BRIGANTESSE

 

Maria Maddalena De LELLIS: Nella banda di Andrea Santaniello aveva una posizione preminente Maria Maddalena De Lellisi detta la Padovella, una specie di segretaria della comitiva, e forse amanuense perché, si dice, era l'unica che poteva usare un pezzo di matita fra tanti analfabeti. Dalla montagna di Mignano in Campania la Padovella aveva scritto una lettera al prete don Leone chiedendo una forte somma di danaro e mandandogli un'orecchia del nipote catturato. Non rimase contenta delle 900 piastre ricevute e proruppe: "ammazziamone uno, e mandiamo un'altra orecchia a don Leone". Il povero don Leone finì ucciso, dopo i pagamenti. Era isterica e sanguinaria. Le lettere della Padovella, suscitarono polemiche letterarie nei salotti.

Luigia CANNALONGA: contadina di Serre, madre del capobrigante Gaetano Tranchella. Manifestava antipatia per Garibaldi, ed aveva inculcato quest'odio nell'animo dei figli Rosario e Gaetano. Dei due, Rosario finì presto in galera; Gaetano divenne capo di una banda di cui la madre era l'effettiva organizzatrice. Già imputata nel 1862 di corrispondenza con banda armata, somministrazione di viveri ed alloggio, fu successivamente assegnata a domicilio coatto quale "sospetta manutengola di brigantaggio", per deliberazione della Prefettura di Salerno. All'isola del Giglio Cannalonga incontrò altre donne compromesse con il brigantaggio, Giovannella Mazzeo la donna di Giuseppe Sofia, Angela Iacullo fidanzata di Vito Palumbo, Sofia Martuscelli favoreggiatrice e spia, ed altre. Quando Gaetano Tranchella venne ucciso il 14 agosto 1864, cessò la ragione del domicilio coatto e Luigia Cannalonga venne rilasciata. Non ritornò a Serre, fece perdere le sue tracce. Andò sulla montagna dove era stato il figlio, e qui trovò una giovane donna che ne era diventata l'amante ed aveva da poco partorito. Con la nuora e la nipotina rientrò finalmente a Serre, ed il Prefetto di Salerno annotava sul fascicolo: "27 marzo 1865, essendosi rinvenuta la sunnominata Cannalonga, è cessato il bisogno di continuare le pratiche". Così Luigia Cannalonga potè presentarsi a testimoniare nel processo contro i briganti Rosario e Gennaro Passamandi.

Maria OLIVIERO: Maria o Marianna Oliviero detta Ciccilla sposò Pietro Monaco. Questo suo matrimonio era stato preceduto da una tragedia. Il Monaco aveva già sposato Concetta Oliviero, sorella di Ciccilla, ma le sue attenzioni erano per Ciccilla non per la moglie Concetta, e Ciccilla folle di gelosia, attrasse in inganno la sorella in casa e la uccise a coltellate. Poi raggiunse il suo uomo e divenne brigantessa, prendendo parte a sequestri ed uccisioni. Fra l'altro, i coniugi briganti sequestrarono il vescovo di Nicotera e il canonico Benvenuto; riuscirono ad arraffare 15.000 ducati, ma, durante un conflitto con la Gguardia Nazionale, i due religiosi riuscirono a fuggire. La banda ne aveva fatte tante che alcuni gregari si lasciarono convincere a far fuori il capo. Pietro Monaco infatti fu ucciso, e Ciccilla, benchè ferita, fuggì per la campagna, Divenne lei il capo della banda. Catturata infine da un reparto del 58° fanteria comandato dal capitano Dorna, fu rinviata a giudizio e condannata a morte dal tribunale di Catanzaro, pena commutata in quella dei lavori forzati. Fu una brigantessa "bella e crudele", come raccontavano i suoi paesani, donna di fede con "carattere di comando". …….. Maria Oliviero preparò la catasta di legna per bruciare il corpo del marito, come si usava per i briganti uccisi in combattimento, ed al capitano Dorna disse: "se non era per quel traditore, anche con Pietro Monaco morto la banda restava, la guidavo io Maria Oliviero moglie di Monaco". Arrestata fu deferita, al tribunale di Catanzaro, dove arrivarono altre brigantesse tutte vestite in nero. La gente di Calabria cantava: "la fimmina di lu brigante Monaco murìu, lu cori comu na petra mpttu tinia". L'amore spinse Maria Oliviero al brigantaggio. Sua sorella Concetta era stata moglie amante di Pietro Monaco, e Maria non glielo perdonò, la uccise, e, con uno scoppio e con vestiti maschili, si mise su un mulo e raggiunse il suo uomo.

