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Con questo editoriale apriamo la sezione di critica cinematografica e letteraria.

Tale sezione vuole aprire una finestra sul rapporto tra forme culturali e artistiche da una parte e immigrazione dall'altra, definendo man mano gli aspetti positivi e le zone d'ombra di questo rapporto.
Quanto contano il cinema e la letteratura nel farci conoscere il mondo dei migranti? Quanto contribuiscono alla formazione del nostro immaginario collettivo? E quanto, poi, questo immaginario è veritiero?

Incominciamo dalle mancanze e dalla superficialità del cinema italiano.

Cinema italiano e immigrazione
di Dario Zonta
Non si misura frattura più profonda tra società e cinema di quella che riguarda il tema dell'immigrazione. È sufficiente questa considerazione per tagliar corto in ordine alle squisite delucidazioni in materia. L'immigrazione è semplicemente una realtà che non esiste per il cinema italiano e, quindi, una realtà che non esiste - sempre per il cinema italiano - né nell'immaginario collettivo, né all'ordine del giorno. Provate a ricordare quali sono stati i film, distribuiti dignitosamente, che hanno avuto come soggetto centrale l'immigrazione e non vi verrà in mente niente se non qualche sporadico titolo: titoli sporadici che in ogni caso non fanno leva e non smuovono, considerando che molti, se non tutti, soffrono dei classici complessi che attanagliano questo tipo di cinema. Ci troviamo dunque a una soluzione prima ancora che a un problema: non esiste cinema sull'immigrazione. Ma che cosa dovrebbe essere il cinema sull'immigrazione?
La definizione già presta il fianco alle bordate dei puristi e a quelle degli integralisti: il cinema non è su niente perché riguarda tutto, la vita tutta, da una parte, e dall'altra il cinema sull'immigrazione è un modo sbagliato di intendere l'immigrazione come se questa fosse di per sé argomento di un genere che alimenta il cinema e il suo immaginario. Come dire che fare cinema affrontando direttamente e indirettamente il mondo dell'immigrazione vuol dire relegarlo in un confine tagliando i ponti con l'esterno. C'è del vero in queste probabili osservazioni, ma qui non siamo nel campo delle mezze verità ma in quello dell'urgenza, urgenza che non viene percepita, che non viene sentita né da chi il cinema lo fa, né da chi il cinema lo vede, se non per una sparuta minoranza.
Sia chiaro che ci stiamo inoltrando in un terreno difficile. Innanzitutto stiamo parlando di cinema e non di un qualsiasi esperimento di immagine filmata. Questo vuol dire eliminare dal discorso tutta quella produzione, che di certo c'è e si alimenta nonostante la sua apparente invisibilità, che tratta e svolge in forme diverse il caleidoscopio dell'immigrazione. Progetti documentaristici, reportage, filmini ben fatti, benché amatoriali, che circuitano solo e solamente nei percorsi obbligati e ghettizzanti dei luoghi dove ancora si riflette e si ragiona. Capita a volte di incrociare, in quei tremendi "festival" del cortometraggio, lavori che si accostano, spesso retoricamente, alle sponde dell'immigrazione e che molto spesso vengono anche premiati per lenire il senso di colpa di chi li organizza e per gonfiare il portafoglio di chi furbescamente ha preferito riprendere uno sbarco sulle coste pugliesi piuttosto che una storia d'amore tra due adolescenti. Lasciamo ben volentieri le piccolezze ai poveri di spirito. Quel che si lamenta qui è, invece, la totale assenza di un discorso cinematografico serio, alto, anche teorico, sull'immigrazione realizzato con tutti gli strumenti che un tale linguaggio cinematografico permette.
L'analisi dei motivi che hanno portato a una siffatta deficienza sono tanti e non facilmente numerabili. Da una parte si sconta un più generale e radicato disinteresse: la coltura massculturale non è stata di certo alimentata da fertilizzanti appropriati che ne garantiscono la bontà del raccolto. Dall'altra si paga il prezzo, ora alto, dell'impreparazione culturale di chi pur mosso da autentici propositi vorrebbe prodursi in opere a sfondo sociale. Facciamo degli esempi. Della nuova leva di registi italiani quei pochi che hanno tentato di raccontare il mondo dell'immigrazione sono caduti, in un modo o nell'altro in tutti gli errori che una cattiva sensibilità, da una parte, e una autentico disinteresse dall'altra, possono garantire. Tra la Ballata dei lavavetri di Peter Del Monte e Terre di mezzo e Ospiti di Matteo Garrone con in mezzo L'assedio di Bertolucci, si esaurisce gran parte della vicenda italiana in tema di immigrazione. Sono solo alcuni di quei titoli sporadici, ma nessuno di questi centra mai il bersaglio. Peter Del Monte quasi non fa testo raccontando la storia di un lavavetri polacco a Roma con la faccia di Kim Rossi Stuart affiancato, per renderlo definitivamente incredibile, da veri polacchi in trasferta italiana. Una sorta di pantomima poetica improbabile e offensiva, che si tiene lontano dai supporti sociologici, ma che sfonda irrimediabilmente anche il più gretto luogo comune. Quello di Del Monte risulta quindi come uno degli atteggiamenti possibili, qui di un regista poco dotato alle prese con un soggetto che possa farsi piacere, ma siamo ben al di sotto anche della stessa categoria dell'"esotico".
