Onnipotenza del re
Su Autori Luigi XIV

 

Da ciò ancora l'autorità senza limiti che poté tutto quello che volle e troppo spesso tutto quello che poté, senza mai trovare la più lieve resistenza, se si eccettuano delle apparenze piuttosto che delle realtà, sui rapporti con Roma e ultimamente sulla Costituzione. Questo si chiama vivere e regnare, ma è necessario allo stesso tempo convenire che, sorvolando sulla condotta del governo e dell'esercito, mai alcun principe possedette a tal punto l'arte di regnare. La corte dei tempi della Regina madre, che era insuperabile nel saperla tenere, gli aveva impresso una cortesia notevole, una serietà perfino nella galanteria, una dignità, una maestà in ogni cosa, qualità che il Re seppe conservare per tutta la vita, anche quando, alla fine, lasciò la corte a se stessa. Questa dignità però la volle solo per sé ed in rapporto alla sua persona. Tale dignità, seppure relativa, venne divelta dal Re quasi del tutto per meglio portare a termine la rovina di ogni altra e per metterla a poco a poco, come in effetti fece, all'unisono con le altre, eliminando, più che poté, tutte le cerimonie e le distinzioni, delle quali non mantenne che l'ombra ed alcune troppo radicate per poter essere estirpate, le quali divennero faticose e ridicole poiché egli seppe, anche in queste, seminar zizzania. Questo modo di agire gli servì ancora per separare, dividere e affermare la sottomissione alla sua persona, moltiplicandola in occasioni innumerevoli e molto importanti, che, senza questa abilità, sarebbero rimaste nelle norme; senza produrre dispute e ricorsi alla sua autorità. La sua massima era che bisognava soltanto prevenirle, ad eccezione di quelle cose troppo rimarchevoli e di cui non era necessario dare un giudizio, se ne guardava attentamente per non ridurre quelle occasioni che tanto gli parevano utili. Si comportava alla stessa maniera nel governo delle province; tutto divenne, durante il suo regno, motivo per liti e usurpazioni, e da ciò ne ricavò gli stessi vantaggi.

A poco a poco ridusse tutti a servire, anche quelli di cui faceva meno caso, aumentando la sua corte. Chi era in età non osava differire il momento dell'entrata in servizio. Fu ancora un'altra astuzia per rovinare i nobili, abituarli all'eguaglianza e confonderli alla rinfusa con tutti. Questa invenzione fu sua e di Louvois, che voleva regnare anche su tutti i signori rendendoli dipendenti, di conseguenza le persone nate per comandare rimasero nelle loro idee e non si ritrovarono più in nessuna realtà. Col pretesto che ogni incarico militare è onorevole ed è sensato imparare a obbedire prima di comandare, assoggettò ogni persona, senza altra eccezione che i principi del sangue, a debuttare come cadetti nella sua guardia del corpo e fare tutti lo stesso servizio delle semplici guardie, nella loro sala e all'aperto, estate e inverno, e al campo. Cambiò poi questa pretesa scuola in quella dei moschettieri, quando lo prese la fantasia di questo corpo, scuola che non aveva maggior concretezza di quanta ne avesse l'altra e dove, come nella prima, altro non si imparava se non a prendere vizi e a perdere tempo, ma dove ci si piegava per forza a confondersi con gente di ogni genere. Ed era tutto ciò che il Re pretendeva in realtà da quel noviziato, nel quale bisognava restare un intero anno, osservando la più scrupolosa regolarità in quel servizio pedante e inutile, quindi si doveva subire ancora un'altra scuola, che almeno era degna di questo nome. Si trattava di una compagnia di cavalleria per quanti volevano servire in cavalleria, e per quelli che avevano scelto la fanteria, una luogotenenza nel reggimento reale, del quale lo stesso Re si occupava di persona, come un colonnello, e che aveva a bella posta distinto da tutti gli altri. Era un'altra posizione subalterna, dove il Re tratteneva più o meno a lungo prima di accordare il consenso di acquistare un reggimento, cosa che dava a lui, ed anche al suo ministro, l'occasione di esercitare, a seconda dei casi, grazia o rigore, a seconda di come voleva trattare i giovani in base alle testimonianze che riceveva in genere di nascosto e non in altra maniera, o anche i loro genitori, il cui modo di comportarsi nei suoi confronti o in quelli del ministro incideva pesantemente. Oltre al fastidio e al dispetto di quella condizione subalterna, e alla naturale rivalità degli uni verso gli altri per uscirne al più presto, rimane il fatto che tale periodo era scarsamente considerato per ottenere un reggimento, senza limiti e senza alcun valore in sé, perché era stato stabilito che la prima data, dalla quale sarebbe stato conteggiato l'avanzamento nei gradi militari, fosse quella della carica di mastro di campo o di colonnello.

Con questa regola, eccettuate rare e particolari occasioni come un'azione notevole, portare una straordinaria notizia di guerra ecc., fu deciso che, di chiunque si fosse trattato, quanti erano in servizio, rimanevano in totale uguaglianza per quanto riguardava incarichi e grado. Ciò rese l'anticipo o il ritardo nell'ottenere un reggimento molto più sensibile, perché da ciò dipendevano tutti gli scatti successivi, che si fecero solo per promozioni a seconda dell'anzianità: e questa regola venne chiamata l'ordine dei quadri. Da ciò tutti i signori rimasero confusi nella folla degli ufficiali di ogni sorta; da ciò la confusione che il Re desiderava; da ciò la dimenticanza di tutti, e in tutti quella di ogni differenza personale e di nascita, per non esistere più se non in questa condizione di servitù militare, ormai popolare, controllata completamente dal Re, dal ministro e anche dai suoi commessi, il quale ministro aveva continue occasioni di preferire e di mortificare a suo piacimento, e non mancava di preparare abilmente il modo di favorire i suoi protetti, malgrado l'ordine dei quadri, e ritardare quelli che voleva. Se per fastidio, dispetto o avversione qualcuno abbandonava il servizio, la disgrazia era certa; c'era da stupirsi se, dopo anni di rifiuti ripetuti, si riusciva a ritornare a galla. Quanto a coloro che non erano della corte, e soprattutto i ceti bassi, a parte che il Re stesso li teneva d'occhio, il ministro della guerra vi prestava un'attenzione particolare; e fra questi chi lasciava il servizio poteva essere sicuro, e insieme a lui i suoi familiari, di subire nella loro provincia o nella loro città ogni specie di mortificazioni, e spesso tutte le persecuzioni possibili, di cui i diretti responsabili erano gli intendenti delle province, che si rifacevano normalmente sulle terre e sui beni.

Chiunque, illustre o sconosciuto, fu dunque costretto a entrare, a perseverare nel servizio e a rimanervici, folla anonima in completa eguaglianza e sottomissione al ministro della guerra e perfino ai suoi commessi. Ricordo Le Guerchoys, morto consigliere di Stato, allora intendente d'Alençon, mostrarmi a La Ferté l'ordine di far ricercare i gentiluomini della sua giurisdizione che avevano figli in età di servire e non ancora in servizio, di esortarli per farli entrare, ricorrendo anche alle minacce, e di raddoppiare e triplicare la imposta di capitazione per quelli che non avessero obbedito, facendo loro tutti i tipi di vessazione cui fossero suscettibili. Questo fu il caso di un gentiluomo, mio amico, che era in quella situazione e che io poi mandai a chiamare per deciderlo. Le Guerchoys fu poi intendente a Besançon, e consigliere di Stato all'inizio della Reggenza.