Il figlicidio
 

              Il figlicidio reale e i suoi derivati simbolici rappresentati da mutilazioni fisiche parziali
                di natura rituale (circoncisione, clitoridectomia, infibulazione), le lesioni fisiche indotte
                da percosse, negligenza o abbandono, gli abusi sessuali , i maltrattamenti psichici sono
                stati temi perlopiù trascurati, almeno fino a non molti decenni fa , dalla psicologia e
                dalla psicoanalisi.

                L'abbandono da parte di Freud della teoria della seduzione sessuale, che fu definito
                da Bowlby un disastroso voltafaccia per la comprensione dello sviluppo infantile
                normale e patologico, ha determinato lo spostamento della riflessione psicoanalitica
                sul polo intrapsichico a detrimento di quello interpersonale e si è studiato, salvo poche
                eccezioni rappresentate principalmente da Ferenczi, Winnicott e Bowlby, soprattutto
                l'evoluzione dell'aggressività del bambino nei confronti dei genitori tanto al livello
                edipico (Freud), quanto a quello preedipico (Klein). L'enfatizzazione di tale
                aggressività ha consentito di oscurare quella dei genitori nei confronti dei figli, in altre
                parole, rimanendo al livello edipico, il Complesso di Edipo ed il parricidio connesso
                hanno oscurato il Complesso di Laio ed il figlicidio: la questione è piuttosto rilevante,
                perché al neonato ed al bambino manca la capacità, che invece i genitori possiedono,
                di tradurre in azione le fantasie omicide. Difatti è piuttosto raro leggere nelle
                cronache nere notizie del tipo "Neonato di pochi giorni abbandona la madre in un
                cassonetto della spazzatura" oppure "Folle gesto di un bambino di due mesi: in un
                impeto d'ira getta il padre dalla finestra"!

                Le cause di questo imponente scotoma riguardo la distruttività parentale si possono
                imputare a fattori diversi. In primo luogo i neonati e i bambini hanno gravi
                responsabilità, in quanto hanno consentito agli adulti di scrivere manuali di psicologia
                infantile, senza essere in grado di scrivere essi stessi sul tema della proprio sviluppo e
                della propria emotività; in secondo luogo neonati e bambini non sono stati capaci di
                strutturare studi sistematici di "adult observation", ma si sono limitati ad essere oggetti
                di studio da parte della "infant observation"; in terzo luogo, e al di fuori dell'ironia, è
                difficilmente tollerabile e pensabile per i genitori di nutrire sentimenti omicidi rivolti ai
                figli, così come altrettanto impensabile per i figli è l'idea che i loro genitori li abbiano
                per davvero voluti morti; per ultimo si può ipotizzare che i sentimenti di colpa dei
                genitori abbiano avuto un peso considerevole nella teorizzazione del bambino perverso
                polimorfo di Freud e del bambino distruttivo di M. Klein.

                L'unico autore che ha affrontato in modo sistematico il tema della violenza verso i
                figli è lo psicoanalista argentino A. Raskovsky (1973) in un'opera sì famosa, appunto
                intitolata "Il figlicidio", ma che non ha ricevuto tutta l'attenzione che essa merita.

                L'Autore elabora in modo forte la tesi che le tendenze figlicide dirette e indirette
                siano sempre state ampiamente negate dalla psicoanalisi e che la focalizzazione
                prevalente sul parricidio abbia contribuito a tale negazione.

                Raskovsky concemtra l'attenzione soprattutto sul figlicidio ad opera dei padri e
                presuppone in modo troppo scontato che nella donna la capacità di aver cura dei figli
                sia innata; inoltre, in modo altrettanto poco convincente in quanto anch'egli postula il
                discusso istinto di morte, fa risalire l'origine del figlicidio alle fantasie cannibaliche,
                presenti nel neonato, di distruggere il seno della madre: se così fosse, poiché maschi e
                femmine nascerebbero con uguale dotazione di istinto di morte, la tendenza figlicida
                dovrebbe essere equamente ripartita.

                Non c'è dubbio che la diversa struttura psicobiologica della donna e dell'uomo
                condizioni reazioni diverse nell'uno e nell'altro sesso: di conseguenza è il padre ad
                essere particolarmente esposto a forti sentimenti d'esclusione, di gelosia e d'invidia
                (cannibalici in ultima analisi) nei confronti del neonato. Inoltre il destino di questi
                sentimenti del maschio sarà anche condizionato da come la donna riuscirà a
                conciliare il suo ruolo di donna e di madre.

                E' quindi assai probabile che esista una tendenza figlicida diretta maggiore nel
                maschio che nella donna, mentre è più verosimile che essa presenti una maggiore
                propensione all'adulticidio, inteso come tentativo di non far crescere il figlio.

