- Sentenza
della Corte Costituzionale n. 154 del 17 maggio 2001 -
- Sentenza della Corte Costituzionale n. 114 del 9 maggio 2001 -
- Sentenza della Corte Costituzionale n. 117 del 9 maggio 2001 -
- Sentenza della Corte Costituzionale n. 323 del 21 luglio 2000 -
- Sentenza della Corte Costituzionale n. 359 del 16 luglio 2000 -
- Sentenza della Corte Costituzionale n. 436 del 10 dicembre 1999 -
- Sentenza della Corte Costituzionale n. 324 del 24 luglio 1998 -
Sentenza
della Corte Costituzionale n. 154 del 17 maggio 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO Giudice
- Massimo VARI "
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli
articoli 17 (Pene principali:
specie), 18 (Denominazione e classificazione delle pene
principali) e 24 (Multa)
quest'ultimo come sostituito dall'art. 101 della legge
24 novembre 1981, n. 689
del codice penale, dell’art. 660 (Esecuzione delle pene
pecuniarie) del codice di
procedura penale e degli articoli 102 e 108 della legge
24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale), promosso con ordinanza
emessa il 21 giugno 2000 dal
Tribunale di sorveglianza per i minorenni di Napoli,
iscritta al n. 606 del registro
ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 44, prima
serie speciale, dell’anno 2000.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 aprile 2001 il
Giudice relatore Valerio
Onida.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 21 giugno 2000,
pervenuta a questa Corte l’11
settembre 2000, il Tribunale per i minorenni di Napoli,
in funzione di Tribunale di
sorveglianza, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento
agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione,
degli articoli 17 (Pene
principali: specie), 18 (Denominazione e classificazione
delle pene principali) e 24
(Multa) – quest'ultimo come sostituito dall'art. 101
della legge 24 novembre 1981,
n. 689 – del codice penale "nei limiti in cui non escludono
l'applicabilità della
pena pecuniaria all'imputato minorenne", nonché
dell’art. 660 (Esecuzione delle pene
pecuniarie) del codice di procedura penale e degli articoli
102 e 108 della legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale),
"nei limiti in cui non
escludono l'applicabilità ai condannati da minorenne
della conversione della pena
pecuniaria in pena diversa";
che il remittente, chiamato a pronunciarsi sulla revoca,
a carico di un condannato
per fatto commesso durante la minore età, della
libertà controllata – in cui era
stata in precedenza convertita, per insolvibilità,
la pena pecuniaria inflitta – per
mancato rispetto delle relative prescrizioni, ritiene
che le norme impugnate violino
il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della
Costituzione, non apparendo
conforme a logica che un minorenne possa essere condannato
ad una pena, quella
pecuniaria, che, salvo il caso di intervento di parenti,
non sarebbe per il
condannato eseguibile, non avendo egli, proprio perché
minorenne, disponibilità
economica;
che tale irragionevolezza emergerebbe anche dal confronto
con le norme (art. 10 del
d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448; art. 29 del d.lgs.
28 luglio 1989, n. 272) che,
rispettivamente, escludono l'esercizio dell'azione civile
nel processo penale
minorile, ed escludono che l'imputato minorenne possa
essere condannato a rifondere
le spese di giudizio e quelle di mantenimento in carcere,
norme la cui ratio
risiederebbe nel riconoscimento della incapacità
economica del minorenne: ciò
renderebbe ancor più irrazionale la possibilità,
derivante dalle norme impugnate, di
condannare il minorenne a pena pecuniaria che, in caso
di insolvibilità, si converte
dapprima in libertà controllata e poi in pena
detentiva, ipotesi – quest'ultima –
che non sarebbe marginale in quanto sarebbe "pressoché
inevitabile" che il giovane
condannato violi le prescrizioni, specie quando la libertà
controllata sia applicata
per un tempo non breve;
che, sempre ad avviso del giudice a quo, le norme impugnate
violerebbero altresì
l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto
la possibilità di infliggere
una pena pecuniaria contrasterebbe con il principio di
rieducatività della pena,
posto alla base del sistema sanzionatorio minorile, e
con il principio di minima
afflittività del processo penale per il minorenne,
cui si ispirerebbe il sistema
normativo; detta pena non avrebbe funzione rieducativa,
sia per la impossibilità per
il minore di sottoporvisi, sia per il rischio – che sarebbe
quasi una certezza – di
trasformazione dapprima in una limitazione della libertà,
e poi nel carcere;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, chiedendo
che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque
infondata.
Considerato che il Tribunale di sorveglianza remittente
non è chiamato ad applicare,
nel giudizio a quo ( concernente la conversione della
libertà controllata in pena
detentiva per inosservanza delle relative prescrizioni,
a norma dell'art. 108 della
legge n. 689 del 1981 ( né gli articoli 17, 18
e 24 del codice penale, che prevedono
le pene pecuniarie senza escluderle per gli imputati
minorenni, e che hanno trovato
già applicazione nel giudizio di cognizione con
la condanna inflitta, e divenuta
definitiva, a pena pecuniaria; né l'art. 660 cod.
proc. pen. e l'art. 102 della
legge n. 689 del 1981, che hanno trovato già applicazione
ad opera del competente
magistrato di sorveglianza, il quale ha provveduto alla
conversione della pena
pecuniaria in libertà controllata per insolvibilità
del condannato;
che pertanto la questione, relativamente alle predette
norme, è manifestamente
inammissibile per difetto palese di rilevanza;
che, quanto all'art. 108 della legge n. 689 del 1981 –
del quale unicamente il
Tribunale è chiamato a fare applicazione nella
specie –, la questione (peraltro
prospettata, anche a questo riguardo, con prevalente
riferimento al problema della
legittimità di una condanna a pena pecuniaria
nel caso di imputato che abbia
commesso il fatto in età minore, e con riferimento
alla "incapacità economica" del
minore, affermata senza tener conto della distinzione
fra incapacità di agire, a
certi effetti, del minorenne e titolarità da parte
sua – che può sussistere – di
beni e di redditi) appare comunque priva di consistenza;
che, infatti, in primo luogo, le prescrizioni inerenti
alla libertà controllata (che
peraltro, quando il condannato sia minorenne al momento
in cui inizia l'esecuzione,
è eseguita, ai sensi dell'art. 75 della legge
n. 689 del 1981, nelle forme
dell'affidamento in prova al servizio sociale) sono determinate,
in parte, dal
magistrato di sorveglianza che provvede alla conversione
della pena pecuniaria (art.
107, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, che
rinvia all'art. 62 della stessa
legge), e può quindi adattare le prescrizioni
medesime alla situazione individuale
del condannato in funzione delle esigenze della sua risocializzazione,
e modificarle
per sopravvenuti motivi di assoluta necessità
(art. 64, primo comma, della legge n.
689 del 1981);
che, comunque, non appare in fatto fondata l'asserzione
del remittente, secondo cui
la violazione delle prescrizioni da parte del giovane
condannato sarebbe "pressoché
inevitabile" specie quando la libertà controllata
sia applicata per un tempo non
breve; dovendosi inoltre sempre apprezzare in concreto,
in sede di decisione sulla
conversione della libertà controllata per inosservanza
delle prescrizioni, il
carattere sostanziale della violazione, al di fuori di
un totale e cieco
automatismo;
che, in ogni caso, l'ipotesi della conversione della libertà
controllata in pena
detentiva non è affatto inevitabile, posto che
è sempre possibile disporre, in suo
luogo, l'affidamento al servizio sociale, oltre che la
semilibertà, non operando,
nel caso di conversione della libertà controllata
derivante a sua volta da
conversione di pena pecuniaria, il divieto (peraltro
comunque inapplicabile ai
condannati minorenni, in forza della sentenza n. 109
del 1997) di cui all'art. 67
della legge n. 689 del 1981 (art. 108, primo comma, ultimo
periodo, della legge n.
689 del 1981: e cfr. in proposito ordinanza n. 418 del
1990);
che la questione deve dunque dichiararsi in parte manifestamente
inammissibile e in
parte manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo
1953, n. 87, e 9, secondo
comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità
costituzionale degli articoli 17 (Pene principali: specie),
18 (Denominazione e
classificazione delle pene principali) e 24 (Multa),
quest'ultimo come sostituito
dall'art. 101 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (del
codice penale, nonché
dell'art. 660 (Esecuzione delle pene pecuniarie) del
codice di procedura penale e
dell'art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche
al sistema penale),
sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo
comma, della Costituzione, dal
Tribunale per i minorenni di Napoli, in funzione di Tribunale
di sorveglianza, con
l'ordinanza in epigrafe;
b) dichiara la manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale
dell'articolo 108 della predetta legge n. 689 del 1981,
sollevata, in riferimento
agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione,
dal Tribunale per i minorenni
di Napoli, in funzione di Tribunale di sorveglianza,
con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta,
il 9 maggio 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2001.
Sentenza
della Corte Costituzionale n. 114 del 9 maggio 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO Giudice
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
398, comma 5-bis, del codice di
procedura penale (Provvedimenti sulla richiesta di incidente
probatorio), come
introdotto dall’art. 14, comma 2, della legge 15 febbraio
1996, n. 66 (Norme contro
la violenza sessuale), promosso con ordinanza emessa
il 26 aprile 2000 dal Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Modena,
iscritta al n. 467 del registro
ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 37, prima
serie speciale, dell’anno 2000.
Udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2001 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1. ¾ Nel corso di un procedimento penale per il
reato di maltrattamenti in famiglia
o verso fanciulli (art. 572 del codice penale), nel cui
ambito si rendeva necessario
procedere, nelle forme dell’incidente probatorio, all’assunzione
della testimonianza
di una quattordicenne, il Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di
Modena, con ordinanza emessa il 26 aprile 2000, pervenuta
a questa Corte il 14
giugno 2000, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 398, comma 5-bis,
del codice di procedura
penale (Provvedimenti sulla richiesta di incidente probatorio),
nella parte in cui
non prevede l’ipotesi di reato di cui all’art. 572 del
codice penale "fra quelle in
presenza delle quali, ove fra le persone interessate
all’assunzione della prova
nelle forme dell’incidente probatorio vi siano minori
di sedici anni, il giudice
stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari
attraverso cui procedere
all’incidente probatorio, quando le esigenze del minore
lo rendano necessario od opportuno".
