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Carmelo Bene: una morte annunciata

di Giovanni Capodicasa

 

 

Laconico messaggio Ansa del 16 marzo 2002 ore 22.06. “É morto nella sua casa di Roma Carmelo Bene regista ed attore”. Informazione frettolosa, estremamente inadatta al più grande genio che il Salento abbia donato alla cultura mondiale tutta. Si definiva mai nato e dunque mai morto. Costanzo aveva le lacrime agli occhi: “ Era un genio; un grande e basta”. Qualunque altra de-finizione o tentativo di collocazione (lo scaffal-posizionamento pasoliniano) risulta limitante.

Carmelo Bene nasce a Campi Salentina in provincia di Lecce in una casa al primo piano di Via Roma il primo settembre del 1937. Suo padre, dirigente di una manifattura tabacchi, è originario del Capo. In loro il popolino intravede la figura del comando, la famiglia è tollerata (dat panem!) ma invisa. Carmelo subisce angherie occulte o meno già da piccolo. Del resto la genialità è immediata, connaturale; neppure la madre lo capisce: “Mio figlio ha qualcosa di strano”. Costruisce palchetti in istrada, si ammanta di neri vesti (colore che amerà sempre, il nero) si imbelletta il volto con che capita e blatera blatera il nulla: egli è il nulla. Aveva dieci anni.

Il ricordo del Calasanzio, dove frequenta il liceo classico è sciapito. Gli insegnanti si rendono conto di avere in classe qualcosa di grosso, di grande, ma non capiscono. Il genio fa paura a tutti e ancora di più ai mediocri. Il premio della sua applicazione sono i viaggetti a Lecce dove sua Zia Raffella storpia Verdi su uno scordatissimo pianoforte. Carmelo va in altre stanze e legge Shakespeare. Musica stuprata, Willy sedotto. Intuisce che il suo futuro è quello del dissacratore. A diciassette anni lascia  lu paise con in cuore le matrone tabaccaie che se lo baloccavano e la devozione a San Giuseppe Desa, il Santo stupidotto che lievitava boccaperta.

Dopo una brevissima frequentazione all’Accademia di Roma, lascia o per inutilità appresa dello studio o per altrui decisione indotta da irrequietezza comportamentale.   “In vent’anni” dice “Vi rivolterò il teatro”. Ci mise di meno.

Dopo un soggiorno a Genova torna a Roma. Si esibisce in un teatro cantina. Toglie il sonno a Ennio Flaiano, a Pasolini, a Moravia: nasce irrefrenabile il caso Bene. I classici sono dissacrati, sconvolti, coinvolti in misurazioni nuove. La voce, la voce è un’opera altra, diversa, unica. L’artista non è artista si annulla, nell’oblio del morto orale, del depensamento. Lo scritto è annichilito, avvilito, ripudiato in una metafora cosmica che eroica sale e si manifesta.

Scoppia il grande inciucio. Alberto Greco, minimo pittore argentino, piscia sul console del suo paese. Si accusa Carmelo: è lo scandalo. Il tempo e le foto gli daranno ragione. Alberto era ubriaco (un’attenuante generica); Carmelo Bene non centrava nulla. Intanto sono usciti il suo “Nostra Signora dei turchi” di chiara matrice salentina. É un filmetto sconosciuto girato presso Santa Cesare Terme. Nel 1957 ha recitato nel Caligola di Camus colui che si prese il nobel di Sartre.  Nel 1966 , dopo avere incontrato Dalì, che espressamente gli dice che non è ancora un genio, perché le sue opere  peccano di sofferenza, incontra Antonin Artaud che con la sua estetica del crudele fa generare in Carme melos “Il Monaco” e “Nostra signora dei turchi” come opera teatrale (essendo anche un romanzo) . Incontra Lydia Mancinelli.

Agli inizi degli anni settanta lascia gli underground teatrali, si esibisce nei teatri più prestigiosi da vita al “Don Chisciotte” con Leo De Bernardinis del “La cena delle beffe” con Proietti e il S.A.D.E.

 

  

 

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