Non
si misura frattura più profonda tra società e cinema di quella che riguarda
il tema dell'immigrazione. È sufficiente questa considerazione per tagliar
corto in ordine alle squisite delucidazioni in materia. L'immigrazione
è semplicemente una realtà che non esiste per il cinema italiano e, quindi,
una realtà che non esiste - sempre per il cinema italiano - né nell'immaginario
collettivo, né all'ordine del giorno. Provate a ricordare quali sono stati
i film, distribuiti dignitosamente, che hanno avuto come soggetto centrale
l'immigrazione e non vi verrà in mente niente se non qualche sporadico
titolo: titoli sporadici che in ogni caso non fanno leva e non smuovono,
considerando che molti, se non tutti, soffrono dei classici complessi
che attanagliano questo tipo di cinema. Ci troviamo dunque a una soluzione
prima ancora che a un problema: non esiste cinema sull'immigrazione. Ma
che cosa dovrebbe essere il cinema sull'immigrazione? La definizione già
presta il fianco alle bordate dei puristi e a quelle degli integralisti:
il cinema non è su niente perché riguarda tutto, la vita tutta, da una
parte, e dall'altra il cinema sull'immigrazione è un modo sbagliato di
intendere l'immigrazione come se questa fosse di per sé argomento di un
genere che alimenta il cinema e il suo immaginario. Come dire che fare
cinema affrontando direttamente e indirettamente il mondo dell'immigrazione
vuol dire relegarlo in un confine tagliando i ponti con l'esterno. C'è
del vero in queste probabili osservazioni, ma qui non siamo nel campo
delle mezze verità ma in quello dell'urgenza, urgenza che non viene percepita,
che non viene sentita né da chi il cinema lo fa, né da chi il cinema lo
vede, se non per una sparuta minoranza. Sia chiaro che ci stiamo inoltrando
in un terreno difficile. Innanzitutto stiamo parlando di cinema e non
di un qualsiasi esperimento di immagine filmata. Questo vuol dire eliminare
dal discorso tutta quella produzione, che di certo c'è e si alimenta nonostante
la sua apparente invisibilità, che tratta e svolge in forme diverse il
caleidoscopio dell'immigrazione. Progetti documentaristici, reportage,
filmini ben fatti, benché amatoriali, che circuitano solo e solamente
nei percorsi obbligati e ghettizzanti dei luoghi dove ancora si riflette
e si ragiona. Capita a volte di incrociare, in quei tremendi "festival"
del cortometraggio, lavori che si accostano, spesso retoricamente, alle
sponde dell'immigrazione e che molto spesso vengono anche premiati per
lenire il senso di colpa di chi li organizza e per gonfiare il portafoglio
di chi furbescamente ha preferito riprendere uno sbarco sulle coste pugliesi
piuttosto che una storia d'amore tra due adolescenti. Lasciamo ben volentieri
le piccolezze ai poveri di spirito. Quel che si lamenta qui è, invece,
la totale assenza di un discorso cinematografico serio, alto, anche teorico,
sull'immigrazione realizzato con tutti gli strumenti che un tale linguaggio
cinematografico permette. L'analisi dei motivi che hanno portato a una
siffatta deficienza sono tanti e non facilmente numerabili. Da una parte
si sconta un più generale e radicato disinteresse: la coltura massculturale
non è stata di certo alimentata da fertilizzanti appropriati che ne garantiscono
la bontà del raccolto. Dall'altra si paga il prezzo, ora alto, dell'impreparazione
culturale di chi pur mosso da autentici propositi vorrebbe prodursi in
opere a sfondo sociale. Facciamo degli esempi. Della nuova leva di registi
italiani quei pochi che hanno tentato di raccontare il mondo dell'immigrazione
sono caduti, in un modo o nell'altro in tutti gli errori che una cattiva
sensibilità, da una parte, e una autentico disinteresse dall'altra, possono
garantire. Tra la Ballata dei lavavetri di Peter Del Monte e Terre di
mezzo e Ospiti di Matteo Garrone con in mezzo L'assedio di Bertolucci,
si esaurisce gran parte della vicenda italiana in tema di immigrazione.
Sono solo alcuni di quei titoli sporadici, ma nessuno di questi centra
mai il bersaglio. Peter Del Monte quasi non fa testo raccontando la storia
di un lavavetri polacco a Roma con la faccia di Kim Rossi Stuart affiancato,
per renderlo definitivamente incredibile, da veri polacchi in trasferta
italiana. Una sorta di pantomima poetica improbabile e offensiva, che
si tiene lontano dai supporti sociologici, ma che sfonda irrimediabilmente
anche il più gretto luogo comune. Quello di Del Monte risulta quindi come
uno degli atteggiamenti possibili, qui di un regista poco dotato alle
prese con un soggetto che possa farsi piacere, ma siamo ben al di sotto
anche della stessa categoria dell'"esotico".