Il remittente ricorda che tale speciale disciplina è
stata introdotta dall’art. 14
della legge 15 febbraio 1996, n. 66, per il caso in cui
si proceda ad incidente
probatorio nell’ambito di indagini riguardanti le ipotesi
di reato previste dagli
articoli 609-bis (Violenza sessuale), 609-ter (Circostanze
aggravanti), 609-quater
(Atti sessuali con minorenne), 609-quinquies (Corruzione
di minorenne) –
quest’ultima per effetto della sentenza n. 262 del 1998
di questa Corte –, e
609-octies (Violenza sessuale di gruppo) del codice penale;
ed è stata estesa
dall’art. 13, comma 4, della legge 3 agosto 1998, n.
269, alle ipotesi di reato di
cui agli articoli 600-bis (Prostituzione minorile), 600-ter
(Pornografia minorile) e
600-quinquies (Iniziative turistiche volte allo sfruttamento
della prostituzione
minorile) del codice penale; e osserva che l’"audizione
protetta" ivi prevista
tenderebbe a realizzare forme alternative di assunzione
della prova, in ispecie
testimoniale, in modo da evitare il diretto contatto
del minore con la "viva realtà
processuale".
Ad avviso del remittente, benché la tipologia del
bene offeso dalle fattispecie di
reato contemplate dalla norma impugnata costituisca ragione
sufficiente di deroga
alle regole generali di svolgimento dell’incidente probatorio,
tale scelta
sembrerebbe in realtà rinvenire il proprio autentico
fondamento nelle esigenze di
salvaguardia tout court della personalità del
minore interessato all’assunzione
della prova: come sarebbe confermato dal fatto che l’estensione
operata da questa
Corte al reato di corruzione di minorenne (sentenza n.
262 del 1998) sarebbe
collegata all’esistenza di una più generale ragione
di tutela della personalità del
minore coinvolto in fatti comunque attinenti alla sua
sfera psichica, fisica ed
affettiva.
Sarebbe perciò in contrasto con l’art. 3 della
Costituzione, per irragionevolezza,
la limitazione della predetta disciplina solo ai reati
indicati, in considerazione
del fatto che identiche ragioni di salvaguardia della
personalità del minore
potrebbero valere in ordine a fattispecie diverse, eppure
parimenti connotate da un
"contenuto afflittivo non dissimile", come accadrebbe,
appunto, nel caso del reato
di cui all’art. 572 cod. pen. Trattandosi di un reato
che si realizza attraverso un
sistema reiterato di atti lesivi della libertà
ed integrità fisica e morale o del
decoro della persona offesa, tale da determinare una
vera e propria sopraffazione,
si presenterebbe una situazione "generativa del possibile
perturbamento
dell’equilibrio psico-fisico del minore e della correlata
esigenza di riservatezza",
in termini non diversi dal caso dei reati richiamati
nella norma denunciata.
L’esigenza di protezione del minore dal contatto invasivo
con una realtà processuale
non filtrata dalla mediazione demandata al giudice dalla
norma in esame potrebbe
discendere sia da situazioni involgenti la sfera della
sessualità minorile, sia da
situazioni che incidono sull’integrità fisica
e sul patrimonio morale del minore.
Il giudice a quo motiva infine la rilevanza della questione
osservando che
l’espletamento della prova testimoniale ammessa in sede
di incidente probatorio
dovrebbe avere luogo secondo le forme ordinarie del dibattimento,
come previsto
dall’art. 401, comma 5, cod. proc. pen. Né tale
rilevanza potrebbe essere
contraddetta, secondo il remittente, dal rilievo della
applicabilità dell’art. 502
cod. proc. pen., relativo all’escussione a domicilio
del teste assolutamente
impossibilitato a comparire per legittimo impedimento,
poiché tale norma
disciplinerebbe ipotesi di oggettiva impossibilità
a comparire, e consentirebbe
comunque l’intervento personale dell’imputato, nelle
forme immediate e prive delle
garanzie previste dall’art. 398, comma 5-bis, cod. proc.
pen.
2. ¾ Non vi è stata costituzione di parti
né intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri.
Considerato in diritto
1. ¾ La questione sollevata riguarda l’art. 398,
comma 5-bis, del codice di
procedura penale (Provvedimenti sulla richiesta di incidente
probatorio). La norma
impugnata prevede che, nel caso di indagini riguardanti
le ipotesi di reati sessuali
introdotte dalle leggi 15 febbraio 1996, n. 66, e 3 agosto
1998, n. 269, ove tra le
persone interessate all’assunzione della prova vi siano
minori di anni sedici, il
giudice, quando le esigenze del minore lo rendono necessario
od opportuno,
stabilisce modalità particolari per procedere
all’incidente probatorio, potendosi
svolgere l’udienza anche in luoghi diversi dal tribunale
con l’ausilio di strutture
specializzate di assistenza o, in mancanza, presso l’abitazione
del minore. La norma
è censurata nella parte in cui non prevede, fra
le ipotesi di reato in presenza
delle quali essa si applica, il reato di maltrattamenti
in famiglia o verso
fanciulli, di cui all’art. 572 del codice penale.
Secondo il remittente, contrasterebbe con il principio
di uguaglianza, di cui
all’art. 3 della Costituzione, la mancata estensione
di dette regole a quest’ultimo
reato, riguardo al quale varrebbe la stessa esigenza
di protezione della personalità
del minore, che sta a base della previsione legislativa
in esame.
2. ¾ La questione non è fondata.
La scelta del legislatore di prevedere una speciale disciplina
per l’incidente
probatorio – reso accessibile anche al di fuori delle
ipotesi generalmente previste
(art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen.) – quando tra
gli interessati all’assunzione
della prova vi siano minori infrasedicenni, e si proceda
per taluno dei reati di cui
alla legge n. 66 del 1996 o alla legge n. 269 del 1998,
è evidentemente collegata
alla valutazione secondo cui, nei procedimenti per reati
sessuali, si pongono
specifiche esigenze sia di assicurazione della genuinità
della prova, sia,
soprattutto, di protezione del minore infrasedicenne
rispetto alle possibili lesioni
alla sua personalità derivanti dalle modalità
del suo intervento nel procedimento.
Tale ratio differenziatrice fra i reati sessuali (nel
cui ambito l’assenza, nel
testo originario dell’art. 398, comma 5-bis, cod. proc.
pen., del riferimento al
reato di corruzione di minorenne ha condotto alla pronuncia
additiva di questa Corte
contenuta nella sentenza n. 262 del 1998) e gli altri
reati non appare
ingiustificata. Il reato di maltrattamenti in famiglia
o verso fanciulli non
presenta caratteristiche di tale assimilabilità,
rispetto ai reati sessuali, da
imporre in modo automatico l’estensione della medesima
ratio: esso non coinvolge
infatti, in quanto tale e necessariamente, la sfera sessuale,
rispetto alla quale si
pongono le particolari esigenze di riserbo e di protezione
dell’intimità personale
che hanno ispirato la scelta compiuta dal legislatore
con l’art. 398, comma 5-bis.
3. ¾ Ciò non esclude che anche nei procedimenti
per altri reati, non previsti da
quest’ultima norma, e così per il delitto di cui
si discute, possano sussistere
esigenze di protezione della personalità dei minori
interessati all’assunzione della
prova, quanto alle modalità di quest’ultima. Ma
tali esigenze trovano riscontro in
altre norme dell’ordinamento processuale. In primo luogo
soccorre l’art. 498, comma
4, del codice di rito, ai cui sensi l’esame testimoniale
del minore è condotto, non
già dalle parti, secondo la regola generale, bensì,
su domande e contestazioni
proposte dalle parti, dal giudicante, il quale può
avvalersi dell’ausilio di un
familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile,
salvo che si ritenga
che l’esame diretto non possa nuocere alla serenità
del teste. Ancora, il giudice
può sempre disporre che l’esame dei minorenni
avvenga a porte chiuse (art. 472,
comma 4, cod. proc. pen.); e delle generalità
e dell’immagine dei testimoni
minorenni è vietata la pubblicazione, fino a quando
non sono divenuti maggiorenni,
salva l’autorizzazione del tribunale per i minorenni,
data nell’interesse esclusivo
del minore, o il consenso di questi, ma solo se ha compiuto
sedici anni (art. 114,
comma 6, cod. proc. pen.).
Ma c’è di più. La legge n. 269 del 1998
(art. 13, comma 6) ha introdotto nell’art.
498 del codice di procedura penale, che disciplina le
modalità dell’esame
testimoniale nel dibattimento, il comma 4-bis, ai sensi
del quale "si applicano, se
una parte lo richiede ovvero se il presidente lo ritiene
necessario, le modalità di
cui all’articolo 398, comma 5-bis", cioè appunto
le modalità di cui alla norma qui
impugnata. Ora, benché tale nuova regola sia stata
introdotta nel contesto della
disciplina dei reati concernenti la prostituzione minorile
e la pornografia
minorile, sta di fatto che la disposizione che la contiene
riguarda le modalità
dell’esame testimoniale nel dibattimento, prescindendo
dall’ipotesi di reato per cui
si procede: a differenza del successivo comma 4-ter,
introdotto con lo stesso art.
13, comma 6, della legge n. 269 del 1998, che esplicitamente
si riferisce ai casi in
cui si procede per uno dei reati sessuali indicati, il
comma 4-bis non reca alcuna
limitazione in ordine ai reati.
Ora, come ricorda lo stesso giudice remittente, l’art.
401, comma 5, del codice di
procedura penale, relativo alle modalità di svolgimento
dell’udienza per l’incidente
probatorio, dispone che "le prove sono assunte con le
forme stabilite per il
dibattimento". Pertanto, se il nuovo comma 4-bis dell’art.
