ANATOMIA DEL GRIDO
di Goriano Rugi (da "Psyche" n°1 1996)

In una celebre analisi del Lacoonte Schopenhauer afferma che "l'essenza del grido, e quindi anche il suo effetto sullo spettatore, risiede tutta nel suono e non nell'apertura della bocca. Questa apertura, fenomeno che accompagna necessariamente il grido, non è motivata e giustificata che dal suono emesso; e allora, come segno caratteristico dell'azione, oltre che permessa, è necessaria, sebbene rechi danno alla bellezza. Ma nelle arti figurative la riproduzione del grido è impossibile". Nel dipingere un uomo-che-grida Munch sembra tuttavia rovesciare clamorosamente il giudizio del filosofo e la rappresentazione del grido appare rivelarsi a noi per la prima volta in tutto il suo allucinato realismo (Fig. 1).
Una figura umana si allunga e si contorce al centro della tavola e, effettivamente, la sua bocca è aperta; un cerchio vuoto, irregolare da cui emana una formidabile forza deformante che stira il volto e lo comprime verso l'alto in una maschera di paura.
Munch ci-fa-vedere il grido, lo costruisce nelle sue linee di forza, e nel suo tremendo potere di deformazione quando tutti gli oggetti si sfigurano e si trasformano animati di terrore e lo sguardo si fissa e si perde in quella che è l'esperienza del panico. Ma Munch ci dà anche il suono; lo percepiamo violento, irresistibile in quelle mani che si portano a coprire le orecchie, in quelle linee circolari, vorticose che dalla bocca e il volto si ampliano e si espandono sino a inglobare tutto l'intorno. Così: non è solo l'uomo che urla, ma tutta la natura che si anima di un grido vuoto eppure palpabile, nelle sue linee di forza che si allungano e si dilatano disegnando sinuose i bordi, il mare e il tramonto ove si carica di color sangue.
La diagonale di un ponte chiude bruscamente il vortice del grido, lo spezza verso il basso, mentre uno steccato obliquo, rosso, penetra l'uomo di dolore. Pochi segni umani accentuano la sua solitudine; due figure che si allontanano, due barche e un campanile che galleggiano irreali, irraggiungibili dall'uomo che affonda nell'angoscia, nel totale estraneamento del panico.
E Munch ha capito perfettamente che "il fondo stesso della catastrofe è contemporaneamente tutto in superficie" , e ce lo mostra, magicamente, in quel piccolo essere deformato allungato, regredito in una forma embrionale, senza sesso, che si chiude al terrore puro della percezione. "Una sera passeggiavo per un sentiero -annota Munch- da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo -il sole stava tramontando- le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando" . In questo dipinto Munch supera dunque i limiti espressivi fissati da Schopenhauer per le arti figurative; limiti che il filosofo vedeva interni agli stessi mezzi dell'arte prima ancora che nei canoni di un ideale classico di bellezza e in una corrispondenza sensoriale ingenua tra suono e udito.
Le osservazioni di Schopenhauer non vanno allora sottovalutate. Esse pongono un problema essenziale ovvero quello della rappresentabilità stessa del grido che Schopenhauer pensava impossibile nella scultura e nella pittura; non così nella poesia, ove Omero e Virgilio, confidando sulla fantasia del lettore, avevano rappresentato i loro eroi in preda ad "urla orribili...come muggiti" . Sappiamo del resto che il grido aveva una funzione essenziale nella tragedia e nella poesia epica ove esprimeva non solo tutta l'atrocità e la fisicità del male ma lo stesso progressivo e irreversibile disfacimento dell'identità e della forma del soggetto nell'esperienza della fine. Così perfino Achille, che è forma per eccellenza, appena appreso da Antioco della morte di Patroclo "una nube di strazio nera, lo avvolse: con tutte e due la mani prendendo la cenere arsa se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello; e cenere nera sporcò la tunica nettarea; e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso, giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli". Infine ..."gridava terribilmente" . Il "grido tragico", come sottolinea Salvatore Natoli , ha dunque un carattere metafisico e non va frainteso con la mera affezione transitoria di uno spirito debole di fronte al dolore né con la scompostezza e l'eccesso che Platone volle rimproverare ai tragici, ma rappresenta piuttosto il momento stesso del compiersi della tragedia, quando il tremendo e il caos irrompono in tutta la loro potenza e la forma, condotta al suo limite, si dissolve nella vertigine dell'urlo.
Il Lacoonte invece non grida (Fig. 2), nell'attimo inatteso del dolore e dell'angoscia, perché secondo Schopenhauer un "grido muto, scolpito nella pietra o dipinto nella tela" sarebbe appartenuto più al ridicolo che all'arte . E Munch conosceva bene Schopenhauer; amava le sue opere, condivideva le sue idee sul pessimismo della vita, sul sesso, sulle donne e, soprattutto, conosceva i limiti espressivi del linguaggio pittorico. Così il Grido fu un vero atto di trasgressione, la hibris di un artista che per anni lottò disperatamente contro la Sfinge del suo stesso "talento" e dei "miserabili mezzi della pittura".
