, descritto nelle commedie successive: i protagonisti presentano tutti connotazioni negative, ad eccezione dei personaggi femminili e proprio dello sciocco Zanetto. I tre personaggi suddetti, infatti, seguono i dettami del cuore o dell’istinto: Rosaura e Beatrice in maniera conforme alla loro condizione di dame dotate di fine educazione; Zanetto, con potente intuizione registica, in maniera quasi "animale", nel senso che dà schietta manifestazione dei suoi desideri, più che umani, nel bene (infatti, per quanto sia un partito appetibile, si accontenta di una dote irrisoria: quanto questo si può imputare alla sua semplicità, considerato che è guidato dallo zio nella sua decisione di prender moglie?) e nel male (allunga troppo le mani). Egli desidera prender moglie per le stesse, ovvie ragioni del fratello Tonino, di Lelio e Florindo. Ma, contrariamente a loro, non è contaminato dalle "cerimonie", che più volte depreca della società, che non fanno che appesantire e rendere difficoltosi i rapporti umani. Per lui "mario e muggier" equivale ad un sano rapporto amoroso, quindi anche sessuale. Quando Florindo affronta in duello Lelio, lo vince e lo minaccia di morte, Zanetto esorta Florindo: "Mazzelo". Se non si può definire generoso, è sicuramente dotato di senso pratico e di una logica innegabilmente lineare (togliersi dai piedi un seccatore mezzo pazzo). E suscita risate il contrasto con il fratello Tonino, animato da un’etica magnanima, ma artificiosa, per cui è sufficiente strappare la spada all’avversario e gloriarsi di una vittoria che lascerà però il fastidioso Lelio a piede libero. E per questo Rosaura, per quanto disorientata dalle maniere grezze di Zanetto –si può ben dire che le salta letteralmete addosso, con gonna svolazzante e cosce all’aria- si mostra accondiscendente alle avances di lui, lo trattiene solo per salvare le convenienze nel primo incontro e, pentita dello schiaffo, incita Tonino, scambiandolo per Zanetto, a manifestarle il suo affetto quando riceve il promesso la seconda volta. Gli altri personaggi denotano tutti una meschinità più o meno latente: Florindo non esita a tradire l’amico per i begli occhi di Beatrice, Lelio già nel nudo testo si rende sufficientemente ridicolo con le sue spacconate, è anche infido fino a proporre a Florindo di vendicarsi di Tonino, reo di non cedere Beatrice, pugnalandolo alle spalle. Il dottor Ballanzone, che vuole maritare la figlia a Zanetto per risparmiare sulla dote e che, smascherato il suo inganno sulla falsa identità di Rosaura, continua comunque a preoccuparsi solo dell’eredità che non riceverà dal fratello, non è certo un modello di padre esemplare; e, anche se si inscrive nel gioco degli equivoci, il suo "comportamento da mezzano", rilevato da Tonino, quando, creduto Zanetto, viene ricevuto con troppa familiarità nelle stanze di Rosaura, non è poi così lontano dal vero, visto che, sagacemente, la regia lo ha reso testimone degli "attacchi" di Zanetto alla virtù di Rosaura: egli sa benissimo che il "novizzo" proverà ad approfittare della figlia. Per contro il personaggio di Pancrazio, in molti allestimenti interpretato come un più modesto epigono di Tartufo molieriano, è rivelato fin dall’inizio in tutta la sua interessata ipocrisia, e non solo agli spettatori, ma proprio agli altri personaggi. Nel primo colloquio con Rosaura ha la lingua penzoloni, cerca ripetutamente, più che di baciarle, di leccarle la mano: insomma, è inequivocabile. Pancrazio si comporta in maniera nient’affatto mielosa, bensì scorbutica con tutti coloro con cui viene a contatto; i suoi "a parte" del testo sono recitati a voce ben alta: forse sono i destinatari delle sue frecciate a non voler sentire. Perfino il suo sbandierare le sue "insegne", bibbia e rosario, è brusco, non li esibisce come oggetti venerabili, ma li maneggia con disattenzione e trascuratezza; è un uccellaccio nero, un "corvo" alla Becque, ben abbinato con l’ombrello che sventola sempre quando esce dalla casa del dottore: un palliativo del suo riparo dalle intemperie delle vita nell’armadio. Pancrazio, insomma, nella sua conclamata doppiezza e falsità, contribuisce a sottolineare la meschinità non dissimulata degli altri. Lo stesso Tonino, onesto (rifiuta i gioielli che gli vengono consegnati da Arlecchino), generoso (li devolve a favore delle ragazze prive di dote), leale (non cerca la morte dell’avversario in duello, ma solo la sua sconfitta), non è esente da incrinature: si consola ben presto delle ripulse, per lui incomprensibili, di Beatrice, quasi imbastisce una relazione con Rosaura -giustificata nel prosieguo come naturale propensione verso colei che, in realtà, è sua sorella-; nel finale piange il fratello morto, ma non abbastanza da rinviare le proprie nozze: un dolore posticcio? E non esita, da quel gentiluomo che è, a sacrificare la sorella Rosaura-Flaminia a Lelio, che pure ha già avuto modo di conoscere e disprezzare come cicisbeo e vigliacco, per sistemare i problemi finanziari e d’onore del dottor Ballanzone: non può esimersi dall’imporre il marchio "e vissero tutti felici e contenti".

