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Appena egli
assunse il potere, ministri, generali, amanti e cortigiani si resero conto più
del suo debole che della sua preferenza per la gloria. A gara lo lodarono e lo
rovinarono. Le lodi, diciamo meglio le adulazioni, gli piacevano a tal punto che
le più grossolane erano ben accolte e le più smaccate ancor meglio apprezzate.
Solamente così era possibile avvicinarlo e coloro che egli amò lo dovettero
solamente al fatto di averlo incontrato in modo felice e di non essersi mai
stancati di lodarlo. Fu proprio ciò a dare tanta autorità ai suoi ministri,
attraverso le continue occasioni che avevano di incensarlo, soprattutto di
attribuirgli tutto, mostrandogli di aver appreso ogni cosa da lui.
L'arrendevolezza, la cortigianeria, l'aria ammirata, sottomessa, strisciante,
soprattutto l'aria di essere nulla se non per il suo tramite, erano le uniche
maniere per ingraziarselo. Per poco che uno se ne allontanasse, perdeva ogni
favore e fu proprio ciò a completare la rovina di Louvois. Questo veleno non
fece che aumentare. Raggiunse un punto incredibile in un principe che non era
sprovvisto di acume ed era dotato di esperienza. Lui stesso, non avendo né voce
né orecchio, cantava in privato le parti dei prologhi delle opere che più lo
lodavano, e addirittura nei pranzi pubblici del «grande apparato», dove
talvolta c'erano i violini, lo si vedeva raggiante canticchiare a mezza voce
proprio quelle lodi quando venivano suonate le arie corrispondenti.
Da qui il
desiderio di gloria che ad intervalli lo strappava all'amore, da qui la facilità
per Louvois di tenerlo occupato in grandi guerre, ora per rovesciare Colbert,
ora per riuscire a mantenere o ad aumentare il proprio potere, convincendolo che
egli era il più grande di tutti i suoi generali sia nella preparazione dei
piani sia nella loro esecuzione pratica, in cui gli stessi generali lo aiutavano
per riuscire graditi al Re. Mi riferisco ai Condé, ai Turenne e con maggiore
motivo a tutti i loro successori. Egli si appropriava tutto con una facilità e
una cortesia che sbalordiva in uno come lui ed era convinto di essere come lo
descrivevano quando gli rivolgevano la parola. Da qui il gusto per le riviste
che spinse a tal punto da venire chiamato dai suoi nemici il re delle riviste,
il gusto per gli assedi dove aveva occasione di mostrare il suo coraggio a buon
mercato, dove vi rimaneva trattenuto a forza e sfoggiava capacità, accortezza,
attenzione vigile, fatiche cui il suo corpo robusto e molto ben conformato era
adatto in maniera eccezionale, senza mai soffrire fame, sete, freddo, caldo,
pioggia né qualsiasi intemperia. Era anche sensibile all'ammirazione che
suscitava negli accampamenti il suo aspetto maestoso, l'aria solenne, l'agilità
a cavallo e tutte le sue gesta. Le campagne e le truppe erano gli argomenti con
cui intratteneva maggiormente le amanti e talvolta i cortigiani. Parlava bene,
con proprietà di linguaggio e riusciva a raccontare aneddoti o racconti meglio
di qualsiasi altro uomo. I suoi discorsi, anche i più comuni, non erano mai
privi di una maestà naturale ed evidente.