498 si applica, nel
dibattimento, indipendentemente dal titolo di reato per
il quale si procede, e se
esso è applicabile, in forza dell’art. 401, comma
5, anche all’incidente probatorio,
ne risulta che, in forza del doppio richiamo accennato,
anche nel caso di incidente
probatorio nell’ambito di un procedimento per reato diverso
da quelli sessuali (e
così per il reato sottoposto al giudice a quo),
le modalità particolari di
assunzione della testimonianza del minore infrasedicenne,
previste dall’art. 398,
comma 5-bis, possono trovare applicazione: che è
proprio quanto il remittente
vorrebbe ottenere attraverso la dichiarazione di illegittimità
costituzionale della
norma denunciata.
Né potrebbe opporsi che le condizioni poste dall’art.
498, comma 4-bis (richiesta di
una delle parti o necessità ritenuta dal giudicante),
sono diverse da quelle cui è
subordinata l’applicazione dell’art. 398, comma 5-bis,
nell’incidente probatorio
relativo ai reati sessuali (necessità o opportunità
in relazione alle esigenze del
minore); e che parzialmente diverso è, nei due
casi, l’oggetto della disciplina
(esame dei testimoni, nell’art. 498; assunzione della
prova cui siano interessate
persone minori di sedici anni, nell’art. 398). Infatti,
le eventuali esigenze –
delle quali si è concretamente fatto carico il
remittente nel giudizio a quo - di
speciale protezione del minore infrasedicenne chiamato
a testimoniare potrebbero
comunque essere prese in considerazione anche in base
all’art. 498, comma 4-bis,
attraverso la valutazione della "necessità" del
ricorso alle particolari modalità,
operata dal giudicante in applicazione di tale ultima
disposizione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 398, comma
5-bis, del codice di procedura penale (Provvedimenti
sulla richiesta di incidente
probatorio), sollevata, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, dal Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Modena con
l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta,
il 7 maggio 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2001.
Sentenza
della Corte Costituzionale n. 117 del 9 maggio 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Fernando SANTOSUOSSO Presidente
- Massimo VARI Giudice
- Cesare RUPERTO "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
37 del d.P.R. 22 settembre
1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo
penale a carico di
imputati minorenni) e dell’art. 224 del codice penale
(Minore non imputabile),
promosso con ordinanza emessa il 26 maggio 1999 dal Tribunale
per i minorenni di
Messina, iscritta al n. 474 del registro ordinanze 1999
e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale,
dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 dicembre 2000 il
Giudice relatore Valerio
Onida.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 2 maggio 1999, pervenuta
a questa Corte il 12
agosto 1999, il Tribunale per i minorenni di Messina
in funzione di giudice per
l’udienza preliminare, investito di una richiesta di
applicazione provvisoria della
misura di sicurezza del collocamento in comunità
a carico di un minore
ultraquattordicenne non imputabile per vizio totale di
mente, ha sollevato questione
di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 2, 3, 10 e 31 della
Costituzione, dell’art. 37 del d.P.R. 22 settembre 1988,
n. 448 (Approvazione delle
disposizioni sul processo penale a carico di imputati
minorenni), "nella parte in
cui non prevede l’estensione della normativa relativa
ai presupposti necessari per
l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza
ai minori ultraquattordicenni
che versino in situazione di assoluta incapacità
di intendere e di volere per vizio
totale di mente" ai sensi dell’art. 88 del codice penale,
nonché dell’art. 224 del
codice penale (Minore non imputabile), "nella parte in
cui esclude dalla relativa
disciplina il minore ultraquattordicenne non imputabile
per vizio totale di mente";
che, secondo il giudice a quo, mentre al minore infraquattordicenne
si applicherebbe
la disciplina di cui all’art. 37 del d.P.R. n. 448 del
1988 (accertamento delle
condizioni previste dall’art. 224 cod. pen. e del concreto
pericolo che l’imputato
commetta delitti di specifica gravità), e mentre
al minore ultraquattordicenne non
imputabile ai sensi dell’art. 98 cod. pen. si applicherebbe
la previsione dell’art.
224 cod. pen., che impone di valutare la gravità
del fatto e le condizioni morali
della famiglia in cui il minore è vissuto, tenendo
dunque conto "della specificità
della materia", invece nel caso del minore ultraquattordicenne
infermo di mente
l’applicazione della misura di sicurezza sarebbe subordinata
ai soli presupposti
richiesti in generale dagli artt. 203 e 206 cod. pen.,
e cioè all’accertamento della
pericolosità sociale generica;
che ciò comporterebbe, ad avviso del remittente,
una irragionevole equiparazione
della situazione dell’infermo di mente minorenne a quella
dell’infermo di mente
maggiorenne, nonché l’assenza di una adeguata
tutela dei diritti del minore,
soggetto debole e personalità in formazione, in
contrasto sia con i principi
costituzionali (artt. 2, 3 e 31 Cost.) che impongono
un trattamento differenziato
degli imputati minorenni rispetto agli adulti, sia con
l’art. 10 della Costituzione,
per la violazione delle norme delle dichiarazioni dei
diritti dell’uomo e del
fanciullo e delle cosiddette "regole di Pechino" (regole
minime per
l’amministrazione della giustizia minorile), da cui discenderebbero
impegni
internazionali volti ad assicurare un trattamento differenziato
al minore in
relazione alle esigenze di tutela del medesimo;
che la questione sarebbe rilevante in quanto il giudice
a quo procede nei confronti
di un imputato, all’epoca dei fatti minorenne, affetto
da vizio totale di mente,
che, alla stregua dei criteri di cui all’art. 37 del
d.P.R. n. 448 del 1988,
potrebbe essere considerato socialmente pericoloso;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, chiedendo
che la questione sia dichiarata infondata;
che, secondo l’interveniente, quale che sia la latitudine
del vuoto normativo
creatosi per effetto della sentenza n. 324 del 1998 di
questa Corte, che ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale delle
norme che prevedevano l’applicazione
della misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico
giudiziario ai minorenni
infermi di mente giudicati socialmente pericolosi, a
seguito di tale pronuncia non
sarebbe più dato di registrare un trattamento
indifferenziato per adulti e minori,
dovendosi al contrario ritenere che le specifiche esigenze
dell’età minorile siano
garantite proprio dalla impossibilità di applicare
nei confronti dei minori quella
misura che, nelle medesime ipotesi, trova applicazione
per gli adulti.
Considerato che il giudice a quo non sembra mettere in
discussione l’applicabilità,
in sé, della misura di sicurezza del riformatorio
giudiziario (da eseguire nelle
forme del collocamento in comunità) nei confronti
del minore non imputabile per
vizio totale di mente, ma lamenta solo l’asserita differenza
nei presupposti per
l’applicazione della misura, che sarebbero, nel caso
del minore ultraquattordicenne
infermo di mente, quelli generali previsti dagli artt.
203 e 206 del codice penale,
e non quelli specifici previsti dall’art. 37 del d.P.R.
n. 448 del 1988 e dall’art.
224 del codice penale, presupposti, questi ultimi, che
il remittente vorrebbe invece
vedere estesi all’ipotesi considerata;
che con sentenza n. 324 del 1998 questa Corte ha dichiarato
l’illegittimità
costituzionale dell’art. 222, primo comma, del codice
penale, ai cui sensi, nel caso
di proscioglimento per infermità psichica, è
ordinata, ove sussista la pericolosità
sociale dell’autore del fatto, la misura di sicurezza
del ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario, nella parte in cui ne prevedeva
l’applicazione anche ai
minori, nonché dell’art. 222, quarto comma, del
codice penale, che prevedeva
l’applicazione della stessa misura ai minori degli anni
quattordici o maggiori dei
quattordici e minori dei diciotto, infermi di mente,
e prosciolti per ragione di
età: risultando così non più utilizzabile
nei confronti degli imputati minorenni la
specifica misura di sicurezza che era prevista per il
caso di soggetti non
imputabili per vizio totale di mente;
che l’autorità remittente non spiega in base a
quale iter logico e interpretativo
ritiene di potere applicare nei confronti di un minorenne,
non imputabile per
infermità mentale, la misura di sicurezza del
riformatorio giudiziario;
che, d’altra parte, nemmeno si spiega, nell’ordinanza
di rimessione, perché,
prospettandosi – secondo le affermazioni dello stesso
giudice a quo – l’applicazione
della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario,
di cui all’art. 36, comma 2,
del d.P.R. n. 448 del 1988 e all’art. 224 del codice
penale, non risulterebbe invece
possibile fare riferimento ai presupposti che proprio
queste ultime norme
richiedono, in ogni caso, per l’applicazione di detta
misura speciale, prevista per
gli imputati minorenni;
che, pertanto, non risulta adeguatamente motivata la rilevanza
della questione, che
appare inoltre intimamente contraddittoria: onde essa
si palesa manifestamente
inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della l. 11 marzo 1953,
n. 87, e 9, secondo
comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione
di legittimità costituzionale
dell’art. 37 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione
delle disposizioni
sul processo penale a carico di imputati minorenni),
e dell’art. 224 del codice
penale (Minore non imputabile), sollevata, in riferimento
agli articoli 2, 3, 10 e
31 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni
di Messina con l’ordinanza in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta,
il 7 maggio 2001.
Fernando SANTOSUOSSO, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2001.