La prima versione del Grido risale al 1893, l'ultima al 1895; tre, quattro versioni in tutto. Numerosi invece sono i disegni e gli studi preparatori a partire dal 1890; tuttavia essi rimarranno noti con il nome di Disperazione.
Le osservazioni di Schopenhauer sono invece del 1819, anno della I^ edizione de Il Mondo come Volontà e Rappresentazione; la terza edizione comparve nel 1859, appena un anno prima della sua morte. Schopenhauer dunque non conobbe mai Munch, che nacque nel 1863; tantomeno conobbe il suo Grido. E' verosimile, tuttavia, che Schopenhauer conoscesse le arti figurative abbastanza per sapere che il grido era già stato rappresentato; le sue dichiarazioni possono allora apparire sorprendenti ma una breve ricognizione nella storia dell'arte sembra rendere ragione al genio del filosofo.
Intorno al 1300, Giotto aveva dipinto a Padova nella Cappella degli Scrovegni la Strage degli Innocenti (Fig. 3); in questo affresco alcune donne si disperano e gridano davanti alla terribile scena del massacro. Le bocche, tuttavia, sono appena aperte, lievi fessure, quasi contratte; i volti smarriti, pietrificati nel dolore di una scena insopportabile. Il problema di Giotto non è infatti quello di rappresentare il grido bensì un massacro. La tensione pittorica si sviluppa così dall'insieme della composizione; i corpi morti ammucchiati, lo strazio delle madri, il loro sguardo impotente di fronte a tanta incomprensibile violenza. Di questo episodio biblico sono note innumerevoli versioni. Due vorrei ricordarle: quella di Guido Reni e quella di Nicolas Poussin. Stupende entrambe e fondamentali nella storia della pittura. Preferisco quella del Reni, anche se Bacon -pittore di grida egli stesso- dirà che il grido del Poussin è il più bello che sia mai stato dipinto. Nel dipinto di Guido Reni, realizzato intorno al 1610, vi sono varie donne che gridano e una, in particolare, grida più delle altre (Fig. 4). Il suo grido diventa così un elemento essenziale e insistito nella complessa iconografia del quadro. E' interessante allora osservare che un grande pittore come il Reni sia dovuto ricorrere ad uno stratagemma per rendere plausibile quel grido, come se il dolore, la paura e l'orrore della strage non fossero sufficienti: una mano dell'assassino afferra infatti la donna che cerca di fuggire. E' questo vincolo meccanico, questo tirare indietro la donna per i capelli che rinforza dunque e dà una sorta di legittimazione al grido stesso. Così non è solo il dolore che apre la bocca ma la mano violenta dell'assassino che la-dis-trae. Lo stesso nella versione di Nicolas Poussin (1628) (Fig.5). La donna grida di dolore davanti al piccolo corpo martoriato mentre la mano assassina la tiene violenta; un'altra donna, stretto il figlio morto al petto, vaga smarrita e grida nascosta al cielo.
Vorrei poi ricordare la Maddalena del de Roberti (1475-1485), di cui è rimasto solo il volto che si scioglie in un grido di lacrime e la Pietà del Mazzoni (1525-1589?), raro esempio scultoreo del grido di dolore davanti al Cristo morto (Figg. 6-7). Infine due splendidi dipinti del Caravaggio; pittore che più di ogni altro ha inteso la pittura come rappresentazione di azioni istantanee e violente. Mi riferisco alla Giuditta e Oloferne e al Sacrificio di Isacco verosimilmente databili ai primi del '600 (Figg. 8-9. La Giuditta e Oloferne inizia la lunga serie di temi violenti in cui il Caravaggio ormai maturo affronta il significato tragico della vita e il conflitto tra persecutori e vittime. Oloferne apre la bocca ma il suo grido è soffocato e spento da quella spada che gli squarcia la gola, che lo de-colla, rendendo la bocca un buco vuoto senza suono. Così più che la bocca grida la ferita da cui sgorga il sangue. Nel Sacrificio di Isacco questi grida ed anzi tutta la drammaticità dell'azione trova il suo acme proprio "nell'urlo e nella contrazione del corpo del giovane Isacco" . E' interessante allora ricordare che il Caravaggio dipinse una versione giovanile di questo soggetto in cui Isacco non grida e tutta la scena esprime "stasi e calma" (Fig 10). Verosimilmente il Caravaggio evitò il grido, consapevole che l'acerbità dei suoi mezzi espressivi gli avrebbe impedito di esprimere appieno il movimento dinamico dell'azione e la tensione violenta del dramma.