Matteo Garrone, invece, chi lo conosce lo evita, almeno per questa sua prima produzione cinematografica. Terre di mezzo e soprattutto Ospiti, sono film "gentili" che in verità non chiedono niente a nessuno, che si vogliono far piacere con la scusa dell'impegno sociale e civile. Il regista romano vanta una certa capacità di rappresentazione, ma la sua è una visione assolutamente esterna che, non riconoscendo la materia, viene resa con quel fastidioso tono da neorealismo tinto di rosa. Cinema gentile che non ci fa capire nulla, che ci consola con la lezione meritoria della semplice denuncia non sentita, né vissuta. È questo un altro modo per accostarsi al tema. Ricorda un po' quella specie di finto impegno a parole che è il biglietto lasciapassare di una sinistra cinematografica romana e mafiosa, seppur marginale, perché non sostenuta dai grandi capitali. La garbatezza di questi film garroniani in verità è la conseguenza di un atteggiamento ancora più pericoloso: questi film sono garbati perché sono il frutto di un furto, quello all'immaginario dell'impegno. Semplicemente a Garrone non interessa nulla delle condizioni di vita degli immigrati a Roma, li considera semplicemente un buon piatto per le forchette più esigenti. Imporporarsi di impegno per farsi conoscere e girare altri film diversi, alla fine dimentichi dei primi, e casomai anche belli… ma, detto in due parole: cui prodest?
C'è da chiedersi se mai Garrone si sia interessato della sorte reale delle prostitute nigeriane, dei benzinai egiziani, dei lavavetri polacchi che ha "sfruttato" per i suoi filmini. Un aneddoto aiuta a capire. I protagonisti del film Ospiti sono due ragazzi extracomunitari, albanesi, raccolti da Garrone per le vie di Roma. Il nostro gli chiede di fare un film, si spera pagandoli, e loro accettano. Il film esce, va anche a Venezia e viene invitato in alcuni festival provinciali, se non parrocchiali, e in uno di questi uno dei due fratelli viene "beccato" dalla polizia e rimpatriato perché ovviamente non in regola. Ecco cosa significa giocare con la realtà e metterla in mano a un piccolo e borghese rampollo romano stanco di gestire il locale trend in pieno Parioli.
Tra Del Monte e Garrone, regna l'ultimo Bertolucci, quello dell'Assedio. Tutt'altra storia, per carità, ma una storia che ci dice quanto ancora siamo lontani da un convincente cinema italiano che sappia parlare d'immigrazione. Bertolucci è l'ultimo regista borghese e il suo modo di vedere la realtà è perfettamente e simbolicamente rappresentato da quella raminga scena piazzata all'interno di Io ballo da sola, scena nel quale la comunità di inglesi e americani, artisti e intellettuali, arroccati e difesi dalle sponde dei pini toscani, guarda al di là del crinale della loro collina la strada abitata da prostitute in cerca di clienti. Questa è la sua distanza, distanza che viene rotta da L'assedio in cui la scena è presa da una studentessa africana al servizio di un eccentrico musicista inglese in stanza a piazza di Spagna. Qui inneggia il suo canto ammaliante: quella sorta di romanticismo letterale tipico di chi non conosce la realtà ma la vuole rappresentare. Non si possono dimenticare quelle immagini imbarazzanti che riprendono la governante africana piegata sulle ginocchia mentre lava il pavimento inquadrata da un dolly discendente così persuasivo quanto offensivo. Viene in mente l'anatema di Daney che a proposito del film Kapò di Gillo Pontecorvo diceva che quel che è peggio è che ci ha considerati bisognosi di questa retorica, di questa persuasione. "Anche una carrellata è una questione di morale!"
Questo veloce excursus non vuole essere esaustivo ma sintomatico. Ci sono esperienze più serie sull'argomento, come Lamerica di Gianni Amelio. Tali esperienze, per il momento, sono veramente troppo isolate per essere ricondotte all'interno di un percorso. Eppure, ci verrebbe da dire: questi erano gli albanesi nel 1991, appena caduto il regime comunista. Questo era (ed è tuttora) il rapporto (o l'insieme dei possibili rapporti) che si è stabilito tra individui provenienti dalle due sponde dell'Adriatico. Lamerica è innanzitutto un film moralmente giusto: sia riguardo all'Italia che all'Albania, sia in riguardo all'immigrazione che alla (ennesima) fine di un mondo contadino; ma è, lo ripetiamo, un caso isolato.
Da qui, da questa dichiarazione di sconfitta, nasce l'esigenza di affrontare il risultato di altre cinematografie, unendo all'esame delle produzioni "marginali" un corredo minimo di principi teorici. Questo ci sembrano le premesse per chi voglia orientarsi nell'analisi del rapporto cinema e immigrazione.