Il suo
spirito, per natura portato verso le cose minori, si dilettò di ogni tipo di
dettagli. Soprattutto si interessò a quelli relativi alle truppe: divise,
armamenti, manovre, esercizi, disciplina, in poche parole ogni tipo di
insignificante particolare. La stessa attenzione la rivolgeva alle costruzioni,
al personale civile, alle innovazioni culinarie; era convinto di insegnare
sempre qualcosa a quelli che sull'argomento ne sapevano di più, i quali da
parte loro ricevevano, fingendosi alle prime armi, lezioni che da molto tempo
conoscevano a memoria. Tali perdite di tempo, che parevano al Re degne di
meritare una continua applicazione, costituivano il trionfo dei suoi ministri, i
quali, aggirandolo con neppure molta abilità ed esperienza, facevano apparire
come derivanti da lui quanto essi stessi volevano, e governavano le cose
importanti secondo le loro mire, troppo spesso secondo il loro interesse,
rallegrandosi di vederlo immerso in quei dettagli. La vanità e l'orgoglio, che
andavano sempre aumentando e venivano alimentati e accresciuti in lui
continuamente, senza che neppure se ne rendesse conto, addirittura in sua
presenza dai predicatori dal pulpito, divennero la base dell'esaltazione dei
suoi ministri, al di sopra di qualsiasi altra grandezza. Egli era persuaso,
grazie alla loro abilità, che la loro grandezza non fosse altro che la sua, la
quale, essendo al massimo in lui, superava ogni misura, mentre di riflesso
attraverso i ministri aumentava lui in maniera evidente, poiché essi erano
niente senza di lui, inoltre era anche utile poiché rendeva più degni di
rispetto gli organi dei suoi comandi facendoli obbedire meglio. Ed ecco perciò
i segretari di Stato e successivamente i ministri lasciare il mantello, poi il
bavarino, poi l'abito nero, quindi quello unito, non ricercato, modesto, per
vestirsi come le persone di rango, e inoltre assumerne i modi, i vantaggi e per
gradi arrivare ad essere ammessi a mangiare con il Re; e le loro mogli, dapprima
con pretesti personali, come la signora Colbert molto prima della signora di
Louvois, infine tutte, qualche anno dopo, per diritto derivante dalla posizione
dei mariti, mangiare e accedere nelle carrozze e non essere in nulla diverse
dalle dame dell'alta nobilità. Di questo passo Louvois, con diversi pretesti,
tolse gli onori civili e militari nei presidi e nelle province a coloro ai quali
non erano mai stati messi in discussione prima, addirittura cessando di scrivere
loro monsignore come si era sempre fatto. Per caso ho conservato tre lettere di
Colbert, allora controllore generale, ministro di Stato e segretario di Stato,
indirizzate a mio padre a Blaye, che, sia nella busta sia nell'interno, riceveva
il trattamento di monsignore e che il Duca di Bourgogne, cui le mostrai, vide
con grande piacere. Turenne, nel lustro in cui allora si trovava, riuscì a
mantenere il rango di principe nelle lettere, salvando così, oltre ai Lorena e
ai Savoia, anche la sua famiglia, che aveva avuto quel titolo dal cardinale
Mazarino; invece i Rohan non l'hanno mai potuto ottenere e forse è l'unica cosa
in cui non è servita la bellezza della principessa di Soubise, ma in seguito
sono stati più fortunati. Turenne salvò anche gli onori militari dei
marescialli di Francia, così per sé conservò le due distinzioni.
Immediatamente dopo, Louvois si attribuì ciò che aveva sottratto a gente ben
più importante di lui e lo elargì ad altri segretari di Stato. Usurpò gli
onori militari senza che le truppe né alcun altro osassero negare al suo potere
di innalzare o distruggere chi riteneva degno e pretese che tutti coloro che non
fossero duchi o ufficiali della corona o che non avessero il rango di principe
straniero né lo sgabello di grazia gli scrivessero monsignore e lui rispondeva
firmandosi umilissimo e affezionatissimo servitore, mentre l'ultimo dei relatori
dei consigli di Stato o un consigliere di Parlamento gli scriveva signore senza
aver mai preteso di cambiare questo uso. All'inizio si levò un gran clamore:
gli appartenenti all'alta nobiltà, i cavalieri dell'Ordine, i governatori, i
luogotenenti generali delle province e di conseguenza la piccola nobiltà e i
luogotenenti generali dell'esercito, rimasero enormemente offesi da una novità
così sorprendente e strana. I ministri avevano saputo convincere il Re ad
abbassare quanto c'era di elevato e che il rifiutare questo trattamento sarebbe
stato come disprezzare la sua autorità e il suo favore di cui essi erano gli
organi dal momento che, senza di lui, essi erano niente. Il Re sedotto da quel
preteso riflesso di grandezza sulla sua persona si spiegò in modo assai duro a
tale proposito: o ci si piegava a questo nuovo stile o si lasciava il servizio,
cadendo, coloro che se ne andavano e quelli che non servivano, nell'aperta
disgrazia del Re e nella persecuzione dei ministri le cui occasioni non
sarebbero mancate. Diverse persone autorevoli che non prestavano servizio e
diversi comandanti di gran merito dell'alta nobiltà preferirono rinunciare a
tutto e perdere la loro fortuna, che in effetti persero, e per la maggior parte
fu ancora peggio, ma in un prosieguo di tempo abbastanza vicino nessuno fece più
la minima difficoltà sull'argomento. Perciò l'autorità personale e
eccezionale dei ministri venne portata al culmine perfino in campi non inerenti
gli ordini e il servizio del Re con il pretesto che si trattava della sua
autorità; perciò quel grado di potenza che essi usurparono nonchè le immense
ricchezze e i matrimoni che poterono permettersi a loro scelta.