Una iconografia del grido, contrariamente a quanto farebbe pensare il giudizio di Schopenhauer, già esisteva allora nella pittura precedente il capolavoro di Munch. In tali opere il grido appare esprimere un punto di rottura nella scena del dramma; il luogo in cui l'orrore e il dolore emergono incontenibili e la violenza si accanisce. La scena del dramma appartiene comunque al mondo esterno; c'è sempre qualcosa che fa gridare, qualcosa di terribile e violento. E spesso tuttavia l'artista ricorre ad una azione meccanica, diretta della violenza che amplifica e talvolta giustifica il grido stesso; così in Reni, in Poussin e chiaramente in Caravaggio. E il dramma è sempre presente, rappresentato nel mucchio di cadaveri, nella mano che afferra o minaccia, nel coltello che preme o squarcia. Il grido appare allora come una sorta di corrispondenza meccanica seppur dolorosa di una rappresentazione che è già mostrata, che è tutta lì davanti a noi. E non è tanto l'uomo o la donna che gridano quanto la scena drammatica, violenta che esige il grido come corrispettivo automatico e necessario. In questo senso i mezzi espressivi della pittura si esasperano nel dramma e non nel grido che del dramma è solo la maschera come maschera tragica è appunto la bocca aperta e il volto di Isacco. Per questo le figure che gridano mantengono la loro forma, la loro compostezza, non si sfigurano come avviene in Munch.
L'osservazione di Schopenhauer appare quindi essenziale e sembra cogliere il problema centrale della rappresentazione del grido quale Munch ci mostra nella sua opera in quel dissolvimento della forma e in quella totale assenza di dramma esterno. In Munch non c'è niente che oggettivamente faccia gridare; un paesaggio qualsiasi, un tramonto rosso che solo la memoria tinge di sangue; cosicché la scena del dramma è tutta interna, e la rappresentazione del dolore è tutta lì, in quel grido, in quello sguardo aperto sull'abisso interiore. Per questo il Grido di Munch è diverso da tutto ciò che lo precede e Schopenhauer aveva ben capito che quel grido non poteva essere rappresentato ancora.
L'iconografia del grido è poi legata solo in parte all'iconografia del dolore, che appare molto più ricca e complessa. Nelle crocifissioni, ad esempio, il Cristo non grida e quando lo fa, come in Grunevald, "L'urlo se esiste (e sicuramente esiste) viene di continuo ricacciato in gola", sottolinea il Testori (Fig. 11). Nelle innumerevoli rappresentazioni dei martiri poi il grido è del tutto assente. Il cristiano sopporta in silenzio il suo dolore che diventa atto purificatore e di salvezza. Così non è solo il Lacoonte che non grida (neppure quello del Greco) (Fig. 12) ma anche San Sebastiano trafitto dalle frecce, San Lorenzo, San Matteo e tutti gli altri che sopportano il loro dolore in beatitudine (Fig. 13). Il martire cristiano allora non grida come non grida la bellezza greca. Del resto, osserva Salvatore Natoli le stesse parole che Gesù grida sulla croce: "Eli, Eli lemà sabactani?" ovvero "Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?" non esprimono "l'urlo di una materia deformata che torna alla sua matrice" come nell'uomo tragico che alla fine è "sfigurato definitivamente nel grido", al fondo del grido di Gesù c'è invece lo "spirito di abbandono"e "la confidenza in Dio"; il Dio che è fedele e che promette la salvezza.
L'iconografia cristiana del dolore e l'ideale classico della bellezza, pur nelle differenti prospettive, vengono allora a coincidere in quella che è la visione platonica della forma. Questa come sappiamo, è dominata dall'assunto che "per l'uomo la legge della forma coincide con il dominio di sé", con la "misura", che è appunto la capacità di controllo della passione e delle emozioni. Sono del resto ben note le critiche di Platone contro i poeti e gli autori tragici definiti "uomini tristi" e "pericolosi" in quanto alimentano la "dismisura" e rendono inetto l'intelletto (Repubblica) .Per Platone tutto "ciò che ci fa ricordare la sofferenza e che ci fa piangere" è irragionevole. (Rep. X, 604, d). La legge aiuta, invece, alla riflessione e "come nel lancio dei dadi, alla possibilità di ristabilire la propria condizione contro i colpi del caso, nel modo migliore scelto dalla ragione, senza perder tempo a gridare, quando si urta contro qualcosa, come fanno i bambini che afferrano la parte colpita" (Rep. X, 604, c). Così solo alla tragedia, in quanto radicata nell'esperienza greca del dolore come pathos, sembra allora concesso di esprimersi nel grido e nel lamento. La forma classica della bellezza e la forma cristiana del dolore mostrano invece di aprirsi più sull'iconografia del silenzio e della salvezza ricomposta che su quella del grido e del caos, più sul velare e nascondere che sullo squarciare e l'esprimere. Del resto solo la tragedia classica ha fatto dell'inesprimibile la sua misura ed ha sancito per sempre nel patimento la via del sapere. Si profila così uno strano legame tra la fine della tragedia greca e la non-rappresentabilità del grido, un legame che aggiunge mistero a mistero e che incombe sullo sfondo del nostro discorso. Su questo argomento mi sembra allora interessante seguire le suggestioni del pensiero di Rella, per il quale la tragedia, muore perché "nasce un pensiero di fronte e contro di essa, il pensiero di Socrate, che trasforma ogni dissidio in una dialettica, che risolve la polarità stessa dissolvendola nell'idea, nell'archetipo, unico, solo, immobile e immutabile" . La fine della tragedia è dunque la sconfitta dei dissoi Logoi, del discorso contraddittorio e dell'antica sapienza, dinanzi alla verità della filosofia che si va affermando e che tenta di risolvere i conflitti nel potere di un sapere e di una verità così come nel Simposio Platone pensa che unica sia la bellezza alla quale ci spinge Eros.
