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Da ciò ancora
l'autorità senza limiti che poté tutto quello che volle e troppo spesso tutto
quello che poté, senza mai trovare la più lieve resistenza, se si eccettuano
delle apparenze piuttosto che delle realtà, sui rapporti con Roma e ultimamente
sulla Costituzione. Questo si chiama vivere e regnare, ma è necessario allo
stesso tempo convenire che, sorvolando sulla condotta del governo e
dell'esercito, mai alcun principe possedette a tal punto l'arte di regnare. La
corte dei tempi della Regina madre, che era insuperabile nel saperla tenere, gli
aveva impresso una cortesia notevole, una serietà perfino nella galanteria, una
dignità, una maestà in ogni cosa, qualità che il Re seppe conservare per
tutta la vita, anche quando, alla fine, lasciò la corte a se stessa. Questa
dignità però la volle solo per sé ed in rapporto alla sua persona. Tale
dignità, seppure relativa, venne divelta dal Re quasi del tutto per meglio
portare a termine la rovina di ogni altra e per metterla a poco a poco, come in
effetti fece, all'unisono con le altre, eliminando, più che poté, tutte le
cerimonie e le distinzioni, delle quali non mantenne che l'ombra ed alcune
troppo radicate per poter essere estirpate, le quali divennero faticose e
ridicole poiché egli seppe, anche in queste, seminar zizzania. Questo modo di
agire gli servì ancora per separare, dividere e affermare la sottomissione alla
sua persona, moltiplicandola in occasioni innumerevoli e molto importanti, che,
senza questa abilità, sarebbero rimaste nelle norme; senza produrre dispute e
ricorsi alla sua autorità. La sua massima era che bisognava soltanto
prevenirle, ad eccezione di quelle cose troppo rimarchevoli e di cui non era
necessario dare un giudizio, se ne guardava attentamente per non ridurre quelle
occasioni che tanto gli parevano utili. Si comportava alla stessa maniera nel
governo delle province; tutto divenne, durante il suo regno, motivo per liti e
usurpazioni, e da ciò ne ricavò gli stessi vantaggi. A poco a poco
ridusse tutti a servire, anche quelli di cui faceva meno caso, aumentando la sua
corte. Chi era in età non osava differire il momento dell'entrata in servizio.
Fu ancora un'altra astuzia per rovinare i nobili, abituarli all'eguaglianza e
confonderli alla rinfusa con tutti. Questa invenzione fu sua e di Louvois, che
voleva regnare anche su tutti i signori rendendoli dipendenti, di conseguenza le
persone nate per comandare rimasero nelle loro idee e non si ritrovarono più in
nessuna realtà. Col pretesto che ogni incarico militare è onorevole ed è
sensato imparare a obbedire prima di comandare, assoggettò ogni persona, senza
altra eccezione che i principi del sangue, a debuttare come cadetti nella sua
guardia del corpo e fare tutti lo stesso servizio delle semplici guardie, nella
loro sala e all'aperto, estate e inverno, e al campo. Cambiò poi questa pretesa
scuola in quella dei moschettieri, quando lo prese la fantasia di questo corpo,
scuola che non aveva maggior concretezza di quanta ne avesse l'altra e dove,
come nella prima, altro non si imparava se non a prendere vizi e a perdere
tempo, ma dove ci si piegava per forza a confondersi con gente di ogni genere.