                Ma a parte queste precisazioni, Raskovsky sottolinea vigorosamente la presenza di
                un impulso figlicida primario, che ovviamente coesiste con più forti sentimenti di
                amore per la prole: se così non fosse la specie umana si sarebbe estinta da un pezzo!

                I miti, le religioni, l'antropologia, la storia, le cronache dei giornali e, aggiungerei, il
                trattamento psicoanalitico dei genitori, testimoniano l'ubiquitarietà delle tendenze
                omicide nei confronti dei figli.

                I miti di diverse culture ne rivelano l'esistenza. Urano aveva un profondo orrore dei
                figli e appena Gea glieli partoriva li imprigionava nelle visceri della terra. Uno di essi,
                Crono, il dio del tempo, con l'aiuto della madre, castrerà il padre e ne diventerà il
                successore. Ma la profezia, che la medesima sorte gli toccherà per mano dei suoi
                figli, induce Crono, a titolo preventivo, a mangiare i figli che Rea gli partorisce.
                Quando nasce Zeus, la madre decide di salvarlo, ingannando Crono: gli porgerà una
                pietra nascosta in un fagottino , dicendogli che si tratta del piccolo Zeus; il credulone
                del padre se la mangia e, secondo i bene informati, la cosa gli sta ancora sullo
                stomaco, anche perché, secondo la inesorabile profezia, Zeus di fatto lo spodesta.

                Tralascerò altri numerosi racconti mitologici, accennando solo di sfuggita a Tantalo
                che taglia a pezzi il figlio Pelope e lo serve in pasto agli dei invitati a banchetto, per
                giungere a Edipo la cui storia è a tutti nota: è invece in genere sottovalutato, che
                anche Laio, il padre di Edipo, vive sotto la minaccia, che il figlio lo ucciderà: secondo
                una versione del mito Edipo è salvato dalla morte per mano del padre da un pastore, il
                quale farà credere che il bambino è stato ucciso.

                Il tema dell'assassinio del figlio ricorre anche in numerose religioni: Dio ordina ad
                Abramo di uccidere il figlio Isacco; Erode fa strage degli innocenti al di sotto dei due
                anni e costringe Gesù alla fuga in Egitto; ancora Gesù, figlio di Dio, poco prima di
                morire sulla croce, rivolge il suo atto di dolore e di accusa: "Padre, padre perché mi
                abbandoni?".

                Dallo studio dell'antropologia e della storia emergono ulteriori conferme: nell'Impero
                Romano "la patria potestà" contemplava diritto di vita e di morte sui figli, che
                potevano essere venduti e sacrificati agli dei. Il sacrificio dei figli compare anche
                nelle storie dell'Egitto e della Grecia e i dati antropologici ne confermano la presenza
                in quasi tutte le culture. Il sacrificio totale, cioè la morte, verrà gradualmente sostituto
                dai riti d'iniziazione in cui la circoncisione, che per gli Ebrei sancisce il patto fra Dio e
                l'uomo, sarà una delle pratiche più diffuse, assieme a interventi più radicali come la
                castrazione di solito effettuata da sostituti paterni in vari stati, regni e comunità
                religiose: basti pensare che il costume di trasformare, tramite la castrazione, bambini
                maschi in soprani, soprattutto per la Cappella Sistina, termina soltanto nel 1878.

                Devereux, psicoanalista e antropologo, riferisce che il cannibalismo ed il commercio
                della carne dei propri figli erano frequenti nel Medioevo durante i periodi di carestia,
                così come sono stati consumati anche nella Russia postrivoluzionaria e in Cina
                durante la grande carestia degli anni '59-'61.

                Né si possono trascurare, nell'Inghilterra industriale dell'800, le conseguenze spesso
                mortali dello sfruttamento del lavoro minorile, che contemplava l'imposizione, a
                bambini e ragazzini, di massacranti turni di 12-16 ore in miniera

                Ma occorrerà attendere la fine degli anni 60 perché quello della violenza fisica sui
                figli divenga, per la sua gravità e diffusione, problema medico e sociale.

                E' curioso che un primo importante contributo alla scoperta della "sindrome del
                bambino malmenato" sia giunto dalle osservazioni di alcuni radiologi (Caffey 1946,
                Silverman 1953) i quali furono costretti a ipotizzare che traumi altrimenti inspiegabili
                (fratture delle ossa lunghe, emorragie intracraniche) fossero il risultato di violenze da
                parte di "irreprensibili" genitori o loro sostituti.