Sentenza
della Corte Costituzionale n. 323 del 21 luglio 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare MIRABELLI Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO Giudice
- Massimo VARI ”
- Cesare RUPERTO ”
- Riccardo CHIEPPA ”
- Gustavo ZAGREBELSKY ”
- Valerio ONIDA ”
- Carlo MEZZANOTTE ”
- Fernanda CONTRI ”
- Guido NEPPI MODONA ”
- Piero Alberto CAPOTOSTI ”
- Franco BILE ”
- Giovanni Maria FLICK ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
274, comma 1, lettera c, ultimo
periodo, del codice di procedura penale, come modificato
dall’art. 3, comma 2, della
legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura
penale in tema di
semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari
e di diritto di difesa), e
dell’art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione
delle disposizioni
sul processo penale a carico di imputati minorenni),
come sostituito dall’art. 42
del d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative
e correttive della
disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate),
promosso con
ordinanza emessa il 17 marzo 1999 dal Tribunale per i
minorenni di Milano, iscritta
al n. 424 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2000
il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un giudizio d’appello avverso il provvedimento
del Giudice per le
indagini preliminari che aveva respinto la richiesta
di applicazione della custodia
cautelare nei confronti di una minore arrestata in flagranza
del delitto di tentato
furto aggravato (punibile, tenendo conto della diminuzione
della pena base prevista
per il tentativo e della diminuente prevista per i minori
dall’art. 98 cod. pen.,
con la reclusione nel massimo inferiore a quattro anni),
il Tribunale per i
minorenni di Milano, con ordinanza emessa il 17 marzo
1999 e pervenuta a questa
Corte il 12 luglio 1999, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in
riferimento agli articoli 3, 13, 27 e 31 della Costituzione,
dell’art. 274, comma 1,
lettera c, ultimo periodo, del codice di procedura penale
– come modificato
dall’art. 3, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332
– e dell’art. 23 del d.P.R.
22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni
sul processo penale a
carico di imputati minorenni), “nella parte in cui non
prevedono che anche
all’imputato minorenne non sia applicabile la misura
cautelare qualora, pur
sussistendo il pericolo della reiterazione di fatti delittuosi
dello stesso tipo di
quelli per cui si procede, tale delitto sia punito con
pena inferiore nel massimo a quattro anni”.
Il remittente osserva che l’art. 23 del d.P.R. n. 448
del 1988 contiene una
disciplina speciale ed esaustiva dei presupposti per
l’applicazione della custodia
cautelare nei confronti dei minori, del tutto autonoma
da quella generale fissata in
proposito dal codice di procedura penale, e con la quale
il legislatore avrebbe
voluto regolare con maggior favore la misura restrittiva
nei confronti dell’imputato
minorenne. Perciò non sarebbe applicabile a quest’ultimo
l’art. 274 cod. proc. pen.,
e in particolare l’ultimo periodo del comma 1, lettera
c, come sostituito dall’art.
3, comma 2, della legge n. 332 del 1995, ove si stabilisce
che, se il pericolo
riguarda la commissione di delitti della stessa specie
di quello per cui si procede,
le misure di custodia cautelare possono essere disposte
soltanto se trattasi di
delitti per i quali è prevista la pena della reclusione
non inferiore nel massimo a
quattro anni.
Secondo il giudice a quo, pertanto, nei casi, come quello
di specie, di minore
imputato di tentato furto monoaggravato, per i quali
l’art. 23 del d.P.R. n. 448 del
1988 consente l’applicazione della custodia cautelare
(trattandosi del delitto
previsto dall’art. 380, comma 2, lettera e, cod. proc.
pen. a cui detto art. 23,
comma 1, fa riferimento), pur essendo la pena da infliggere
inferiore nel massimo a
quattro anni, si verificherebbe una disparità
di trattamento rispetto all’imputato
maggiorenne, per il quale non sarebbe consentita l’adozione
della misura della
custodia cautelare in carcere. Di conseguenza, l’art.
274, comma 1, lettera c,
ultimo periodo, del codice di procedura penale e l’art.
23 del d.P.R. n. 448 del
1988, nella parte in cui non prevedono il divieto di
applicazione della custodia
cautelare, nella ipotesi predetta, anche nei confronti
dell’imputato minorenne,
sarebbero in contrasto con gli articoli 3, 13, 27 e 31
della Costituzione.
2. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri, chiedendo
che la questione sia dichiarata in parte inammissibile
per irrilevanza, e comunque
infondata.
Secondo l’Avvocatura erariale, posto che, come il remittente
stesso riconosce, le
norme del codice di procedura penale, con specifico riferimento
all’art. 274, non si
applicano ai minorenni, per i quali la custodia cautelare
è disciplinata
completamente dall’art. 23 del d.P.R. n. 448 del 1988,
la questione sollevata nei
riguardi di detto art. 274 sarebbe priva di rilevanza.
La questione avente ad oggetto l’art. 23 del d.P.R. n.
448 del 1988 sarebbe invece
infondata. Non sussisterebbe infatti la violazione dell’art.
3 della Costituzione,
poiché la differenza delle situazioni disciplinate
giustificherebbe il diverso
trattamento normativo: la disciplina censurata sarebbe
razionale, poiché la misura
cautelare applicata al minore, a differenza di quelle
previste per i maggiorenni dal
codice di rito, sarebbe disposta con le cautele di cui
all’art. 19, comma 3, del
d.P.R. n. 448 (secondo il quale “quando è disposta
una misura cautelare, il giudice
affida l’imputato ai servizi minorili dell’amministrazione
della giustizia, i quali
svolgono attività di sostegno e controllo in collaborazione
con i servizi di
assistenza istituiti dagli enti locali”).
Non sarebbe poi dato di vedere in che cosa consista la
denunciata violazione
dell’art. 13 Cost., che si limita a prevedere una riserva
di legge ordinaria per le
misure restrittive della libertà personale; né
dell’art. 27 Cost., essendo
l’impugnato art. 23 parte di un sistema nel quale sono
particolarmente esaltate le
caratteristiche delle pene volute dal secondo comma del
medesimo art. 27; né,
infine, dell’art. 31, rispetto al quale il Tribunale
non indica in alcun modo in che
cosa consisterebbe la pretesa violazione.
Considerato in diritto
1. – La questione sollevata investe sia l’art. 274, comma
1, lettera c, ultimo
periodo, del codice di procedura penale che, nel testo
modificato dall’art. 3, comma
2, della legge 8 agosto 1995, n. 332, consente l’applicazione
delle misure di
custodia cautelare, allorché l’esigenza cautelare
consista nel pericolo di
reiterazione di reati della stessa specie, solo quando
si tratti di delitti per i
quali è prevista la pena della reclusione non
inferiore nel massimo a quattro anni,
sia l’art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione
delle disposizioni
sul processo penale a carico di imputati minorenni),
come sostituito dall’art. 42
del d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative
e correttive della
disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate),
che, nel prevedere
la possibilità di disporre la custodia cautelare
del minorenne per il pericolo di
reiterazione di delitti della stessa specie, non contiene
analoga limitazione
relativa alla pena per questi prevista. Le due disposizioni
sono censurate “nella
parte in cui non prevedono che anche all’imputato minorenne
non sia applicabile la
misura cautelare qualora, pur sussistendo il pericolo
di reiterazione di fatti
delittuosi dello stesso tipo di quelli per cui si procede,
tale delitto sia punito
con pena inferiore nel massimo a quattro anni”. Secondo
il giudice a quo, dette
disposizioni sarebbero in contrasto con l’art. 3 della
Costituzione, per la
disparità di trattamento fra imputati minorenni
e maggiorenni, nonché con gli
articoli 13, 27 e 31 della Costituzione: ma a tal proposito
l’ordinanza non contiene
alcuna argomentazione a supporto delle censure formulate.
2. – La questione non è fondata, in quanto non
è condivisibile il presupposto
interpretativo sul quale essa si basa.
Il remittente muove dalla premessa che l’innovazione
restrittiva recata dall’art. 3,
comma 2, della legge n. 332 del 1995 alla lettera c dell’art.
274, comma 1, del
codice di procedura penale – a seguito della quale può
disporsi una misura cautelare
motivata dal pericolo di commissione di delitti della
stessa specie di quello per
cui si procede, solo se trattasi di delitti per i quali
è prevista la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni –
non possa trovare applicazione
nei confronti dei minorenni. Infatti, secondo il giudice
a quo, l’art. 23 del d.P.R.
n. 448 del 1988, che disciplina la custodia cautelare
nell’ambito del procedimento
penale minorile, conterrebbe una disciplina esaustiva
della materia tale da
escludere l’applicazione, nei confronti dei minori, delle
norme dettate dal codice
di rito per gli indagati maggiorenni, e dunque anche
dell’art. 274, comma 1, lettera
c, e dell’integrazione ad esso recata dalla legge n.
332 del 1995.
Ma non si può omettere di considerare, in primo
luogo, che il legislatore ha inteso
stabilire, nei riguardi dei minori, una disciplina della
custodia cautelare più
limitativa rispetto a quella dettata per gli indagati
maggiorenni: in conformità al
criterio del favor minoris che domina anche la materia
penale, nonché alle direttive
internazionali relative al diritto penale minorile, ispirate
al principio per cui il
ricorso alla custodia in carcere per i minori non può
che rappresentare una ultima
ratio cui far ricorso solo quando ciò risulti
strettamente indispensabile (cfr.
sentenze n. 46 del 1978, n. 125 del 1992, n. 109 del
1997). Del resto, i criteri
della delega conferita al Governo per la disciplina del
processo minorile (art. 3,
comma 1, della legge n. 81 del 1987) prevedevano che
questa si conformasse ai
“principi generali del nuovo processo penale, con le
modificazioni ed integrazioni
imposte dalle particolari condizioni psicologiche del
minore, dalla sua maturità e
dalle esigenze della sua educazione”, nonché dall’attuazione
degli elencati criteri
specifici: tra i quali molti sono proprio indirizzati
verso una disciplina meno
severa per i minori (cfr., ad es., lettere f, h, i),
e nessuno, invece, appare
autorizzare trattamenti più severi di quelli contemplati
in generale dal codice.
Ciò era del tutto evidente nell’assetto originario
della normativa delegata, in cui
si prevedevano condizioni per l’applicazione ai minori
delle misure cautelari in
genere (con riferimento ai delitti per i quali la legge
stabilisce la pena della
reclusione superiore nel massimo a cinque anni: art.