La tragedia, come avevano ben compreso Holderlin e Nietzsche, esprime invece ciò che è "smisurato" nell'uomo, il "contraddittorio"; essa rappresenta così la capacità di dare forma anche all'informe, a ciò che non è rappresentabile. Da ciò il destino tragico, il nefas, la sventura di chi come Edipo "troppo smisuratamente" vuol conoscere il senso della vita. La forma della tragedia si realizza allora per Holderlin proprio nella "cesura", nella interruzione antiritmica, in quel "punto vuoto" ove si dà la possibilità di pensare non l'alternarsi delle rappresentazioni ma la rappresentazione stessa . Nelle parole di Rella così è "nella forma che non è forma" che la tragedia esprime e manifesta l'inesprimibile di ciò che non ha misura, e che è l'essenza stessa dello sguardo dell'uomo, lo sguardo che risale dalla morte alla nascita, dalla fine all'inizio per cui ogni destino è reso fatale a partire dalla sua fine . La vittoria di Edipo è dunque davvero quella catastrofe di un destino eroico di cui parla Teofrasto, la sventura tragica di colui che ha gettato uno sguardo sulla morte, sul buio della propria origine. Così non c'è difesa contro il pathos tragico, perché senza patimenti non c'è pensiero. Ed è al culmine di questo patimento che troviamo il senso stesso dell'umano: "nel punto in cui non si è più capaci di sopportare che esso continui, né di esserne liberati" come scrive Simone Weil . Per questo Salvatore Natoli può dire che "l'uomo tragico alla fine è ucciso da quelle stesse potenze che lo generano, è sfigurato definitivamente nel grido" . La tragedia greca finisce così alla fine del V° secolo con due opere contemporanee e laceranti: l'Edipo a Colono di Sofocle e le Baccanti di Euripide. L'opera ultima di Sofocle è percorsa da un senso di precarietà assoluta e senza scampo ché "ogni cosa distrugge il tempo onnipotente. Perisce la forza della terra, quella del corpo ..." . Solo con la morte l'orrore del destino di Edipo diventa il sacro che protegge la polis da ciò che è estraneo e il pensiero tragico riesce a fondare un confine, una frontiera intransitabile ad ogni alterità; una morte che però è anche silenzio della parola perché "quei segreti, che neppure la parola deve rimuovere, li apprenderai tu stesso, quando sarai giunto là, da solo": così Edipo dice a Teseo mentre lo conduce al luogo della sua sepoltura.
Nelle Baccanti infine le contraddizioni del pensiero tragico sono spinte all'estremo a mostrare l'insostenibilità stessa del tragico in un luogo in cui "non c'è più un oltre" e in un tempo in cui non c'è più nulla che dia un senso alla vita umana. Così agli occhi di Euripide "il proprio del destino, non è avere un senso tragico, ma in primo luogo, di essere privo di senso" . E tutto nelle Baccanti, maschile e femminile, umano e divino, comico e tragico non sono più realtà antinomiche ma le maschere di un unico mistero senza fondo. Ogni limite è distrutto, alla fine della tragedia non rimane più nulla: né del sapere umano che non è sapienza, né del sapere sacerdotale, che pare comico nelle parole del vecchio Tiresia; né del palazzo, che è crollato. Dioniso, il dio della liminarità, della dissoluzione dei confini, ha portato a compimento la sua opera, fino alla confusione irreparabile quando tutto si confonde, perfino la gioia e il dolore: "Era tutto un unico grido. Egli gemeva, finché continuò a respirare, e quelle lanciavano urla di gioia" . Così Euripide descrive lo strazio di Penteo smembrato dalle Baccanti in una scena che nessun pittore ha osato mai rappresentare. "Alla fine -scrive Rella- rimane solo "l'immisurabile del dolore" e lo spazio cavo in cui si affaccia, per segni che nessuno più cerca di interpretare, il mistero" . Così dopo le Baccanti resterà solo il coretto delle Rane di Aristofane a levare la sua voce e strillare con quanta forza ha in gola ma Dioniso, ormai clown, potrà sempre metterlo a tacere con un grosso peto. Dopo, come suggerisce lo stesso Natoli, il grido tragico resterà a lungo silente, bonificato e depotenziato da una tradizione ebraico-cristiana ove una potenza oscura, sovrana e silenziosa si ritrova sempre al fondo di ogni abbandono.
