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Prefazione (a cura di) Raffaele Polo
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Questa composizione di Gianni Capodicasa ci ha particolarmente colpiti per un aspetto che, crediamo, non sfuggirà a chi affronterà la lettura con buona predisposizione d’animo: la presenza, abbastanza evidente, di richiami letterari e di momenti legati alla tradizione storica, poetica, artistica di un mondo universale, non legato a limiti di nazione o linguaggio, ma assemblato e riproposto dall’autore con un continuum ricco di suggestione e spessore,
Capodicasa, insomma, non è, in questo Canto, un poeta che parla di un luogo; ma è l’Aedo universale che fa Poesia. Che ci presenta una terra magica, mitica e onnipresente, ricca di sollecitazioni e di richiami.
È il Salento, certo. Ma ha in sé le caratteristiche dell’antica Grecia, della nebbiosa Cornovaglia, di Stonehenge, delle praterie americane, del mare incantato e traditore delle isole dei Sargassi. Ha i colori vivaci e sgargianti di tutti i Sud del mondo, conserva l’armonia dei suoni di linguaggi rimasti attraverso i secoli a cantare l’amore e la bellezza. Sublima la ricerca fatta dall’Uomo, attraverso il tempo, di risposte eterne e convincenti; testimonia gesta eroiche di sconfitti che fanno la storia e fermano la memoria. Riunisce momenti di semplice vita quotidiana con eventi eccezionali, fuori dal normale. Abbina, soprattutto, l’intendimento poetico che, con modi sempre diversi e ricercati, sostanzia il cantare in versi, attraverso l’esperienza di ritmi, cadenze, rime, gabbie metriche e parole in libertà.
Ci porta, infine, in una dimensione che ci pare nuova, attuale e mai frequentata; ma che infonde sicurezza perché è antica, immota come le epoche che fanno la storia dell’Umanità.
Gianni ha scelto una scansione per ‘movimenti’, con una Introduzione e una Conclusione. Anche questo ci conferma di una predisposizione dell’autore a voler sintetizzare Prosa e Poesia, in una ricerca che pare quella della ‘quadratura del cerchio’, sempre vicina a realizzarsi ma mai completamente e definitivamente attuata. (Comunque tensione divinamente umana, giammai mera ricerca dell’inutile e stolto “impossibile a priori”)
Dove finisce la Prosa e dove comincia la Poesia?
E sono veramente parti diverse di un moto dell’animo?
E può interessare un ‘Canto’ che utilizza le parole e sottende musiche e accordi, pur snodandosi attraverso ‘movimenti’?
In buona sostanza, quale mezzo si vuole privilegiare, quale è il significante cui rapportarsi?
L’autore ci suggerisce una sorta di entropia, mediando e superando attriti e conflittualità: in una sorta di accordo poetico universale, si ottiene una nuova forma letteraria, per la quale ‘Canto Salento’ è esemplificazione di estrema efficacia.
Le mosse, le origini, l’input vengono da lontano, certo.
Ma si dipanano serenamente attraverso tempi e mode.
Abbiamo, allora, chiari riecheggiamenti di Omero e degli antichi cantori di corte; momenti legati alle dotte, poetiche elucubrazioni dei letterati latini; evidenti ritmi medioevali e dell’amor cortese; ricche e sapienti connessioni con i poeti orientali; originalissimi e pregnanti connubi con la tradizione degli spirituals e della canzone errante, girovaga e accompagnata da semplici strumenti.
Ecco, noi immaginiamo Gianni Capodicasa, novello Vachel Lindsay, che erra predicando in lungo e in largo il suo credo di poeta.
Non una ‘fede’, si badi bene: chè lontana e spesso in chiara contrapposizione è l’idea della ‘Misericordia’ e della ‘Provvidenza’ con quello che ispira i versi di questo ‘Canto Salento’.
Già, la domanda è insita ma importante, per cercare di comprendere motivazioni e significati. Ed è sintetizzabile in poche parole: Quale è il rapporto tra il Salento e Dio?
Capodicasa ce lo fa comprendere molto chiaramente nei movimenti VII e VIII; è proprio qui che c’è il cuore, il nocciolo di tutta la composizione, è qui che l’ardore, la foga del compositore si fanno più chiari, indirizzando precise constatazioni e dando un senso storico e metafisico all’intero componimento.
Il Salento, secondo l’autore, è terra dimenticata. Volutamente dimenticata.
E, quel ch’è più grave, è dimenticata da Dio (Tutto è immoto, superfluo./Tutto è fermo…fermo/di spazio di tempo di storia/ sospesi a un filo ad asciugare./Come dire: da niente niente,/come dire: da Dio Dio/che qui non vuol stare/come dire: da oblio oblio.)