Maria BRIGIDA: brigantessa calabrese compagna di Domenico Strafaci detto Palma. La loro relazione amorosa fu funestata dall'uccisione del padre di Maria. La storia di questa donna comincia con un incontro furtivo con il brigante; appare improvvisamente il padre, e Vulcano, il compagno di Palma, che era addetto alla vigilanza gli vibra una coltellata. Maria Brigida sperava che Palma la sposasse, ma Palma correva verso altri delitti ed altre donne. Palma e Vulcano decisero di sbarazzarsi di Maria Brigida, diventata fastidiosa, e, con il pretesto di accompagnarla per una missione, l'abbandonarono in un burrone. Maria Brigida riuscì a riguadagnare la strada del paese, e si mise a servizio del capitano della Guardia Nazionale. Una sera Palma, lacero, ferito, affamato, chiese ricovero proprio nella casa del capitano, e Maria Brigida nel vederlo, rimase atterrita e sorpresa. Il brigante ebbe i primi soccorsi, ma il capitano lo fece andar via per non compromettersi. Palma chiese due cavalli, Maria Brigida li preparò, ma avvertì anche alcuni soldati. Una pattuglia irruppe, sparò alla cieca, colpì Maria Brigida ma colpì anche il brigante e il suo amico Vulcano che fuggirono con i cavalli. Maria Brigida morì per dissanguamento, era stata "donna di brigante" ma non crudele come una brigantessa. Palma scontò nel penitenziario di Portoferraio tutte le sue colpe, anche quella di aver profittato dell'amore della ragazza che sperava in lui.

Giuseppina GIZZI: detta Peppinella "bella di viso e di tratti" era la fidanzata che "serviva solo per lui" di Giacomo Parra detto Scorzese. Il brigante Michele di Gè racconta nella sua autobiografia come una volta Parra mandò a chiamare per la biancheria e i viveri Peppinella che da allora rimase con lui e si aggregò alla banda. Fu una delle tante scelte che facevano madri, sorelle, mogli, amanti di briganti ….. un tale Alfonso Panaro convinse il manutengolo Pasquale Lisanti ad uccidere Parra e Peppinella. Le due teste non furono portate al sindaco di Muro Lucano, che aveva garantito l'impunità al Lisanti, ma al Sindaco di Bracigliano con cui segretamente il Lisanti aveva avuto altri contatti. E ci fu contesa fra i due Comuni, Muro Lucano e Bracigliano, per avere le teste degli uccisi!

Maria Orsola D'AQUISTO: in un rapporto dei carabinieri reali di Salerno del 18 marzo 1867 si legge: "in seguito di perlustrazioni ed appostamenti, riuscì il 13 andante ai carabinieri della stazione di Acerno e Giffoni imbattersi in otto briganti con a capo Cerino in luogo detto Filettone. Non appena vista la forza i briganti si buttarono per burroni e dirupi spaventosi dirigendosi verso la pianura e la masseria Spaccone, costretti a spogliarsi dei loro mantelli per essere più leggeri; colà giunti, si cacciarono nel fiume, gettando armi ed indumenti che davano impaccio, per riparare dall'altra sponda. Tentarono i briganti, appena giunti in posizione elevata, di far fuoco, ma di nuovo volsero le spalle inseguiti fino a Campo Rotondo". Segue la narrazione del recupero di indumenti ed oggetti abbandonati e del rinvenimento di un brigante ormai senza vita. Non era un brigante, ma la brigantessa Maria Orsola D'Aquisto, di Palinuro, arruolata nella banda da un anno", che (continua il rapporto) "si era data alla campagna col brigante Ielardi Pietro del quale supponesi druda". Un rapporto di qualche tempo prima aveva riferito: "rimane una sola brigante della banda Scarapecchia, ed è la brigantessa D'Aquisto, di cui si fanno le pratiche per indurla a presentarsi o per impadronirsene". Maria Orsola dalla banda Scarapecchia era passata a quella di Pietri Ielardi, che agiva senza legami con altre bande. E un altro rapporto completa la storia: "giova ricordare che la druda D'Aquisto avventuratasi in questo circondario, ne venne scacciata, dopo aver perduto per ferite in combattimento e per presentazione volontarie quattro briganti che l'accompagnavano; non ebbe tempo di consumare alcun reato perché scappò facendo in tempo di cibarsi di carne cruda. Stamane è stato trovato il cadavere di una donna di 27 anni, l'infelice mostrava gravi ferite, un'orecchia recisa, e risultava essere Maria Orsola D'Aquisto, capelli foltissimi, occhi celesti, colorito naturale, vestito centolese". Era morta in combattimento con i Carabinieri Reali, Ielardi era lontano, verso altre avventure. L'avventura di Maria Orsola era cominciata sette anni prima, quando aveva vent'anni. Una notte avevano bussato alla sua porta Salvatore D'Avino e Agostino Visconti; scappavano dal paese ed avevano una "mappata" di biancheria e con trentasei ducati d'argento; Maria Orsola li aveva ospitati fino al mattino; poi se n'erano andati, lasciandole un lenzuolo, due federe, e un ducato.