Dobbiamo allora pensare che il Grido di Munch implica qualcosa di veramente radicale; qualcosa che si compie nel rinnovarsi dell'esperienza tragica in un'epoca in cui Nietzsche aveva affermato la morte di Dio. E forse proprio da Nietzsche conviene partire anche se Munch non conobbe mai il filosofo; "non l'ho mai visto con il mio occhio esterno" scrisse nel 1905; di Nietzsche però Munch condivise il clima epocale, la grande crisi mistica e religiosa, la perdita di ogni fede in Dio e nella salvezza. E Nietzsche, insieme a Bocklin, Klinger e Wagner erano gli unici, grandi uomini tedeschi che Munch amava sopra tutti. Così nel 1906 Munch dipinse un ritratto del filosofo che appare essenziale per la comprensione del Grido stesso (Fig. 14). Nietzsche è appoggiato sullo stesso ponte di Munch, quindici anni dopo, ma non grida guarda invece cupo e pensieroso nella superiorità di Zarathustra sui destini del mondo. Il dipinto ripropone così l'iconografia del Grido ma di esso rappresenta l'antitesi, la faccia nascosta e può essere visto come un autoritratto in cui Munch ha ritrovato la misura, la fede in se stesso, nella forma ricomposta e idealizzata del padre-filosofo. Ma cosa rappresenta allora il Grido? Questo capolavoro ritrovato che tutti oggi conosciamo o pensiamo di conoscere e che gli avvenimenti recenti hanno prepotentemente inserito nella mitologia collettiva. Sappiamo innanzi tutto che Munch in quest'opera ha rappresentato un'esperienza realmente accadutagli, a Lijabroivein, una sera d'estate del 1890 pochi mesi dopo la morte del padre: "Passeggiavo per un sentiero con due amici -annota Munch nei suoi diari- il sole tramontava. Ho sentito salire la malinconia. Improvvisamente il cielo divenne color rosso sangue. Mi fermai, appoggiato contro lo steccato, stanco morto. E guardai le nuvole sospese sopra il fiordo blu-nero e la città come lingue di fuoco e sangue. I miei amici camminavano avanti. Io restai lì tremante di paura. E sentii un grande urlo senza fine attraversare la natura".
Per circa tre anni Munch tentò di dipingere questa esperienza senza riuscirci. Christian Skredsvig, pittore e compagno di viaggi, lo conferma in un libro ove riferisce che Munch fu a lungo depresso per l'incapacità di realizzare il suo desiderio di dipingere un tramonto che rendesse proprio quella visione di sangue coagulato quale egli aveva vissuto . Ma forse non è proprio così.
Munch dipinse varie vignette nei suoi diari e sin dall'inizio la visione di sangue coagulato è certamente efficace, come lo dimostra Disperazione del '91 (Fig. 15). Non solo, per anni Munch non ebbe neppure la piena consapevolezza di voler dipingere proprio il Grido. Tutti gli studi preparatori del resto si chiamarono Disperazione e il Grido divenne tale solo dopo un suggerimento di Przybyszewski, come già era accaduto per la Voce e il Vampiro. C'era dunque qualcosa di inconscio che sfuggiva allo stesso Munch; qualcosa che si realizzò solo gradualmente attraverso gli studi preparatori che nella loro successione mostrano come ciò che cambia forma o piuttosto ciò che va cercando forma sia proprio il Grido.
Finché Munch non riuscì a realizzare quell'immagine onirica, di un fantasma senza sesso che grida, la sua ricerca non ebbe pace. Una volta realizzato esso fu il Grido, per l'amico intimo, per lui, per noi tutti. Perché dunque Munch non riusciva a realizzare il Grido, lui che nei suoi diari scriveva "sentii un urlo attraversare la natura. Mi sembrò quasi di udirlo" e che all'amico Skredsvig parlò proprio di un "grido primitivo" ? Quale fu l'esperienza emozionale di cui il Grido rappresenta una formidabile trasformazione? Ebbe una allucinazione? Una crisi di panico? O vide semplicemente un intenso tramonto rosso sangue? Non è facile dire se Munch ebbe una vera allucinazione o un semplice flash onirico quale descrive Meltzer: "Mi sembrò quasi di udirlo" scrisse, tuttavia lo udì "Ho sentito un grande urlo attraversare la natura". Dunque Munch lo udì e non lo udì, o meglio lo vide. Munch vide le nuvole tinte di rosso sangue, "dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando". Così Munch non sa se ha sentito l'urlo, ma certamente lo vide; questo era il problema, rappresentare un evento che fosse insieme segno visivo e segno sonoro. Il problema di Schopenhauer per il quale il Grido non poteva essere rappresentato perché non si può vedere. Questa la formidabile sfida che ossessionò Munch, per anni; realizzare la forma nell'attimo in cui questa si dilegua nell'esplosione sonora, realizzare la forma di ciò che non ha più forma e che tuttavia de-forma ogni cosa nella forza del grido. Questa certo la grande illusione della pittura che Platone aveva osteggiato perché "non tralascia alcuna stregoneria" per portarci dentro lo "smisurato" , cosicché attraverso il disorientamento dei colori e la confusione delle cose possiamo udire ciò che non è udibile e vedere ciò che può essere solo sentito.