Per quanto i
ministri fossero nemici tra loro, il comune interesse li teneva legati
saldamente su questi argomenti, e quello splendore usurpato su tutto il resto
dello Stato durò quanto il regno di Luigi XIV. Egli se ne vantava, ma non era
meno geloso di loro, voleva la grandezza a patto che fosse emanazione della sua.
Ogni altra forma di grandezza gli era diventata odiosa. Aveva al riguardo
un'irritazione incomprensibile come se le dignità, le cariche, gli impieghi con
le relative funzioni, distinzioni, prerogative non emanassero da lui come le
cariche di ministri e di segretario di Stato, le uniche che egli considerava di
sua competenza e pertanto di prima importanza, mentre abbatteva tutto il resto
sotto i loro piedi. Un'altra vanità personale lo spinse ancora in questa
direzione. Capiva bene di poter schiacciare un signore sotto il peso della sua
disgrazia, senza però riuscire ad annientarlo, e neppure i suoi, invece facendo
crollare un segretario di Stato dal suo posto o un altro ministro dello stesso
genere, rituffava lui e tutti i suoi nella profondità del niente da dove quella
carica l'aveva tirato fuori e neppure le eventuali ricchezze accumulate potevano
rialzarlo da quel non essere. Proprio per questo si compiaceva di far regnare i
ministri sui sudditi più elevati, sui principi del sangue come sugli altri e su
quanti non avevano né rango, né carica reale per grandezza e autorità
superiore a loro. Ed è proprio per questo che sempre fece allontanare dal
governo qualsiasi persona che potesse avere una posizione tale che il Re non
poteva né distruggere né conservare, ciò infatti, avrebbe reso un ministro di
tal sorta in qualche modo temibile e continuamente di peso, per cui l'esempio
del duca di Beauvillier fu l'unica eccezione in tutto il corso del suo regno,
come è stato notato a proposito di questo duca. Egli fu il solo nobile ammesso
nel consiglio dalla morte del cardinale Mazarino fino alla sua, ossia per
cinquantaquattro anni, perché a parte quanto ci sarebbe da dire sul maresciallo
di Villeroy, i pochi mesi in cui rivestì quella carica, dalla morte del duca di
Beauvillier a quella del Re, non possono essere considerati e suo padre non è
mai entrato nel consiglio di Stato.
Da ciò ancora
la gelosia così piena di precauzioni dei ministri che rese il Re così
difficile ad ascoltare mai altri che loro, mentre egli era convinto di essere
facilmente accessibile a tutti, ma credeva che ne avrebbero risentito la sua
grandezza, venerazione e timore con cui si compiaceva di prostrare le persone più
importanti, se si fosse lasciato avvicinare in modo diverso se non di passaggio.
Così il gran signore come l'appartenente al ceto più basso parlava liberamente
al Re mentre questi si recava o tornava dalla messa, quando andava da un
appartamento a un altro o nel momento in cui stava per salire in carrozza, i più
ragguardevoli e anche qualche altro alla porta del suo gabinetto, ma senza osare
seguirlo. A ciò si limitava la sua facilità di accesso. Così non ci si poteva
spiegare che in due parole, in maniera assai scomoda e sempre ascoltati da
quanti circondavano il Re o, se si era in maggiore intimità, si poteva
parlargli nella parrucca, il che non era certo più vantaggioso. La risposta era
un «vedrò», utile in verità per prendere tempo, ma spesso non molto
soddisfacente; tutto quindi necessariamente passava tramite i ministri senza che
potessero esservi mai chiarimenti, il che li rendeva padroni di tutto e il Re o
non se ne accorgeva o lo voleva proprio. Niente era più raro quanto sperare
udienze nel suo gabinetto neppure per le faccende cui era stato dato da lui un
apposito incarico. Mai, per esempio, a coloro che venivano inviati o ritornavano
da incarichi all'estero, mai a un ufficiale generale, fatta eccezione per alcuni
casi particolarissimi, e ancora, ma molto di rado, a coloro che erano stati
incaricati di quei dettagli militari in cui il Re tanto si compiaceva; udienze
brevi ai generali delle armate in partenza e in presenza del segretario di Stato
per la guerra, ancora più brevi al loro ritorno, talvolta né alla partenza né
al ritorno. Mai le loro lettere potevano andare direttamente al Re senza essere
passate prima attraverso il ministro, se si eccettuano alcune occasioni
infinitamente rare, e solamente Turenne, verso la fine, il quale, in completo
disaccordo con Louvois, splendente di gloria e della più alta considerazione,
indirizzava i suoi dispacci al cardinale di Bouillon che li rimetteva
direttamente al Re, ma non per questo non venivano visti in seguito dal ministro
col quale ordini e risposte erano concertati.