Maria PELOSI: druda del brigante salernitano Angelo Croce che terminò la sua carriere nel marzo 1866 dopo che il Sindaco del paese, già in rapporti con la sua banda aveva arrestato l'amante Maria Pelosi, con molte promesse per la collaborazione e la dissociazione. In questa occasione Maria Pelosi si lasciò sfuggire nomi, rapine e il nascondiglio delle provviste. Al processo, celebrato a Salerno, Maria Pelosi rilevò anche i rapporti che il Sindaco aveva avuto con la banda; il Sindaco reagì con un'ingiuria, e Maria Pelosi, esile e mingherlina, divenne una belva, lo afferrò per la gola, gli sputò in faccia, lo pestò, lo graffiò. Il pubblico gridava "Viva Maria". Non era l'invocazione della Madonna, come si faceva nelle processioni, ma l'applauso a Maria Pelosi.

Filomena MIRAGLIA: anni 20, informatrice di Gennaro Cretella detto Diavollillo; diventò poi la sua compagna secondo un rapporto del funzionario di polizia del salernitano: "era latitante alla montagna e non compariva in paese che per partorire quando era resa incinta".

Maria Luisa RUSCITTI: nacque il 5 maggio 1844 a Cercemaggiore ed ivi morì il 4 novembre 1903. Fu catturata da Michele Caruso in una delle sue incursioni a Cercemaggiore in contrada Cappella. Aveva diciotto anni e era di condizione fra le più umili, bracciante agricola quando trovava lavoro e donna di fatica nella casa del possidente Leopoldo Chiaffarelli del Paese. La sua bellezza notevole e raccolta; i suoi sentimenti semplici e puri. Costretta a soggiacere a Caruso, era stata da lui rapidamente istruita nell'uso delle armi e sotto la guida di quel maestro, era diventata in pochi mesi di permanenza nella banda, soldato esemplare. Per il suo istruttore ebbe rispetto da subordinato a superiore, nella ingenuità delle anime semplici ed illetterate che capiscono le doti e le limitazioni del prossimo molto prima degli intellettuali tanto proclivi all'analisi dei fatti e pur lenti ed incompleti nelle sintesi. Per lei il colonnello Caruso era un primitivo, duro e spietato perché cresciuto in un ambiente arretrato entro una natura avversa ed inclemente, in cui per sopravvivere, si doveva lottare come nei tempi di molto remoti. Noi lo diremmo un individuo che nella protostoria dei contadini meridionali, anelava al riscatto della servitù, ad una vita civile e più umana. Quali mezzi nativi aveva per lottare? Quelli da fiera selvaggia, dando e ricevendo la morte. Una donna passò attraverso un esercito senza contaminarsi; certo il colonnello non avrebbe tollerato affronti personali, ma gli uomini capivano tante cose, da come fingeva di non guardarla, sentendosi in soggezione, quando si era abbandonato ad una di quelle esplosioni di collera bruta e ruminava forse pentimenti tardivi; era abituato prima a fare e dopo a pensare. Da sempre la natura si ribella, rompe gli argini, distrugge campi e seminati, quando altri ne sovverte l'ordine insito e la rende schiava di assurde sovrastrutture. Tutte queste cose, intuiva Maria Luisa Ruscitti di sanissima morale ed illibatissimi costumi (così dissero di lei nei rapporti, nelle udienze giudici e testimoni), affine per solitudine interiore alla solitudine dell'altro, in quel tenergli testa, pacata e silenziosa. Maria Luisa la briganta è tuttavia per impegno e disciplina, una capitana. Quando uscì di galera nel 1888, era stata condannata dalla Corte di Assise di Trani a 25 anni di reclusione, per avere, durante uno scontro a fuoco, ucciso un ufficiale, sopportò per tutta la vita la sorveglianza speciale.