Ed era tutto ciò che il Re pretendeva in realtà da quel noviziato, nel quale
bisognava restare un intero anno, osservando la più scrupolosa regolarità in
quel servizio pedante e inutile, quindi si doveva subire ancora un'altra scuola,
che almeno era degna di questo nome. Si trattava di una compagnia di cavalleria
per quanti volevano servire in cavalleria, e per quelli che avevano scelto la
fanteria, una luogotenenza nel reggimento reale, del quale lo stesso Re si
occupava di persona, come un colonnello, e che aveva a bella posta distinto da
tutti gli altri. Era un'altra posizione subalterna, dove il Re tratteneva più o
meno a lungo prima di accordare il consenso di acquistare un reggimento, cosa
che dava a lui, ed anche al suo ministro, l'occasione di esercitare, a seconda
dei casi, grazia o rigore, a seconda di come voleva trattare i giovani in base
alle testimonianze che riceveva in genere di nascosto e non in altra maniera, o
anche i loro genitori, il cui modo di comportarsi nei suoi confronti o in quelli
del ministro incideva pesantemente. Oltre al fastidio e al dispetto di quella
condizione subalterna, e alla naturale rivalità degli uni verso gli altri per
uscirne al più presto, rimane il fatto che tale periodo era scarsamente
considerato per ottenere un reggimento, senza limiti e senza alcun valore in sé,
perché era stato stabilito che la prima data, dalla quale sarebbe stato
conteggiato l'avanzamento nei gradi militari, fosse quella della carica di
mastro di campo o di colonnello. Con questa
regola, eccettuate rare e particolari occasioni come un'azione notevole, portare
una straordinaria notizia di guerra ecc., fu deciso che, di chiunque si fosse
trattato, quanti erano in servizio, rimanevano in totale uguaglianza per quanto
riguardava incarichi e grado. Ciò rese l'anticipo o il ritardo nell'ottenere un
reggimento molto più sensibile, perché da ciò dipendevano tutti gli scatti
successivi, che si fecero solo per promozioni a seconda dell'anzianità: e
questa regola venne chiamata l'ordine dei quadri. Da ciò tutti i signori
rimasero confusi nella folla degli ufficiali di ogni sorta; da ciò la
confusione che il Re desiderava; da ciò la dimenticanza di tutti, e in tutti
quella di ogni differenza personale e di nascita, per non esistere più se non
in questa condizione di servitù militare, ormai popolare, controllata
completamente dal Re, dal ministro e anche dai suoi commessi, il quale ministro
aveva continue occasioni di preferire e di mortificare a suo piacimento, e non
mancava di preparare abilmente il modo di favorire i suoi protetti, malgrado
l'ordine dei quadri, e ritardare quelli che voleva. Se per fastidio, dispetto o
avversione qualcuno abbandonava il servizio, la disgrazia era certa; c'era da
stupirsi se, dopo anni di rifiuti ripetuti, si riusciva a ritornare a galla.
Quanto a coloro che non erano della corte, e soprattutto i ceti bassi, a parte
che il Re stesso li teneva d'occhio, il ministro della guerra vi prestava
un'attenzione particolare; e fra questi chi lasciava il servizio poteva essere
sicuro, e insieme a lui i suoi familiari, di subire nella loro provincia o nella
loro città ogni specie di mortificazioni, e spesso tutte le persecuzioni
possibili, di cui i diretti responsabili erano gli intendenti delle province,
che si rifacevano normalmente sulle terre e sui beni. Chiunque,
illustre o sconosciuto, fu dunque costretto a entrare, a perseverare nel
servizio e a rimanervici, folla anonima in completa eguaglianza e sottomissione
al ministro della guerra e perfino ai suoi commessi. Ricordo Le Guerchoys, morto
consigliere di Stato, allora intendente d'Alençon, mostrarmi a La Ferté
l'ordine di far ricercare i gentiluomini della sua giurisdizione che avevano
figli in età di servire e non ancora in servizio, di esortarli per farli
entrare, ricorrendo anche alle minacce, e di raddoppiare e triplicare la imposta
di capitazione per quelli che non avessero obbedito, facendo loro tutti i tipi
di vessazione cui fossero suscettibili. Questo fu il caso di un gentiluomo, mio
amico, che era in quella situazione e che io poi mandai a chiamare per
deciderlo. Le Guerchoys fu poi intendente a Besançon, e consigliere di Stato
all'inizio della Reggenza.
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