Tuttavia la
verità è che, per quanto il Re fosse guastato dalla sua grandezza e autorità,
che avevano soffocato in lui ogni altra considerazione, si ricavava sempre un
vantaggio dalle sue udienze, la volta che si fosse riusciti ad ottenerle e ci si
fosse saputi comportare con tutto il rispetto dovuto alla presenza del Re e
all'etichetta. Oltre a quanto ho saputo da altri, posso parlarne per esperienza.
A suo tempo si è visto come avessi ottenuto, addirittura usurpato, delle
udienze forzando il Re che era molto in collera nei miei confronti, ma sempre ci
siamo lasciati, lui persuaso ed io contento di me stesso, come fece notare poi
sia a me sia ad altri. Posso dunque parlare anche di tali udienze che talvolta
si potevano ottenere, sulla base della mia personale esperienza. In questo caso,
per quanto egli fosse prevenuto, per quanto fosse convinto, ascoltava con
pazienza, con bontà, con desiderio di illuminarsi e istruirsi, interrompeva
solo per meglio riuscire a comprendere. Si scopriva così in lui uno spirito di
equità e un desiderio di conoscere la verità nonostante talvolta fosse in
collera, ciò durò sino alla fine della sua vita. In quell'occasione era
possibile dire tutto, purché, ancora una volta, con rispetto, sottomissione,
dipendenza senza di cui ci si sarebbe rovinati maggiormente, ma con questa
formula, ossia dicendo la verità, era possibile a propria volta interrompere il
Re, negare con fermezza i fatti da lui riferiti, alzare nella conversazione il
tono al di sopra del suo e tutto ciò non solo senza che egli lo trovasse
disdicevole, ma con la conseguenza che egli si rallegrava per l'udienza concessa
e per colui che l'aveva ottenuta, abbattendo i pregiudizi assunti o le falsità
imposte, facendolo notare in seguito con il suo comportamento. Così i ministri
avevano gran cura di ispirare al Re avversione a concederne, riuscendovi
perfettamente come in tutto il resto. Dunque le cariche vicine alla persona del
Re erano così considerevoli e coloro che le ricoprivano così considerati,
anche dagli stessi ministri, proprio per quella facilità che avevano di parlare
tutti i giorni al Re da soli, senza spaventarlo con un'udienza che veniva sempre
risaputa, ottenendola con sicurezza e senza rendersene conto, quando ne avevano
bisogno. Soprattutto le «grandi entrate», per questa precisa ragione,
costituivano il massimo dei favori ancor più di qualsiasi distinzione, ed è ciò
che, nelle grandi ricompense dei marescialli di Boufflers e di Villars, li fece
mettere sullo stesso piano dei pari di Francia e concesse il diritto di
successione negli incarichi per i loro figli ancora giovani, in un tempo in cui
il Re non concedeva più niente a nessuno.
È dunque a
giusto motivo che dobbiamo deplorare, piangendo, il ribrezzo per una educazione
unicamente indirizzata a soffocare lo spirito e il cuore di questo principe, il
veleno abominevole dell'adulazione più smaccata che lo deificò nel seno stesso
del cristianesimo e la crudele politica dei suoi ministri che lo imprigionò, i
quali, per la propria grandezza, potenza e ricchezza, lo inebriarono con la sua
autorità, la sua grandezza, la sua gloria, fino ad alterare e spegnere in lui,
se non completamente, la bontà, l'equità, il desiderio di conoscere la verità
che Dio gli aveva concesso, o quanto meno l'attenuarono quasi del tutto e
incessantemente gli impedirono di mettere in uso quelle virtù, di modo tale che
il suo regno e lui stesso ne furono le vittime. Da queste prime cause esterne e
pestifere gli derivò quell'orgoglio per cui non è troppo dire che, senza la
paura dell'inferno lasciatagli da Dio persino nei più grandi disordini, egli si
sarebbe fatto adorare e avrebbe trovato degli adoratori, come possono provare,
fra l'altro, quei monumenti a dir poco così eccessivi, quali la statua nella
Place des Victoires e quella cerimonia dedicatoria di carattere pagano, alla
quale assistei, da cui egli trasse un così squisito piacere, e da tale orgoglio
derivò tutto il resto che lo fece perdere, di cui abbiamo visto tanti funesti
effetti ed altri ancora ne troveremo di più funesti.
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