Facciamo ora un lungo passo avanti fino al 1976, quando Mc Gurk e Mc Donald pubblicarono su Nature un articolo dal titolo "Hearing Lips and Seeing Voices" in cui questi autori dimostrarono che possono essere indotti dei suoni linguistici allucinatori allorché si presenta una scena visiva in cui un parlante fa gesti vocali idonei per la produzione di tali suoni. Dunque si può vedere una voce e si possono udire delle labbra.
Questo è l'effetto Mc Gurk, una semplice sinestesia associata a stimoli linguistici che però è essenziale per la comprensione e l'apprendimento del linguaggio. Ma Munch non vide qualcuno fare gesti, vide un tramonto rosso sangue e sentì un grido o gli parve quasi di sentirlo e comunque lo vide. La psicologia direbbe che vi è stata una risposta colore puro, esattamente uno shock al rosso, come quando il paziente reagisce con una esclamazione violenta alla tavola due del Rorschach. Un indice questo di profondi disturbi nella sfera affettiva, aggressiva e sessuale che tradisce la possibilità di violente tempeste emotive. Aspetti certo non estranei alla vita di Munch. Sappiamo inoltre che i colori esercitano sui processi associativi degli impulsi simili a quegli degli affetti nella vita quotidiana cosicché il colore rosso può innescare una serie di associazioni a corto circuito che può portare una persona a gridare, solo che Munch non ha gridato è la natura che ha gridato per lui, nel colore rosso in cui è stato violentemente proiettato tutto il dolore che la sua mente non è stata in grado di contenere. Ma " 'Lì fuori' -ricorda von Foester- non ci sono né luce né colore, ma solo onde elettromagnetiche: 'lì fuori', non ci sono né suono, né musica, ma solo variazioni periodiche della pressione dell'aria;...Infine, sicuramente, 'lì fuori' non c'è dolore" . Così, quando Munch sentì o vide un urlo attraversare la natura, egli mise fuori di sé ciò che era dentro di sé; un grido di dolore infinito rappreso come sangue, nell'abisso della memoria che nello sciogliersi del ricordo fluisce incontenibile nel mondo.
Il rosso del tramonto, rosso sangue, scatena così una violenta emozione, una reazione di panico che scuote Munch in un grido di terrore puro che viene proiettato violentemente sui colori, come se ciò che è entrato con lo sguardo, con quegli occhi spalancati sull'abisso della memoria, venisse evacuato attraverso la bocca, nell'urlo che attraversa la natura. E Bion aveva segnalato che quando un paziente dice di udire qualcosa può "anche voler dire che la sta emettendo dall'orecchio" . Questo perché nel suo modello della mente quando le emozioni sono troppo intense esse possono essere evacuate dagli organi di senso che invertono la loro direzione e producono allucinazioni. Queste sono dunque collegate al fallimento della funzione alfa e del suo compito di trasformare le emozioni in immagini oniriche o in pensieri. Se poi non c'è un vero disturbo del pensiero si hanno quei fenomeni che Meltzer chiama flash onirici in cui il paziente vede immagini o sente voci che però non sono vere allucinazioni perché il paziente è in grado di mantenere un contatto emotivo e dare associazioni. In questo caso è come se il paziente avesse cominciato a sognare un sogno che però la sua mente non riesce a contenere; da ciò una proiezione all'esterno di immagini o audiogrammi onirici.
Ma Munch quella sera non mantenne il contatto emotivo con i suoi amici e passarono almeno tre anni prima che riuscisse a rappresentare ciò che veramente accadde su quel ponte. Nella mia ipotesi allora la realizzazione del Grido corrisponde al sogno riuscito di una esperienza allucinatoria, ad una formidabile trasformazione onirica e pittorica del fallimento di un sogno. Sappiamo infatti da Bion che le allucinazioni non sono rappresentazioni ma "cose in sé", che non possono essere usate per pensare né per sognare ma solo evacuate sotto forma di elementi Beta indigeriti misti a frammenti dell'apparato psichico con cui sono venuti in contatto dando luogo a oggetti bizzarri.