19, comma 4, del d.P.R. n. 448
del 1988), e in ispecie per l’applicazione della custodia
cautelare (con riferimento
ai delitti per i quali la legge stabiliva la pena della
reclusione non inferiore nel
massimo a dodici anni: art. 23, comma 1, dello stesso
d.P.R., nel testo originario)
di gran lunga più restrittive di quelle previste
dal codice di rito per
l’applicazione delle misure coercitive (con riferimento
ai delitti per i quali la
legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel
massimo a tre anni, salvi i
casi previsti dall’art. 391 cod. proc. pen. nella ipotesi
di arresto in flagranza:
art. 280, comma 1, cod. proc. pen., in conformità
a quanto stabilito dalla direttiva
n. 59 contenuta nell’art. 2, comma 1, della legge di
delega n. 81 del 1987). Ma la
situazione non è cambiata, sotto questo punto
di vista, nemmeno dopo che la novella
del 1991 (art. 42 del d. lgs. 14 gennaio 1991, n. 12)
– peraltro emanata in base
alla delega per la integrazione e correzione della già
intervenuta legislazione
delegata, e quindi necessariamente informata agli stessi
originari criteri direttivi
(cfr. art. 7 della legge n. 81 del 1987) – ha allargato
notevolmente le condizioni
per l’applicabilità ai minori della custodia cautelare,
portando a nove anni il
limite di pena massima già fissato in dodici anni
dalla prima parte del comma 1
dell’art. 23, e introducendo l’ulteriore facoltà
di disporre la custodia cautelare
quando si proceda per uno dei delitti previsti dall’art.
380, comma 2, lettere e, f,
g, h, del codice di procedura penale, nonché per
il delitto di violenza carnale
(così, si noti, introducendo nel sistema apparentemente
“chiuso” delle norme sulle
misure cautelari nei confronti dei minori un ulteriore
rinvio, sia pure puntuale, a
norme del codice). I reati cui si faceva riferimento
restavano infatti pur sempre
delitti puniti con pene massime superiori al limite posto
dall’art. 280, comma 1,
cod. proc. pen., e cioè tre anni di reclusione.
In siffatto sistema, caratterizzato da una disciplina
invariabilmente di maggior
favore per i minorenni rispetto a quella generale, sono
intervenute le nuove norme
recate dalla legge n. 332 del 1995, che, oltre a stabilire
la nuova più elevata
soglia di pena massima prevista (non inferiore a quattro
anni di reclusione) per
l’applicazione della custodia cautelare in carcere (art.
280, comma 2, cod. proc.
pen.), hanno introdotto l’ulteriore limite specifico
per l’ipotesi di applicazione
delle misure cautelari (in genere) motivata dal pericolo
di commissione di nuovi
delitti della stessa specie di quelli per cui si procede:
che si tratti, cioè, di
delitti puniti con pena non inferiore nel massimo a quattro
anni (art. 274, comma 1,
lettera c, cod. proc. pen.).
Si tratta di un limite di specie diversa dagli altri,
parametrato com’esso è non al
trattamento penale del delitto per il quale si procede
– come sembra invece ritenere
il giudice a quo – ma a quello dei delitti della stessa
specie la cui commissione si
intende scongiurare; e di un limite che non trova alcun
riscontro né alcuna
corrispondenza nelle specifiche previsioni del decreto
sul processo minorile (a
differenza, si può aggiungere, degli altri limiti
di pena previsti nella stessa
materia).
Quale che sia dunque, in generale, la ricostruzione che
si debba effettuare dei
rapporti fra norme del codice e norme del decreto sul
processo minorile, trattandosi
in questo caso di una norma specifica di maggior favore
per i possibili destinatari
delle misure cautelari, introdotta ex novo a distanza
di tempo dal momento in cui
furono delineate le due parallele discipline del codice
e del decreto sul processo
minorile, e al di fuori, com’è evidente, di ogni
intento legislativo di revisione
dei rapporti fra le due discipline, si deve ritenere
che essa sia applicabile anche
agli indagati minori, in base al principio, seguito dallo
stesso legislatore e
conforme ai principi costituzionali e internazionali,
del favor minoris. In assenza,
infatti, di ostacoli testuali insuperabili, e dovendosi
procedere ad una
interpretazione sistematica, non può non darsi
rilievo preminente, nella
ricostruzione della disciplina, ai criteri di fondo che
la ispirano, fra cui quello
appunto del trattamento più favorevole per l’indagato
minorenne.
3. – Così ricostruito il quadro normativo, ed affermata
l’applicabilità del nuovo
testo dell’art. 274, comma 1, lettera c, secondo periodo,
del codice di procedura
penale anche ai minorenni, non ha motivo di porsi la
questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale per i minorenni
di Milano.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 274, comma
1, lettera c, ultimo periodo, del codice di procedura
penale e dell’art. 23 del
d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle
disposizioni sul processo
penale a carico di imputati minorenni), come sostituito
dall’art. 42 del d.lgs. 14
gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive
della disciplina
processuale penale e delle norme ad essa collegate),
sollevata, in riferimento agli
articoli 3, 13, 27 e 31 della Costituzione, dal Tribunale
per i minorenni di Milano
con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta,
l'11 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in cancelleria il 21 luglio 2000.
Sentenza
della Corte Costituzionale n. 359 del 16 luglio 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare MIRABELLI Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO Giudice
- Massimo VARI ”
- Cesare RUPERTO ”
- Riccardo CHIEPPA ”
- Gustavo ZAGREBELSKY ”
- Carlo MEZZANOTTE ”
- Fernanda CONTRI ”
- Guido NEPPI MODONA ”
- Piero Alberto CAPOTOSTI ”
- Franco BILE ”
- Giovanni Maria FLICK ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
23, comma 2, lettera b, del
d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle
disposizioni sul processo
penale a carico di imputati minorenni), promosso con
ordinanza emessa il 27 marzo
1999 dal Giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale per i minorenni di
L’Aquila, iscritta al n. 375 del registro ordinanze 1999
e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale,
dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2000
il Giudice relatore Valerio
Onida.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza emessa il 27 marzo 1999, pervenuta
a questa Corte l’11 giugno
1999, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
per i minorenni di
L’Aquila ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli
articoli 76 e 77 della Costituzione, e in relazione all’art.
3, comma 1, lettera h,
della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa
al Governo della Repubblica
per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale),
dell’art. 23, comma 2,
lettera b, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione
delle disposizioni sul
processo penale a carico di imputati minorenni).
Il Giudice remittente premette di essere chiamato a decidere
su una istanza di
applicazione della custodia cautelare nei confronti di
un minore arrestato nella
quasi flagranza del delitto di furto aggravato da violenza
sulle cose; di ritenere
che nella specie sussistano gravi indizi di colpevolezza,
che non vi sia né il
pericolo di reiterazione di reati della stessa indole,
né quello di inquinamento
probatorio; e che l’identità fisica del prevenuto
sia certa, ma che sussista invece
il pericolo concreto che egli si dia alla fuga.
Osserva il giudice a quo che l’art. 3, comma 1, della
legge n. 81 del 1987, di
delega per l’emanazione del codice di procedura penale,
nel dettare i criteri per la
disciplina del processo a carico di imputati minorenni,
reca, alla lettera h, la
seguente direttiva: “potere del giudice di disporre la
custodia in carcere solo per
delitti di maggiore gravità e sempre che sussistano
gravi e inderogabili esigenze
istruttorie ovvero gravi esigenze di tutela della collettività”.
L’art. 23 del
d.P.R. n. 448 del 1988, nel disciplinare la facoltà
del giudice di disporre la
custodia cautelare, ha previsto invece come condizioni
facoltizzanti, al comma 2, i
tre classici pericula libertatis – pericolo di reiterazione
di reati della stessa
specie, pericolo di inquinamento probatorio e pericolo
di fuga – in perfetta
concordanza con quanto stabilito (in quel caso, però,
conformemente ai criteri di
delega dettati per i maggiorenni) dall’art. 274 del codice
di procedura penale.
Secondo il remittente, l’esplicito criterio più
restrittivo dettato dal legislatore
delegante per gli indagati minorenni deve ritenersi una
scelta di politica
legislativa; né potrebbe farsi rientrare il pericolo
di fuga nell’ambito delle
“gravi esigenze di tutela della collettività”
di cui è parola nell’art. 3, comma 1,
lettera h, della legge di delega, poiché questa
formula è sempre riferita,
nell’ordinamento penale, al pericolo di reiterazione
dei reati; e d’altra parte, se
non si fosse voluto escludere il pericolo di fuga dal
novero delle condizioni che
rendono possibile l’applicazione della custodia cautelare,
la disposizione che detta
i criteri particolari nei confronti dei minorenni sarebbe
superflua, mentre
l’eccezione da essa prevista rispetto ai criteri generali
deve intendersi secondo il
principio interpretativo ubi lex voluit dixit, ubi noluit
tacuit.
Sussiste pertanto, ad avviso del giudice a quo, violazione
dei criteri della delega,
onde l’art. 23, comma 2, lettera b, del d.P.R. n. 448
del 1988 dovrebbe essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo.
2. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri,
concordando con le argomentazioni del remittente. L’Avvocatura
erariale osserva che
effettivamente la lettera della legge delegante è
chiara nel senso di non prevedere
il pericolo di fuga fra le condizioni che consentono
l’adozione della misura della
custodia cautelare nei confronti dei minori, né
il pericolo di fuga può farsi
rientrare fra le “gravi esigenze di tutela della collettività”.
Il carattere dieccezionalità
che il legislatore delegante ha impresso al ricorso alla
custodia cautelare nei confronti
del minore, e la materia in cui si versa, della libertà
personale, escluderebbero una i
nterpretazione estensiva dei criteri della delega.
Anche attraverso una valutazione sistematica e comparativa
della disciplina in esame
in rapporto ai criteri dettati per i maggiorenni, per
i quali si è previsto
espressamente il pericolo di fuga come condizione che
consente l’adozione della
misura (art. 2, comma 1, n. 59, della legge n. 81 del
1987), sarebbe confermata la
diversità dei criteri di delega stabiliti per
gli indagati minorenni, e di
conseguenza la violazione dell’art. 76 della Costituzione
denunciata dal giudice a quo.
Considerato in diritto
1. – La questione sollevata investe l’art. 23, comma 2,
lettera b, del d.P.R. 22
settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni
sul processo penale a carico
di imputati minorenni), come sostituito dall’art. 42
del d.lgs. 14 gennaio 1991, n.