 da: Giovanni De Matteo "Brigantaggio e Risorgimento - leggittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia"" Alfredo Guida Editore, Napoli, 2000 e da: Luisa Sangiuolo "I l Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860 - 1880" "De Martino, Benevento, 1975

 

Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio. La precarietà dell’esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie - spesso ingigantite – delle difficoltà che il nuovo stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono. Dovunque, nei territori dell’ex regno – a Napoli come nei centri minori – sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i Piemontesi. In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi della ribellione contadina: fuochi che – a ben dire – hanno sempre infiammato il Meridione d’Italia; fuochi ora alimentati da uno sconquasso politico e sociale insostenibile. Il possesso e l’uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive né l’esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la più antica aspirazione delle classi rurali, la proprietà della terra.  Ed è terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici e latifondisti. Spesso sottratta – zolla dopo zolla - ai boschi, alle macchie ed alle pietraie montane. In cambio i contadini ricevono un salario che consente appena di sopravvivere.Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia proprietario ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell’impossibilità pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un parlamento di “galantuomini” per i “galantuomini”. Il destino dei contadini appare segnato: rassegnarsi o ribellarsi. L’esercito borbonico, che per molti giovani rappresentava l’unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d’Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza. Contadini senza terra i e soldati senza esercito null’altro possono fare che darsi alla macchia. Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l’ardimento e la sete di rivendicazione sociale per dare scacco all’esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione. La violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l’occasione è propizia anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei possidenti, dei “galantuomini” e del clero. Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi. L’esercito è impotente, percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i suoi uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con violenza alla violenza in una spirale infinita di sangue. Il fenomeno del brigantaggio approda nel Parlamento che, lungi dal preoccuparsi di tentare – con una saggia politica di riforme sociali - di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle donne dei ribelli. In questo contesto matura il dramma delle “brigantesse”, che è dramma della rottura dell’equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina.  E’ difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816). Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un’incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d’aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò – forte della sua posizione sociale – di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l’ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati. Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti. In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati   fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l’ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell’orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati. Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un’eccezione, insomma, non già la regola. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe più corretto parlare di una “questione dentro la questione”. E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell’intera questione delle classi subalterne meridionali. E’ comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell’ottocento la presenza di un considerevole numero di donne nell’organizzazione brigantesca. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre ed operare – semmai – un’altra distinzione che dall’ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra “la donna del brigante” e “la brigantessa”. Numerosi sono gli esempi di “ donne del brigante”, più rari – ma non meno significativi - quelli di “brigantesse”. Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell’ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all’affermazione del posto che la donna occupa nella odierna società italiana. La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia. Nel primo caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più disperata. Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei “galantuomini”, ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo. La “donna del brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta - contro il suo volere – a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome di Stoccolma”. E’ il caso, ad esempio - sempre nel periodo di occupazione francese - di una non meglio identificata Margherita. Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza. Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece – proprio nei confronti dello stesso Bizzarro – la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi. Bizzarro, in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba – anche dormendovi sopra – per evitare lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia. Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, “la donna del brigante “ segue volontariamente l’uomo di cui è innamorata.Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le “nozze rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall’accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare – attraverso false testimonianze – di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo. Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall’infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza.  