Il senso è chiarissimo, è la sublimazione del motivo portante della intera composizione: visto che questa terra è dimenticata, peggio, è maledetta ( T.S. Eliot) e misconosciuta proprio da Dio, ecco io “Prometeo, andrò lassù/ non a chiedere, lo giuro/ ma a rubare premeditato/ scintille agli dei/che qui hanno scordato/ d’esistere e dirsi umani.”
Ma, naturalmente, il senso dell’intero componimento non si ferma qui: piuttosto, sono molteplici gli aspetti che l’autore vuole indicare a chi, teoricamente lontano e all’oscuro completamente della storia di questa terra, cercasse di capirne l’intimo essere. Nasce, a questo proposito, un ulteriore interrogativo: a chi è dedicato il Canto, a quale tipo di spettatore-ascoltatore è destinata l’intera composizione? A un intellettuale di sinistra, forse.
A un agnostico che non ha dismesso completamente la speranza di ricevere qualche risposta credibile; oppure a degli auditores al di sopra di tutto e di tutti.
E poi: è un momento di protesta, di denuncia, di amara constatazione?
Oppure una sorta di masochistica autoincensanzione, dove la Terra finisce per diventare l’Uomo e l’atavica, immutabile trascuratezza è rapportata alla mancanza di speranze terrene, legate non più a storia arte e destino ma alle realizzazioni personali e sociali?
Come si può notare, è un coacervo di domande, di spunti, di lacerazioni che Capodicasa insinua senza parere, ammantando tutta l’operazione con un linguaggio efficace e ricercato.
Proprio per la lingua usata, c’è da soffermarsi – tanto per cambiare! – su un’accurata gestione di termini, assonanze e ritmi. Dove viene utilizzato, in particolare, un caleidoscopio di colori che servono a incrementare ed irrobustire l’afflato lirico dell’autore. In ‘Canto Salento’ per cinque volte appare il BIANCO, due volte il NERO, l’AZZURRO tre, il ROSSO quattro volte e il GIALLO due. Poi, sono presenti per una volta i colori ROSA, GRIGIO, ORO e VERDE. Come si può notare, una tavolozza ben assortita, che ci richiama e ci ricollega indubbiamente al senso del colore di Vittorio Bodini.
E, per questo autore così caro e vicino a Capodicasa, l’omaggio inconscio è anche in alcuni guizzi di perfetta identità poetica: basti citare alcuni versi a caso come ‘Scarsi valori monaci ladri/di bigotti signori/ad unire con la lux e con la lex/ le giovani credenze ancora pagane.’; ‘S’imporpora in magma incandescente/dando sfondo e dignità barocca/al nuovo campanile,/fervore a Santa Rosa.’; ‘figlia dei venti/ delle aurore greche/ delle pietre scabre,/ buone a far angeli malati/ case basse bianche di calcina’.
E come non ricordare l’altro poeta tanto caro a Gianni Capodicasa, quel Carmelo Bene che sembra di vedere, sull’altissima torre, mentre declama ‘Nell’aria/ emorragica crepuscolare/ salirò Io solo, (solo e poeta)/ il supremo pinnacolo cattedrale./ A brani i miei versi spanderò/ nell’umida brezza salentina/ satura d’amore panico filiale/ lontano, via da sogni attorti/ di statue inquiete/ in simbiosi vegetale.’ ( Farei cenno allo Zarathustra di Nietzsche).
Tracce e spunti ci vengono anche da Dino Campana ( nel salotto di Gianni, su un singolare tavolino ‘con la ruota’, vi è, in bella vista, la raccolta delle poesie del Poeta decadente per eccellenza) e la fantasia vola già a considerare l’improbabile connubio di canti ‘orfico – salentini’, in un misto di cattedrali e pinnacoli, con atmosfere non così poi lontane da questo Canto così ricco di sollecitazioni e costellato di reminiscenze e particolari.
Dunque, Canto Salento.
Una raccolta di versi, scandita in movimenti, che è praticamente unica nel suo genere. Non che l’unicità sia sinonimo di qualità, intendiamoci. Sovente, al contrario, si persegue l’idea dell’originalità a tutti i costi, a scapito della spessore e della validità del messaggio: ma non è questo, certamente, il caso di questo Canto, che affascina col tempo e con la rilettura. Con la ricerca minuziosa di senso e melodia, lasciando che sia il ritmo e l’affabulazione a trascinare, a coinvolgere, ad esplicitare. Come succede raramente per un componimento poetico, dove sovente si cerca di scuotere subito, di colpire l’attenzione del lettore con il lampo di un’intuizione, con il gioco magico di prestidigitazione e d’effetto.
Qui, invece, tutto il senso, tutta la forza e la capacità di coinvolgimento sono latenti, nascoste, mimetizzate. E SI INSINUANO CON PROGRESSIONE E PROFONDITA’ NEL NOSTRO ANIMO.
Superfluo aggiungere altro. Se non invitare alla lettura (ai tre livelli: letterario; semantico; morale) e alla meditazione di questi versi che meritano attenzione. Come ne merita la storia della nostra Terra. Il Salento.
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