12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina
processuale penale e
delle norme ad essa collegate), che consente al giudice
di disporre la custodia
cautelare nei confronti del minorenne “se l’imputato
si è dato alla fuga o sussiste
concreto pericolo che egli si dia alla fuga”. Di tale
previsione del decreto
delegato viene denunciato il contrasto con i principi
e criteri direttivi contenuti
nella legge di delega, che prevedeva la “facoltatività
di misure cautelari
personali” e il “potere del giudice di disporre la custodia
in carcere solo per
delitti di maggiore gravità e sempre che sussistano
gravi e inderogabili esigenze
istruttorie ovvero gravi esigenze di tutela della collettività”
(art. 3, comma 1,
lettera h, della legge 16 febbraio 1987, n. 81), escludendo
dunque il pericolo di
fuga dal novero delle condizioni che abilitano all’adozione
della misura
restrittiva. Si censura pertanto la violazione dell’art.
76 (e dell’art. 77) della Costituzione.
2. – La questione è fondata.
Come osserva il remittente, e come rileva anche la difesa
del Presidente del
Consiglio, i criteri direttivi dettati dal legislatore
per la disciplina del
processo minorile sono chiari nel senso di consentire
il ricorso alla custodia in
carcere solo quando sussistano gravi e inderogabili esigenze
istruttorie ovvero
sussistano “gravi esigenze di tutela della collettività”
(art. 3, comma 1, lettera
h, della legge di delega n. 81 del 1987). Il pericolo
di fuga – esplicitamente
previsto come condizione che giustifica il ricorso a
misure preventive di
coercizione personale, nel caso di indagati adulti, dall’art.
274, comma 1, lettera
b, del codice di procedura penale, in conformità
a quanto previsto a sua volta dalla
direttiva n. 59 contenuta nell’art. 2, comma 1, della
legge di delega n. 81 del 1987
– non è dunque compreso fra i presupposti che
consentono la custodia in carcere dei
minorenni. Né esso potrebbe ritenersi riconducibile
alle “gravi esigenze di tutela
della collettività”, le quali attengono al diverso
pericolo della commissione di
nuovi reati, e non possono identificarsi col semplice
rischio che l’indagato si
sottragga con la fuga all’applicazione della pena per
il reato già ascritto a suo carico.
La diversa disciplina prevista dal legislatore delegante,
rispettivamente per gli
indagati maggiorenni e per quelli minori di età,
discende presumibilmente dal
disfavore del legislatore per l’utilizzo del carcere
nei confronti dei minori, anche
in coerenza con i principi affermati a livello internazionale
riguardo al diritto
penale minorile. In ogni caso, la scelta del delegante
non poteva essere disattesa
dal legislatore delegato: il quale invece, nel prevedere,
nell’art. 23 del d.P.R. n.
448 del 1988, le condizioni che abilitano a disporre
la custodia cautelare, ha
pedissequamente ricalcato le tracce dell’art. 274 del
codice di procedura penale,
senza tener conto della diversità dei criteri
direttivi che la legge di delega imponeva di seguire.
Con ciò il legislatore delegato ha però
violato i criteri della delega, consentendo
il ricorso alla custodia in carcere per i minori in una
ipotesi nella quale la
delega non lo prevedeva: la relativa disciplina è
dunque illegittima per contrasto con l’art. 76
della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art.
23, comma 2, lettera b, del
d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle
disposizioni sul processo
penale a carico di imputati minorenni), come sostituito
dall’art. 42 del d.lgs. 14
gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive
della disciplina
processuale penale e delle norme ad essa collegate).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta,
il 12 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in cancelleria il 26 luglio 2000.
Sentenza della Corte Costituzionale n. 436 del 10 dicembre 1999
LA CORTE COSTITUZIONALE
(...)
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità
costituzionale dell'art. 58-quater
della legge 26 luglio 1975, n. 354 [1] (Norme sull'ordinamento penitenziario
e sull'esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà),promosso con ordinanza
emessa il 6 aprile 1998 dal
Tribunale per i minorenni di Palermo, iscritta al n. 3 del registroordinanze
1999 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno
1999.
Udito nella camera di consiglio del 13 ottobre 1999 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1. — Il Tribunale per i minorenni di Palermo, investito di un reclamo avverso
la concessionead un
condannato minorenne di un permesso premio —che, stante l'avvenuta revoca,
a carico del
detenuto, dell'affidamentoin prova al servizio sociale, si assumeva concesso
in violazione dell'art.
58-quater, commi 2 e 3, della legge26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento
penitenziario e
sull'esecuzione delle misure privative e limitativedella libertà),
ai cui sensi non può fruire di
assegnazione al lavoro all'esterno, di permessi premioe di affidamento
in prova il condannato a cui
sia stata revocata una misura alternativa (affidamento in prova,detenzione
domiciliare, semilibertà),
per la durata di tre anni dalla revoca medesima — ha sollevato, conordinanza
emessa il 6 aprile
1998, pervenuta a questa Corte il 4 gennaio 1999, questione di legittimitàcostituzionale,
in
riferimento agliarticoli 27 e 31 della Costituzione [2], di detto art.
58-quater nella parte in cui
essosi applica ai condannati di età minore.
Il remittente, dopo aver ricordato che ai sensi dell'art. 79 dell'ordinamento
penitenziario lenorme di
quest'ultimo si applicano, fino a quando non si sia provveduto con apposita
legge, anche nei
confrontidei condannati minorenni, rileva che il divieto in questione,
se applicato ai minori,
confligge con i principi—garantitidagli artt. 27 e 31 della Costituzione
e tutelati dalla dichiarazione
dell'ONU del 20 novembre 1959 e dall'art.40 della convenzione sui diritti
del fanciullo del 20
novembre 1989 —che ispirano il diritto minorile, volto alrecupero e alla
risocializzazione dei
minori devianti, esigenze che comporterebbero la necessità di differenziareil
trattamento dei
medesimi rispetto ai detenuti adulti, ed escluderebbero che si possa applicare
ai medesimi unrigido
automatismo.
Il giudice a quo invoca in proposito quanto statuito da questa Corte, in
relazione ad
analoghequestioni, nelle sentenze n.' 125 del 1992 e n. 109 del 1997, secondo
cui l'assoluta
parificazione tra adulti eminori in questa materia può confliggere
con le esigenze di specifica
individualizzazione e di flessibilitàdel trattamento dei detenuti
minorenni: esigenze compromesse
da un rigido automatismo che non consenta al giudicealcuna valutazione
in concreto della condotta
del minore ed una prognosi individualizzata circa l'efficacia risocializzante,in
concreto, della misura
proposta.
2.—Non vi è stata costituzione di parti né intervento del Presidente del Consigliodei ministri.
Considerato in diritto
1. — La questione sollevata investe l'art. 58-quater della legge 26 luglio
1975, n. 354
(Normesull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative
e limitative della
libertà), e specificamente—ancorchéciò non risulti
in modo espresso dal dispositivo dell'ordinanza,
ma dalla sua motivazione — il dispostodei commi 2 e 3 di detto articolo,
ai cui sensi al detenuto al
quale sia stata revocata una misura alternativa(affidamento in prova ai
servizi sociali, detenzione
domiciliare, semilibertà) non possono essere concessi,per un periodo
di tre anni dalla emissione del
provvedimento di revoca, l'assegnazione al lavoro all'esterno, ipermessi
premio, l'affidamento in
prova "ordinario" (di cui all'art. 47 dell'ordinamento penitenziario),la
detenzione domiciliare e la
semilibertà. Più precisamente, la questione proposta investe
la statuizionedel comma 2, che
sancisce la predetta preclusione, mentre il comma 3, che determina solo
la durata della
preclusionemedesima, non è oggetto di autonome censure. Il dubbio
di legittimità costituzionale
riguarda talenorma nella parte in cui si applica ai condannati minorenni.
Il Tribunale remittente ritiene che il divieto, applicato ai minori, sia
in contrasto con i principidi
rieducatività della pena e di protezione dei minori, di cui agli
articoli 27, terzo comma, e 31,
secondocomma, della Costituzione, in quanto introduce un rigido automatismo,
impedendo una
valutazione in concreto inordine alla concedibilità della misura,
e così compromettendo le esigenze
di individualizzazionee di flessibilità che, secondo la giurisprudenza
di questa Corte, e anche alla
luce della dichiarazioneONU dei diritti del fanciullo in data 20 novembre
1959 e della convenzione
in data 20 novembre 1989 sui dirittidel fanciullo, resa esecutiva in Italia
con la legge 27 maggio
1991, n. 176 (art. 40), devono caratterizzare ladisciplina dell'esecuzione
della pena nei riguardi del
minore.
2.—L'art. 58-quater dell'ordinamento penitenziario— introdotto dall'art.
1 del decreto legge13
maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio
1991, n. 203, e
successivamente integratodall'art. 14 del decreto legge 8 giugno 1992,
n. 306—dispone al comma 1
il divieto di concessione di una seriedi benefici penitenziari (assegnazione
al lavoro all'esterno,
permessi premio, affidamento in prova al serviziosociale nei casi previsti
dall'art. 47, detenzione
domiciliare, semilibertà) al condannato per delitti previstidall
' art. 4-bis, comma 1, dello stesso
ordinamento, che abbia posto in essere una condotta punibile a norma dell'art.385
cod. pen.,
concernente il reato di evasione. Il comma 2 a sua volta prevede che la
disposizione del comma 1"si
applica anche al condannato nei cui confronti è stata disposta la
revoca di una misura alternativaai
sensi dell'art. 47, comma 11, dell'art. 47-ter, comma 6, o dell'art. 51,
primo comma": le ipotesi di
revocasono relative all'affidamento in prova al servizio sociale e alla
detenzione domiciliare, quando
il comportamentodel soggetto appaia "incompatibile con la prosecuzione"
della prova o della
misura; alla semilibertà,quando "il soggetto non si appalesi idoneo
al trattamento". Il comma 3,
relativo ad entrambe le ipotesidei primi due commi, stabilisce che il divieto
opera per un periodo di
tre anni dal momento in cui è ripresal'esecuzione della custodia
o della pena o è stato emesso il
provvedimento di revoca di cui al comma 2.