                Helfer e Kemper (1968) scrivono nel loro noto libro "The battered child":

                Muoiono più bambini al di sotto dei cinque anni a causa del maltrattamento dei genitori o di
                chi li ha a proprio carico, che per la tubercolosi, la tosse convulsa, la poliomielite, la
                scarlattina, il diabete, la febbre reumatica e l'appendicite prese insieme.

                Né è molto più incoraggiante la cronaca nera, ma su questo non mi soffermo perché
                essa è accessibile a tutti. Desidero invece sottolineare come l'analisi dei pazienti
                genitori metta in luce, con modalità e intensità variabili secondo le singole storie
                personali, la presenza di fantasie figlicide ubiquitarie che spesso si traducono in
                maltrattamenti fisici o psicologici oppure in comportamenti compensatori di segno
                opposto.

                A questo punto è legittima la domanda: a che cosa è dovuta la tendenza figlicida?
                Possiamo invocare da un vertice psicoanalitico diverse possibilità interpretative e
                sostenere per esempio che il figlio possa inconsciamente rappresentare un fratello o
                una sorella rivale e così suscitare gelosia e ostilità, oppure che il figlio sia vissuto
                come il proprio padre rivale; oppure si può pensare che il bambino simboleggi un
                aspetto odiato del proprio sé e che quindi, come tale, sia una cocente delusione
                rispetto al figlio ideale o perfetto sognato da ogni genitore, oppure ancora potremmo
                ipotizzare che i genitori maltrattino il figlio allo stesso modo in cui essi furono
                maltrattati dai propri genitori. Ora una o più di queste ragioni sono sempre
                individuabili nella clinica psicoanalitica, ma a mio parere non esauriscono interamente
                la natura del maltrattamento e delle fantasie figlicide.

                Possiamo ora provare ad annodare alcuni fili delle argomentazioni svolte finora.
                All'inizio della relazione ho sottolineato i due poli ontologici della condizione umana:
                quello della consapevolezza della morte e il desiderio d'eternità. Essi rimandano
                strettamente alla dimensione del tempo: la prima legata ad un tempo lineare, a
                termine, al continuo fluire e divenire delle cose, dove tutto scorre, così che nello
                stesso punto il fiume della vita non è mai uguale a se stesso; il secondo legato ad un
                tempo circolare, il tempo eterno di Crono, o se volete il tempo di Peter Pan, del puer
                aeternus della psicologia junghiana, il tempo dell'immobilità, della fissità, del non
                cambiamento. E' questo un tempo illusorio, quello del sogno e della fantasia, in altre
                parole dell'immortalità: esso è il risultato della negazione del tempo lineare, cioè di una
                operazione che, come ha ben argomentato Marie Bonaparte (1952) è una difesa
                specifica dalla paura e dal dolore per la propria morte.

                Potremmo allora anche pensare al mito di Crono che divora i propri figli come
                all'espressione di una fantasia di eternità: Crono, il dio del tempo eterno, per rimanere
                tale, non ha altra folle soluzione che quella di uccidere i propri bambini, tentando di
                negare così la sua generatività e quindi il fluire delle generazioni che nascono,
                muoiono e nascono. Fantasia di eternità fallimentare, perché comunque uno Zeus ne
                denuncerà il limite.

                Che cosa viene di fatto a rappresentare la nascita di un figlio? Quali sono le emozioni
                intense che essa suscita?

                Se la nascita di un bambino è la prosecuzione, per via indiretta, della vita dei genitori,
                una sonda del proprio Sé corporeo e psichico lanciata nello spazio dell'eternità, essa
                rappresenta anche un segnatempo inesorabile del limite dell'esistenza individuale. Nel
                castello, con la nascita dei figli, s'incrociano i destini: assieme al mistero e alla
                trepidazione, la nuova vita dei figli evoca, come si conviene a tutti i castelli, gli spettri
                della morte per i genitori-castellani che dovranno cedere il posto. Abbiamo visto
                come in numerosi miti ricorra la profezia che il figlio ucciderà il padre e ne prenderà il
                posto: se questa uccisione può essere letta in termini edipici, così come
                tradizionalmente si è fatto, essa può essere intesa anche come metafora del fatto che
                il figlio necessariamente testimonia ai genitori il passar del tempo e quindi
                l'inevitabilità dell'invecchiamento e della morte. Diventare genitore è aprirsi al mondo
                dell'adultità e quindi della morte. Per chiarire questo concetto riferirò le parole di un
                bambino il quale, dopo la morte del nonno, incominciò a rifiutare il cibo. Alla madre
                che gliene chiedeva le ragioni rispose: "Non mangio, perché non voglio diventare
                grande: essere adulti non è bello, perché dopo si muore".
 
 

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