Il mondo che ci appare è tutt’altro che trasparente, si nasconde dietro inutili cerimonie e vuoti complimenti. Così tutti i personaggi maschili (salvo Pancrazio), indossano giubbe a piccoli pois da mascherata: il regista insinua che siano pagliaccimal camuffati? Questo particolare stabilisce un sottile nesso con Arlecchino e la giubba multicolore rappezzata, dichiaratamente "buffonesca". Il servo, sembra suggerire Ronconi, è grottesco in maniera palese e non cerca di apparire diverso: e gli altri? Che cosa c’è dietro la facciata di rispettabilità che ostentano se non autentica mediocrità? Arlecchino, come Zanetto, espone chiaramente le sue voglie a Colombina, anzi ispira una punta di tenerezza quando, mentre la sta più che palpando, scopre che è la sua promessa e ne rimane affascinato: "Che bella!", anziché scandalizzato dai facili costumi di lei, che, con un tentativo di maliziosa nonchalance, tutto femminile, si ricompone, per attutire l’impressione sconveniente di essersi gettata tra le braccia del primo che le abbia fatto la corte. È un’umanità meschina quella che attraversa questa commedia di Goldoni, più vicina a Moliere che non ai "caratteri" delle commedie specchio della borghesia del tempo che hanno reso celebre l’autore. La doppiezza dei personaggi –e quindi della visione del mondo che Ronconi estrapola dal testo- è evocata fisicamente sulla scena marcatamente nella coppia di gemelli e, più sottilmente, in alcuni dettagli, come l’acconciatura identica di Colombina e Rosaura, quasi a confondere serva e padrona. La doppiezza, metaforicamente, trapela dal comportamento ipocrita di cui si macchia ciascuno. Infine, scenograficamente, l’effetto è amplificato dal gioco di specchi predisposto da Margherita Palli. Il mondo è inganno ed apparenza, anche letale, come sintetizza la coppa di vino di Pancrazio che è veleno, ma è creduto vino da Zanetto, e, per un istante, anche dagli altri mentre Pancrazio si appresta a berlo spontaneamente. Il mondo –Verona, nell’azione- è un labirinto di specchi, come quelli dei Luna Park: si crede di sapere dove ci si trova e dove si va, di seguire un percorso predeterminato, ma non è così, ci si smarrisce. Gli stessi spettatori sono coinvolti nel gioco: quando i personaggi sottopassano l’impalcato che dovrebbe condurli dietro le quinte, l’occhio è ingannato, se ne vede la schiena riflessa, e poi si ritrova invece l’attore al centro della ribalta. Le stesse vicissitudini degli amanti, lo sbalestramento a cui sono sottoposti, così come la doppia identità di Rosaura/Flaminia, sono funzionali a questo gioco. Ne deriva che il mondo è un grande calderone di vicende parallele, che si ingarbugliano, senza però necessariamente portare ad incontrarsi: le incomprensioni tra Zanetto e Rosaura non si risolvono, né, a ben guardare, quelle tra Tonino e Beatrice, rabberciate per necessità di copione (Tonino è rimasto attratto da Rosaura, le parole con cui lei giustifica come empito di inconsapevole amore fraterno l’immediata "simpatia" provata per Tonino sono smentite dalla stessa eccitazione amorosa con cui, suo malgrado, lo afferma). Soprattutto, non riescono mai ad incontrarsi i due gemelli: si incrociano senza vedersi, "si mancano" per un pelo; uno evoca l’altro nel riflesso dello specchio e il regista aumenta la distanza tra i due –affettiva, più ancora che fisica- portando in scena entrambi poco prima dell’assassinio di Zanetto, ma ciechi l’uno dell’altro. Fa pensare il fatto che Tonino, pur avendo intuito che il fratello è anche lui a Verona, non si dia da fare per trovarlo: e quando finalmente incappa in Zanetto, è troppo tardi. La vita è non riuscire ad incontrarsi: quanto sia dovuto al caso, quanto a noi stessi, il regista lo lascia percepire allo spettatore.