Per questo le allucinazioni sono espressione del "fallimento di un sogno" e se quella sera Munch ebbe una allucinazione allora vuol dire che non riuscì a sognare quell'esperienza emotiva catastrofica ma solo ricordarla nel suo spavento. E tuttavia, quel grido proiettato "lì fuori", nella sua materialità, come cosa-in-sé e non pensiero, unito ad un senso di catastrofe, fu anche un primo segno a partire dal quale Munch tentò un processo trasformativo difficile e doloroso che lo condusse infine a sognare e dipingere la sua esperienza allucinatoria. Il grido-allucinazione appare quindi insieme come traccia della catastrofe e come prima immagine sonora della nascita di un pensiero. Le opere preparatorie -le varie Disperazioni (Figg. 16-17)- rappresentano allora le tracce dei passaggi necessari per una progressiva elaborazione onirica e pittorica di un sogno fallito e la nascita del Grido appare infine come una sorta di scrittura realizzata a partire dai segni del caos di una catastrofe originaria. Così il sangue coagulato, stimolo shock che scatena l'emozione dolorosa; così l'uomo pensieroso, triste, appoggiato allo steccato e che qualcuno ha visto come un autoritratto di Munch ubriaco che vomita; così il paesaggio con il fiordo e la città ancora lineare e non deformato dall'esplosione del grido: sono tutti passaggi verso un insight che avviene improvviso nel '93 quando il grido si rivela nell'immagine di un fantasma, in una visione dall'interno nel rovesciamento della percezione e nel collasso dell'Io. Solo allora Munch potè dipingere il grido nel suo effetto deformante, nella rappresentazione dell'uomo-larva-che-grida, come se fosse riuscito a riappropriarsi di quel suono che pur fuoriesce dalla bocca aperta, come se avesse infine sognato ciò che avrebbe dovuto accadere allora se fosse stato in grado di contenere il tremendo di un ricordo impossibile. Per questo il Grido ci assale nel trasalimento di una scossa; nell'emozione che toglie la parola; nella materialità di un evento che sembra rivelarsi a noi per la prima volta in tutto il suo allucinato realismo.
Quale fu quel ricordo impossibile? Quale emozione catastrofica scatenò in Munch quel tramonto rosso sangue? E perché non fu in grado di contenerla ma solo di evacuarla come allucinazione? Sono queste allora le domande essenziali su cui ho cercato di interrogarmi a partire dalle opere di Munch e la conoscenza psicoanalitica.
Nel Progetto di una psicologia del 1895 Freud aveva già intuito in poche geniali osservazioni il legame essenziale fra grido, dolore e memoria segnalando tra l'altro come l'associazione di un suono con la percezione di un oggetto dia luogo a delle "immagini sonore" che stanno alla base di schemi motori della memoria. Freud concluse che i primi ricordi coscienti sono quelli che producono dispiacere, quelli in cui "l'informazione del proprio grido serve a caratterizzare l'oggetto" ; così come ricordano le parole del poeta (Pratolini) "alla base della memoria c'è sempre un grido di disperazione". Molti anni dopo, nel 1937, Freud affermò in Costruzioni in analisi che nelle allucinazioni "ritorna qualcosa che è stato vissuto in tempi remoti e poi è stato dimenticato".
L'allucinazione, allora, è memoria senza ricordo; essa del ricordo occupa lo spazio doloroso, testimone e custode di un trauma che non può essere richiamato alla mente . E dell'allucinazione il grido mantiene certo il carattere; "Soltanto un pazzo avrebbe potuto dipingerlo", sono le parole che verosimilmente lo stesso Munch scrisse in una copia del Grido del 1895 (Fig. 18), ed effettivamente Munch in quegli anni era quasi "pazzo", continuamente vicino al punto di rottura. Per il pittore, come per noi, il Grido è così l'immagine di quella "follia" che, insieme alla "malattia" e alla "morte", rappresenta "gli angeli neri" che si affacciavano alla sua culla. E certo Munch di traumi ne ebbe tremendi: a cinque anni perse la giovane madre Laura; a quattordici la sorella Sophie, entrambe malate di tubercolosi, malattia di cui lui stesso soffriva; a ventisei anni, nell'89, perse infine il padre, da tempo però perduto nelle sue manie religiose e nella depressione. L'arte di Munch nasce quindi come "autoritratto all'inferno", come immagine di un interno lacerato, frammentato da perdite non ricomponibili nel lutto, da traumi non attraversabili nel pensiero.
Come l'Angelus Novus di Klee l'opera di Munch "ha il viso rivolto al passato, [...] vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto" ;essa è insieme luogo di assenza e simbolo di unione, immagine che racchiude in sé "la doloreuse synthèse de la survivance et du néant" . Memoria, tuttavia non come semplice "traccia mnestica", "ritrovamento delle immagini assopite nel cervello", né tantomeno memoria involontaria, "intermittence du coeur"; in Munch la memoria è immagine che persiste: "E io vivo con i morti -scrive il pittore nei suoi diari- mia madre, mia sorella, mio nonno, mio padre- lui soprattutto. Tutti i ricordi, le minime cose mi ritornano a frotte. Lo rivedo così come lo vidi, per l'ultima volta... . "Dunque immagini che ritornano e si impongono con i caratteri stessi di una allucinazione come quei ricordi che Freud descrisse in Costruzioni e che "si sarebbero potuti chiamare allucinazioni se alla loro vividezza si fosse aggiunto il convincimento di una loro presenza reale" . "Non presenza" e insieme "non assenza", la memoria in Munch si pone così come l'oblio in Blanchot; essa cancella, annulla il trauma, sottrae ad esso il carattere catastrofico, consente all'Opera il suo pietoso lavoro di ricomposizione. Per questo in Munch le immagini hanno spesso il carattere del "perturbante", ci colgono di sorpresa, come qualcosa che appare per la prima volta e che pure ci è familiare; di più, le immagini in Munch hanno il potere dello "scandalo", in quanto infrazione, trasgressione; esse ci mostrano una verità che non avremmo voluto vedere mai. Tornando alla genesi del Grido dobbiamo tuttavia supporre che quel giorno sia accaduto qualcosa di più che un ricordo a carattere allucinatorio con funzioni di copertura.