Il Tribunale remittente non si sofferma a precisare la portata del comma
2, ma, date le
caratteristichedel caso ad esso sottoposto, si deve supporre che esso abbia
aderito
all'interpretazione, sostenuta in giurisprudenzae discussa in dottrina,
secondo cui il divieto ivi
stabilito concerne tutti i condannati, e non solo i condannatiper delitti
di cui all'art. 4-bis, comma 1,
dell'ordinamento penitenziario, cui si riferisce invece il comma 1.In ogni
caso, e quale che sia la
portata della norma, la questione proposta, concernente l'applicabilitàdella
stessa ai minori, deve
essere affrontata nel merito, stante la non implausibilità della
interpretazioneaccennata.
Benché poi, nella specie, il divieto fosse invocato per contrastare
la concessione diun permesso
premio ad un detenuto cui era stato revocato l'affidamento in prova, la
questione è sollevatadal
giudice a quo con riguardo al disposto dei commi 2 e 3 dell'art. 58-quater
nel suo complesso
(sempre limitatamentealla sua applicabilità ai condannati minorenni):
e d'altra parte si tratta di una
previsione che consideracongiuntamente, senza distinzioni di sorta, da
un lato le tre misure
alternative la cui revoca fa scattare la preclusionetriennale, dall'altro
l'insieme dei benefici
penitenziari la cui concessione resta temporaneamente preclusa. Ondela
pronuncia di questa Corte
deve aver riguardo al contenuto normativo citato, nella sua portata complessiva:
ilche non esclude
che eventuali divieti più puntuali—come ad esempio quello che riguardasse
solo una
nuovaconcessione della stessa misura revocata, prima che sia trascorso
un certo tempo—ove
ipoteticamente disposti dallegislatore, possano essere oggetto di diversa
considerazione
3. —La questione è fondata.
Più volte questa Corte ha dovuto censurare, nella parte in cui si
applicavano
indiscriminatamenteanche ai detenuti minorenni, norme dell'ordinamento
penitenziario, o di altre
leggi, che stabilivano specifichepreclusioni alla concessione di benefici
penitenziari o di sanzioni
alternative, in quanto, per detta parte, esseapparivano in contrasto con
i principi costituzionali in
tema di applicazione e di esecuzione delle pene e dellemisure restrittive
nei confronti dei minori,
che, nelle situazioni prese in esame, esigevano una disciplina fondatasu
valutazioni flessibili e
individualizzate circa la idoneità e la opportunità delle
diverse misureper perseguire i fini di
risocializzazione del condannato minore, nel rispetto delle specifiche
caratteristichedella sua
personalità (cfr. sentenze n. 168 del 1994, n. 109 e n. 403 del
1997, n. 16, n. 324 e n. 450 del1998).
Per quanto riguarda, in particolare, l'applicazione delle misure alternative
e degli altri
beneficiprevisti dall'ordinamento penitenziario, da tempo questa Corte
ha avvertito come l'esigenza
di una disciplina specialeper i minori — solo occasionalmente introdotta
dal legislatore (cfr. ad
esempio l'art. 30-ter, comma 2, del medesimoordinamento, in tema di durata
dei permessi
premio)—sia contraddetta dalla perdurante inerzia legislativa nel darvita
a quella "apposita legge",
nella cui attesa l'art. 79 della legge n. 354 del 1975, richiamato anchedal
Tribunale remittente,
prevede che le norme della stessa legge si applichino anche nei confronti
dei minoridegli anni
diciotto sottoposti a misure penali.
Di tale situazione, nata come transitoria in vista della legge esplicitamente
preannunciata,ma
protratta nella sua attualità in forza dell ' omissione legislativa,
questa Corte ha già annior sono
denunciato la disarmonia rispetto ai principi costituzionali (sentenza
n. 125 del 1992; e cfr. anche
sentenzen. 168 del 1994, n. 107 del 1997). Poiché peraltro l'applicabilità
ai minori dell'ordinamento
penitenziario"generale" discende, normativamente, non tanto dalla clausola
citata della legge n. 354
del 1975, quantodall ' assenza di una legislazione ad hoc, nella cui mancanza
si espande
naturalmente la portata generale dellenorme di quell'ordinamento, e poiché
non può questa Corte
ovviare all'assenza dell' "appositalegge", operando le scelte necessarie
per dar vita ad un organico
ordinamento penitenziario minorile, nonresta—fino a quando il legislatore
non adempia all'obbligo
di emanare la legge preannunciata ormai da venti anni—checontinuare ad
intervenire sulle singole
disposizioni dell'ordinamento penitenziario comune incompatibili con leesigenze
costituzionali del
diritto penale minorile.
4. — Siffatta incompatibilità sussiste anche a riguardo della norma oggi denunciata.
Un divieto generalizzato e automatico, di durata triennale, di concessione
di tutti i
beneficipenitenziari elencati, in conseguenza della revoca di una qualunque
delle misure alternative
dell'affidamento inprova, della detenzione domiciliare e della semilibertà,
contrasta in effetti con il
criterio, costituzionalmentevincolante, che esclude siffatti rigidi automatismi,
e richiede sia resa
possibile invece una valutazione individualizzatae caso per caso, in presenza
delle condizioni
generali costituenti i presupposti per l'applicazione della misura,della
idoneità di questa a
conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono
presiedereall'esecuzione penale
minorile. Può bene essere infatti che, nonostante la revoca della
misura alternativa,intervenuta in
quanto il comportamento del soggetto sia apparso "incompatibile con la
prosecuzione della
prova"(art. 47, comma 11) o "incompatibile con la prosecuzione delle misure"
(art. 47-ter, comma
6), ovveroin quanto il soggetto non si sia palesato "idoneo al trattamento"
di semilibertà (art. 51,
primocomma)—a seguito dunque di valutazioni inerenti solo alla compatibilità
della singola misura
revocata —,la situazione concreta del giovane condannato faccia ritenere
utile ed adatta
l'applicazione di una od altra dellemisure previste dall'ordinamento al
fine di favorire il
reinserimento sociale dei detenuti, che sarebbero inveceprecluse, per un
lungo periodo, dall operare
della norma censurata in questa sede Ciò ben s'intende, ovesussistano
i presupposti e le condizioni
richiesti in via generale dalla legge per l'applicazione di tale misura,e
sempre che l'autorità
giudiziaria competente pervenga ad un apprezzamento positivo nell'ambito
delle
vaLutazionidiscrezionali ad essa demandate.
5. — Deve pertanto essere dichiarata la illegittimità costituzionale
del comma 2 dell'art.58-quater
dell'ordinamento penitenziario—da cui discende il divieto di concessione
delle misure di cui al
comma1 ai condannati nei cui confronti sia stata revocata una delle misure
alternative previste dal
comma 2, per ilperiodo triennale stabilito dal comma 3 —, nella parte in
cui si riferisce ai
minorenni. Una volta caduto, in partequa, il comma 2, il successivo comma
3, pure compreso
nell'oggetto della questione, ma che si limita a fissarela durata della
preclusione prevista dai commi
1 e 2, sopravvive con un contenuto non più riferibile allapreclusione
di cui al comma 2 nei
confronti dei minori, espunta dall'ordinamento in forza della presente
pronunciadi illegittimità
costituzionale.
Per questi motivi
la Corte costituzionale
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 58-quater, comma
2, della legge 26luglio 1975, n. 354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative
e limitativedella
libertà), nella parte in cui si riferisce ai minorenni.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il22 novembre
1999. Depositata in cancelleria il 1° dicembre 1999.
NOTE
1. L'articolo 58-quater della
legge 26 luglio 1975, n. 354
2. Ecco i testi degli articoli
27 e 31 della Costituzione.
L’imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna
Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al
Non è ammessa la pena di
morte, se non nei casi previsti dalle
L'articolo 31: " La Repubblica agevola
con misure economiche
Protegge la maternità, l’infanzia
e la gioventù, favorendo gli
|
Sentenza
della Corte Costituzionale n. 324 del 24 luglio 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Prof. Giuliano VASSALLI Presidente
- Prof. Cesare MIRABELLI Giudice
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO "
- Avv. Massimo VARI "
- Dott. Cesare RUPERTO "
- Dott. Riccardo CHIEPPA "
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY "
- Prof. Valerio ONIDA "
- Prof. Carlo MEZZANOTTE "
- Avv. Fernanda CONTRI "
- Prof. Guido NEPPI MODONA "
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Prof. Annibale MARINI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 206 e 222, quarto comma, del codice
penale e dell’art. 312 del codice
di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 9
aprile 1997 dal Giudice per le
indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di
Brescia, iscritta al n. 499 del
registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 35, prima serie
speciale, dell’anno 1997.
Visto l’atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio
del 25 marzo 1998 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale per i minorenni
di Brescia, in funzione di Giudice per le indagini
preliminari, nel corso di un procedimento
a carico di una minorenne imputata di omicidio
preterintenzionale, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli
articoli 2, 3, 10, 27 e 31 della
Costituzione, dell'art. 222, quarto comma, del codice penale
nonché, in quanto applicabili
ai minori, degli artt. 206 cod. pen. e 312 cod. proc. pen.,
"nella parte in cui prevedono la
misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario di minore prosciolto
ex art. 88 cod. pen. per delitto non colposo punibile con pena
superiore a due anni di reclusione
e giudicato socialmente pericoloso, ovvero l'applicazione
provvisoria della predetta misura".
Il remittente premette che il pubblico
ministero ha richiesto il rinvio a giudizio
dell'imputata, e che il consulente
tecnico, nel corso delle indagini preliminari, concludeva
per la totale incapacità
della stessa per vizio di mente al momento del fatto, allegando
altresì un giudizio di pericolosità
sociale: conclusioni che il giudicante ritiene
condivisibili.
Premette poi che il pubblico ministero
ha chiesto l'applicazione provvisoria della misura di
sicurezza del ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario, ai sensi del combinato disposto
degli artt. 206 e 222, quarto comma,
cod. pen. e 312 cod. proc. pen., contestualmente
prospettando una eccezione di legittimità
costituzionale delle stesse norme; e osserva che non
può farsi ricorso all'art.