Matteo Garrone, invece, chi lo conosce lo evita, almeno per questa sua
prima produzione cinematografica. Terre di mezzo e soprattutto Ospiti,
sono film "gentili" che in verità non chiedono niente a nessuno, che si
vogliono far piacere con la scusa dell'impegno sociale e civile. Il regista
romano vanta una certa capacità di rappresentazione, ma la sua è una visione
assolutamente esterna che, non riconoscendo la materia, viene resa con
quel fastidioso tono da neorealismo tinto di rosa. Cinema gentile che
non ci fa capire nulla, che ci consola con la lezione meritoria della
semplice denuncia non sentita, né vissuta. È questo un altro modo per
accostarsi al tema. Ricorda un po' quella specie di finto impegno a parole
che è il biglietto lasciapassare di una sinistra cinematografica romana
e mafiosa, seppur marginale, perché non sostenuta dai grandi capitali.
La garbatezza di questi film garroniani in verità è la conseguenza di
un atteggiamento ancora più pericoloso: questi film sono garbati perché
sono il frutto di un furto, quello all'immaginario dell'impegno. Semplicemente
a Garrone non interessa nulla delle condizioni di vita degli immigrati
a Roma, li considera semplicemente un buon piatto per le forchette più
esigenti. Imporporarsi di impegno per farsi conoscere e girare altri film
diversi, alla fine dimentichi dei primi, e casomai anche belli… ma, detto
in due parole: cui prodest? C'è da chiedersi se mai Garrone si
sia interessato della sorte reale delle prostitute nigeriane, dei benzinai
egiziani, dei lavavetri polacchi che ha "sfruttato" per i suoi filmini.
Un aneddoto aiuta a capire. I protagonisti del film Ospiti sono due ragazzi
extracomunitari, albanesi, raccolti da Garrone per le vie di Roma. Il
nostro gli chiede di fare un film, si spera pagandoli, e loro accettano.
Il film esce, va anche a Venezia e viene invitato in alcuni festival provinciali,
se non parrocchiali, e in uno di questi uno dei due fratelli viene "beccato"
dalla polizia e rimpatriato perché ovviamente non in regola. Ecco cosa
significa giocare con la realtà e metterla in mano a un piccolo e borghese
rampollo romano stanco di gestire il locale trend in pieno Parioli. Tra
Del Monte e Garrone, regna l'ultimo Bertolucci, quello dell'Assedio. Tutt'altra
storia, per carità, ma una storia che ci dice quanto ancora siamo lontani
da un convincente cinema italiano che sappia parlare d'immigrazione. Bertolucci
è l'ultimo regista borghese e il suo modo di vedere la realtà è perfettamente
e simbolicamente rappresentato da quella raminga scena piazzata all'interno
di Io ballo da sola, scena nel quale la comunità di inglesi e americani,
artisti e intellettuali, arroccati e difesi dalle sponde dei pini toscani,
guarda al di là del crinale della loro collina la strada abitata da prostitute
in cerca di clienti. Questa è la sua distanza, distanza che viene rotta
da L'assedio in cui la scena è presa da una studentessa africana al servizio
di un eccentrico musicista inglese in stanza a piazza di Spagna. Qui inneggia
il suo canto ammaliante: quella sorta di romanticismo letterale tipico
di chi non conosce la realtà ma la vuole rappresentare. Non si possono
dimenticare quelle immagini imbarazzanti che riprendono la governante
africana piegata sulle ginocchia mentre lava il pavimento inquadrata da
un dolly discendente così persuasivo quanto offensivo. Viene in mente
l'anatema di Daney che a proposito del film Kapò di Gillo Pontecorvo diceva
che quel che è peggio è che ci ha considerati bisognosi di questa retorica,
di questa persuasione. "Anche una carrellata è una questione di morale!"
Questo veloce excursus non vuole essere esaustivo ma sintomatico. Ci sono
esperienze più serie sull'argomento, come Lamerica di Gianni Amelio. Tali
esperienze, per il momento, sono veramente troppo isolate per essere ricondotte
all'interno di un percorso. Eppure, ci verrebbe da dire: questi erano
gli albanesi nel 1991, appena caduto il regime comunista. Questo era (ed
è tuttora) il rapporto (o l'insieme dei possibili rapporti) che si è stabilito
tra individui provenienti dalle due sponde dell'Adriatico. Lamerica è
innanzitutto un film moralmente giusto: sia riguardo all'Italia che all'Albania,
sia in riguardo all'immigrazione che alla (ennesima) fine di un mondo
contadino; ma è, lo ripetiamo, un caso isolato. Da qui, da questa dichiarazione
di sconfitta, nasce l'esigenza di affrontare il risultato di altre cinematografie,
unendo all'esame delle produzioni "marginali" un corredo minimo di principi
teorici. Questo ci sembrano le premesse per chi voglia orientarsi nell'analisi
del rapporto cinema e immigrazione.
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