La vita brigantesca la rese subito un’intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda. Non si sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo preso attiva parte all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite. Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l’amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora. La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l’esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone a tradire quest’ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l’arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte. Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio. Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto che in ginocchio – chiedendole perdono – le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno. Filomena Pennacchio però non visse – come altre – nel ricordo del suo uomo. Preferì – allettata da una promessa di sconto della pena - tradire anch’essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose “brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima. Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della “brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito. Rimase nel proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella.  Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e – nel cuore della notte – la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d’ascia. Subito dopo – a dorso di mulo – raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé. Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte. Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza – contrariamente a quanto sostengono   taluni frettolosi cronisti - non fu poi eseguita ma tramutata nell’ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all’opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna. Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto. Accanto a donne che uccidono senza pietà e che spingono la loro ferocia – come affermano le cronache giornalistiche e giudiziarie dell’epoca – fino ad inzuppare del sangue delle loro vittime il pane che poi addentavano avidamente, vi sono donne che continuano a mandare messaggi d’amore ricamati su fazzoletti (Maria Suriani al “capitano Cannone”) o a ricamare per mesi l’immagine dell’amante (con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una delle quali ancora oggi viene conservata come cimelio.  Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della latitanza il bisogno di sentirsi pienamente donna, di essere madre. Sono molti gli esempi di briganti catturati in combattimenti che, ad un più attento esame, si rivelano “brigantesse” in stato di gravidanza. E’ difficile però sostenere che ad indurle alla gravidanza sia solamente il calcolo previdente di una maggiore clemenza dei giudici in caso di arresto e la prospettiva di un trattamento carcerario più umano. E’, semmai, più lecito pensare che le gravidanze siano la dimostrazione della necessità di chi si è dato alla macchia di ricostruirsi una vita normale, anche attraverso i sentimenti più naturali. Rosa Reginella, della banda di Agostino Sacchitiello viene catturata con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo un accanito combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo, infatti, partorisce in carcere. Gravide al momento della cattura sono anche Serafina Ciminelli - simile per aspetto e corporatura ad una bambina - compagna del capobanda Antonio Franco e la bella Generosa Cardamone, amante di Pietro Bianchi. Per le brigantesse catturate si aprono le vie del carcere. La legislazione dell’epoca non prevede condanne differenziate per i due sessi ma l’orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente accertare la volontarietà nella scelta di delinquere.  Normalmente la pena inflitta si aggira sui quindici anni di carcere, spesso in parte condonati. Si tratta però di una condanna solo in apparenza più lieve. Infatti, le condizioni di vita all’interno dei vecchi bagni penali borbonici, trasformati in carceri del Regno d’Italia sono pessime: il rancio è appena sufficiente a sopravvivere, le condizioni igienico sanitarie sono impossibili. Costrette ad una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate le “brigantesse” accusano – più dei loro uomini - il peso dei disagi fisici e quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione. La mancanza di igiene (per coprirsi spesso indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento) produce infezioni, che poco o niente curate in carcere, le portano ad una morte prematura.  E’ il caso, ad esempio, della Ciminelli che appena un anno dopo la cattura muore come recita l’arido atto di morte del comune di Potenza per “setticemia”, provocata da un’infiammazione del perineo. Il dramma delle donne del brigantaggio si consuma nell’indifferenza, quando non nel disprezzo, nel silenzio dell’opinione pubblica. Gli atti ufficiali dei Carabinieri Reali, quelli delle Prefetture, i fascicoli processuali le accomunano tutte ai loro uomini, non attribuendo mai alle donne del brigantaggio un ruolo di soggetto sociale autonomo. Le cronache giornalistiche e gli scrittori coevi le descrivono solo come manutengole, amanti, concubine, ” ganze”, “drude”, donne di piacere dei briganti. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali. Delle “brigantesse” restano oggi solamente le poco foto che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Così, accanto a “brigantesse” che si sono fatte ritrarre - armi in pugno - in abiti maschili, vi sono le foto ufficiali dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura innaturale. Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti, legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente spalancati, con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri. Macabro trofeo di una guerra civile occultata. Emblematiche sono le foto che si conservano di Michelina De Cesare, una delle pochissime “brigantesse” uccise in combattimento: alcune la ritraggono negli abiti tradizionali che ne risaltano la bellezza mediterranea. L’ultima, scattatale dopo la morte, mette in evidenza lo scempio fatto sul suo cadavere.

 

 

 

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FINE