Stanley Steimberg, uno dei primi psicoanalisti che ha studiato Munch, ha collegato il tramonto di sangue all'immagine della madre morente di cui il pittore sembra essere stato effettivamente testimone all'età di cinque anni . Immagine questa dolorosamente rinnovata e confusa con quella dell'emottisi della sorella Sophie morta nove anni dopo. Ciò avrebbe dato una connotazione visiva al suo trauma infantile e segnato per sempre le stigmate di una "visione dolorosa".Sappiamo infatti che Munch aveva una memoria visiva penetrante e tenace, ma raramente si permetteva di guardare attorno. Temeva la visione delle cose, lo sguardo del mondo che poteva sopraffarlo e sommergerlo nel dolore della memoria. Il rosso sangue di un tramonto è allora "ricordo impossibile", esso è già la solitudine assoluta, l'angoscia di una separazione traumatica che lo scaraventa nel vuoto, nell'esperienza del panico. L'immagine della madre e della sorella morenti si confondono dunque nel colore rosso sangue nella visione della catastrofe. In un dipinto meno noto, La madre morta e il bambino (Fig. 19), realizzato tra il '97 e il '99 Munch rappresenta infatti un bambino che grida davanti al letto della madre morente; questa dunque sta al posto del tramonto rosso-sangue nel Grido. Ma perché ricordo impossibile? Perché dobbiamo pensare che per Munch era impossibile contenere nella mente il ricordo della madre e della sorella morenti? Un altro dipinto può forse aiutarci a capire. Si tratta de La morte nella stanza della malata (Fig. 20) in cui tutti personaggi raccolti attorno al letto della sorella Sophie appaiono ritratti esattamente nell'età in cui fu dipinto il quadro e non di quando avvenne il fatto. Il dipinto è del '93, l'anno del Grido, la morte della sorella risale al '77, ma l'episodio sembra essere rimasto inalterato, come se il tempo trascorso non avesse portato alcun sollievo, come se il lavoro del lutto non fosse mai avvenuto, nonostante il lavoro del tempo sui personaggi. Per questo mi è sembrata illuminante la teoria della cripta così come è stata proposta da Abraham e Torok nel libroLa Scorza e il Nocciolo. "Il lutto indicibile -scrivono questi autori- instaura all'interno del soggetto una tomba segreta. Nella cripta riposa, vivo, ricostituito a partire da ricordi di parole, di immagini e di affetti, il correlato oggettuale della perdita, in quanto persona completa, con la topica che le è propria, nonché i momenti traumatici -effettivi o supposti- che avevano reso l'introiezione impraticabile" . In altre parole per Abraham e Torok quando si verificano delle perdite che per qualche ragione non possono essere accettate in quanto perdite avviene l'incorporazione, un meccanismo psichico per cui l'oggetto perduto viene letteralmente incorporato, introdotto nel corpo, ove resta custodito clandestinamente in un luogo segreto dell'Io. Da quel momento l'Altro morto abita come vivo dentro l'Io, ma come fantasma come spettro chiamato a preservare il soggetto da un cambiamento catastrofico. Mentre con l'introiezione il soggetto assimila l'oggetto in un processo di crescita e ne accetta la perdita, con l'incorporazione il soggetto imprigiona l'oggetto, lo assume magicamente sottraendolo alla morte, nell'incapacità di accettarne al perdita e di elaborarne il lutto. Così è "per 'non inghiottire' la perdita che si immagina di inghiottire, di avere inghiottito ciò che si è perduto, sotto forma di un oggetto" . Quella sera allora Munch non ha visto solo un tramonto rosso sangue ma il fantasma stesso della madre morta, che insieme a quello della sorella, viveva nascosto in una tomba psichica, magicamente inghiottito per non vederne la perdita troppo dolorosa. Per questo l'uomo che grida ha gli occhi spalancati, gli occhi di colui che hanno visto ciò che non avrebbero voluto vedere mai, la visione di quel fantasma, ingoiato, espulso dentro di sé, nascosto in una cripta.
La visione rosso sangue è allora una reintroiezione violenta e improvvisa di un qualcosa che era stato espulso (dentro, non fuori), da cui l'esplosione improvvisa e l'evacuazione esterna nel grido. Per questo quando osserviamo il Grido non vediamo solo un'immagine deformata dall'esplosione sonora ma proprio il fluire fuori della mente, nel fluidificarsi vorticoso dei ricordi, nell'espulsione violenta di uno spazio mentale che si scioglie e si dilata senza fine.