La scenografia è evocativa nelle sue infinite possibilità: ogni personaggio, ogni evento, può essere visto da molteplici angolazioni, può assumere molteplici significati. Così non sorprende che gli specchi siano anche "assortiti": ce n’è di appannati, di infranti, di polverosi; alcuni simulano perfettamente balconi –nella scena in cui Rosaura si affaccia per sentire la serenata di Zanetto.- Ed è impressionante, ai limiti del macabro, veder uscire Pancrazio, nel primo atto, da un armadio, con immancabile specchio: sembra una presenza spettrale, infestante ed, insieme, evoca potentemente la metafora dello "scheletro nell’armadio": "scheletro" di se stesso, introdottosi in casa del dottore sotto un’apparenza di falsa virtù per conquistare Rosaura. Ma anche scheletro ideale per gli altri, in quanto il suo codice morale adattabile ai desideri dei suoi protettori lo rende un’ipostasi delle prurigini di chiunque. Doppiamente amara la conclusione: alla fine nell’armadio un cadavere c’è davvero; e dell’amore, dell’inganno, dell’esistenza di Pancrazio rimangono solo le impronte su uno specchio: fastidiose anche da vedersi, da cancellare al più presto, per ridonare allo specchio la sua fredda lucentezza.

Gli attori si fondono in un ottimo cast: da Massimo Popolizio, che insieme alla giacca cambia personalità, passando da Tonino a Zanetto con una scioltezza straordinaria, al personaggio sfuggente di Pancrazio –è malvagio e bugiardo, ma agisce per amore; inganna ed uccide, ma sceglie la morte in maniera quasi eroica, in mezzo a tanta insulsa piccineria- dà vita Riccardo Bini, Laura Marinoni è una Beatrice appassionata, pronta a trafiggersi il petto ad ogni ripulsa di quello che lei crede Tonino, con accenti melodrammatici che fanno bonariamente sorridere e conferiscono al personaggio un carattere volitivo, impulsivo, differenziandola dall’altra "amante" della pièce, Rosaura, tutta scrupoli e modestia (Manuela Mandracchia); Luciano Roman anima un Lelio eloquente fino allo sproposito e vanesio.

Un momento dello spettacolo avvince su tutti: l’agonia di Zanetto, che porta lo spettatore dal comico-grottesco –egli deve stoicamente resistere agli spasimi di stomaco, perché poi saranno le donne a corrergli "drio" mentre lui le sdegnerà- alla tragica presa di coscienza della morte che sopraggiunge, il dolore fisico e la disperazione divampano con espressioni ed accenti lirici: una scena da Oscar.

 

Irene Liconte