425 cod. proc. pen., che prevede la dichiarazione di non doversi
procedere per mancanza di imputabilità
derivante da vizio di mente, in quanto la sentenza n. 41
del 1993 di questa Corte costituzionale
ha statuito l'impossibilità di tale declaratoria senza
il supporto di un'indagine di merito.
Il giudice a quo dichiara di aderire
all'opinione del pubblico ministero circa la
inapplicabilità alla specie
delle norme, di natura squisitamente processuale, degli artt. 36 e
seguenti del d.P.R. n. 448 del
1988, e di ritenere applicabili nei confronti dei minori le
misure di sicurezza che trovano
la loro disciplina al di fuori della normativa speciale sul
processo minorile, fra le quali
è compreso il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario.
Così ritenuta la rilevanza
della questione, posto che si procede nei confronti di un imputato
minorenne affetto da vizio di mente
e da reputarsi socialmente pericoloso, il remittente
richiama la necessità che
il trattamento penale degli imputati minorenni sia adeguatamente
differenziato rispetto a quello
degli adulti, ricordando in proposito la sentenza di questa
Corte n. 168 del 1994, che ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale della previsione della
pena dell'ergastolo per i minorenni.
Osserva poi che la misura di sicurezza
ha valenza di sanzione criminale, onde trovano con
riguardo ad essa applicazione i
principi di personalità della responsabilità e del fine
rieducativo della pena, di cui
all'art. 27 della Costituzione.
Ciò posto, il giudice a quo
ritiene che la previsione di una misura di sicurezza detentiva come
il ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario, applicabile ai minori, confligga con le
esigenze di specificità
della disciplina penale minorile, tanto più considerando la notoria
mancanza di strutture speciali
per i minorenni.
La totale assenza di differenziazione
nel trattamento determinerebbe altresì un contrasto con
le norme più generali di
cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, per il mancato trattamento
differenziato di situazioni diverse
e per l’assenza di tutela dei diritti di un soggetto per
definizione debole, oltre che di
una personalità in formazione.
Sussisterebbe infine contrasto con
norme internazionali pattizie, costituzionalizzate
attraverso l'art. 10 della Costituzione,
in particolare con le norme delle dichiarazioni dei
diritti dell'uomo e del fanciullo,
e delle c.d. "regole di Pechino", da cui discenderebbero
impegni internazionali ad assicurare
un trattamento differenziato al minore, in relazione alle
precipue esigenze di tutela dello
stesso, anche se sottoposto a procedimento penale.
2.– E’ intervenuto nel giudizio
il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile
o comunque non fondata.
Secondo l’Avvocatura erariale, se
è vero che la specificità della situazione dei minorenni
richiede un trattamento differenziato,
tale principio non potrebbe essere inteso nel senso che,
per il sol fatto che si tratti
di soggetti minorenni, sia sempre e comunque necessario
predisporre autonome strutture
o autonomi procedimenti. L’assorbimento, nel caso di minore
infermo di mente, della causa di
esclusione dell’imputabilità derivante dall’età in quella
derivante dal vizio di mente renderebbe
ragione della applicabilità della misura di sicurezza
del ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario, pur se il recupero del minore implichi
terapie diverse rispetto a quelle
da utilizzare per i soggetti adulti.
La difesa del Presidente del Consiglio
ammette che la necessaria accentuazione della dimensione
del recupero e la prevalenza di
tale dimensione rispetto a quelle di difesa sociale e
afflittiva richiederanno in futuro
un ripensamento dell’istituto "dalle sue fondamenta", e che
è auspicabile in sede legislativa
una più sensibile differenziazione nel trattamento a seconda
dell’età dei soggetti; ma
afferma che all’iniziativa del legislatore non potrebbe sostituirsi
questa Corte, cui si porrebbe l’alternativa
fra una pronuncia demolitrice che determinerebbe un
inaccettabile vuoto normativo,
ed una pronuncia manipolativa che comporterebbe un inammissibile
esercizio di discrezionalità
politica.
Considerato in diritto
1.– La questione concerne le norme
che prevedono la misura di sicurezza del ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario,
nella parte in cui riferiscono l’applicabilità di tale
misura ai minori infermi di mente:
e precisamente investe l’art. 222, quarto comma, del codice
penale, ai cui sensi le disposizioni
dello stesso articolo, relative ai casi di applicazione
della misura di sicurezza in questione,
si applicano anche ai minori degli anni quattordici o
maggiori dei quattordici e minori
dei diciotto, prosciolti per ragione di età, quando abbiano
commesso un fatto previsto dalla
legge come reato trovandosi in condizioni di infermità
psichica, intossicazione cronica
da alcool o da sostanze stupefacenti, o sordomutismo; l’art.
206 cod. pen., che prevede il ricovero
provvisorio in ospedale psichiatrico giudiziario,
durante le indagini o il giudizio,
dell’infermo di mente o della persona in stato di cronica
intossicazione da alcool o da sostanze
stupefacenti, e l’art. 312 cod. proc. pen., secondo cui
l’applicazione provvi-soria delle
misure di sicurezza può essere disposta in qualunque stato e
grado del proce-dimento. Le due
ultime disposizioni sono impugnate in quanto applicabili ai
minori.
Preliminarmente deve osservarsi
che la censura del giudice a quo, formalmente indirizzata al
quarto comma dell’art. 222 cod.
pen., deve più correttamente intendersi riferita anche ai primi
due commi dello stesso articolo,
che disciplinano l’applicazione della misura di sicurezza nel
caso di proscioglimento per infermità
psichica, ai sensi dell’art. 88 cod. pen.: laddove il
quarto comma estende l’applicabilità
delle stesse disposizioni al caso dei minori "prosciolti
per ragione di età". Infatti
l’ordinanza afferma che sussisterebbero nella fattispecie i
presupposti per il proscioglimento
ex articolo 88 cod. pen., e nel dispositivo denuncia le
norme in questione "nella parte
in cui prevedono la misura di sicurezza del ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario
di minore prosciolto ex art. 88 cod. pen.", nell’evidente
presupposto che tale proscioglimento,
nel caso, sottoposto al giudice a quo, di minore
riconosciuto infermo di mente,
debba pronunciarsi in luogo o a preferenza di quello ex art. 98
cod. pen. In ogni caso, il vizio
denunciato riguarda le norme che prevedono l’applicazione
della misura di sicurezza ai minori,
in tutta la loro ampiezza: e in questa accezione più ampia
la Corte ritiene di doverle prendere
in considerazione.
Il remittente reputa che l’applicazione
indifferenziata, in via definitiva o provvisoria, della
predetta misura di sicurezza ai
minori sia in contrasto con le esigenze di specificità del
trattamento penale dei minori,
risultanti anche da norme internazionali, e dunque confligga con
gli artt. 27, 31 e 10 della Costituzione;
che essa violi il principio di uguaglianza di cui
all’art. 3 Cost., per il trattamento
uguale riservato a situazioni diverse; e contrasti con le
esigenze di tutela dei diritti
di soggetti deboli e di personalità in formazione (art. 2
Cost.).
2.– Il giudice a quo muove dal presupposto
– che condiziona la rilevanza della questione – che
la misura di sicurezza del ricovero
in ospedale psichiatrico giudiziario sia tuttora
applicabile, anche in via provvisoria,
ai minori, autori di reati, riconosciuti infermi di
mente e socialmente pericolosi:
ciò, nonostante che il d.P.R. n. 448 del 1988 sul processo
penale minorile, nel disciplinare,
agli articoli da 36 a 41, il procedimento per l’applicazione
delle misure di sicurezza, sia
in via provvisoria, con la sentenza di non luogo a procedere nei
confronti del minore non imputabile
(art. 37), sia con la sentenza di proscioglimento per
assenza di imputabilità
o con la sentenza di condanna (art. 39), non faccia alcuna menzione di
tale misura, ma si riferisca esplicitamente
solo alle misure della libertà vigilata (eseguita
nelle forme delle prescrizioni
o della permanenza in casa: art. 36, comma 1) e del riformatorio
giudiziario (eseguita nella forma
del collocamento in comunità: art. 36, comma 2).
Benché il carattere di disciplina
organica e apparentemente esaustiva, pur relativa ai soli
aspetti esecutivi e non a quelli
sostanziali (cfr. ordinanza n. 360 del 1990), che riveste il
d.P.R. n. 448 del 1988 sul punto
della applicazione di misure di sicurezza ai minori, possa
indurre a dubitare della permanente
riferibilità ai minori, in sede di applicazione
provvisoria, della misura del ricovero
in ospedale psichiatrico giudiziario, la disciplina del
processo minorile non ha comunque
inciso sulla esplicita previsione normativa, contenuta
nell’art. 222, cod. pen., della
applicazione ai minori della predetta misura di sicurezza in
esito al giudizio. D’altra parte
la ricostruzione del sistema offerta dal remittente, e che
condiziona la rilevanza della questione,
il cui apprezzamento spetta anzitutto al giudice a
quo, non appare palesemente implausibile:
onde può darsi ingresso all’esame del merito.
3.– La questione è fondata.
La misura di sicurezza del ricovero
in ospedale psichiatrico giudiziario, a differenza di
quella del riformatorio giudiziario,
che è misura di sicurezza speciale per i minori (artt. da
223 a 226 cod. pen.), è
prevista dalla legge in modo indifferenziato per adulti e minori, sul
presupposto della presenza dell’infermità
psichica (o delle situazioni ad essa assimilate), in
relazione alla quale la misura
dovrebbe assumere la duplice funzione di cura del soggetto e di
tutela della società rispetto
alla pericolosità dello stesso (cfr. sentenza n. 139 del 1982).
La presenza del vizio totale di
mente comporta anzi che anche ai minori non imputabili per
ragioni di età, perché
non hanno compiuto i quattordici anni, ovvero li hanno compiuti ma sono
riconosciuti incapaci di intendere
e di volere, a norma dell’art. 98 cod. pen., si applichino,
in caso di pericolosità
sociale, non già le misure di sicurezza previste per i minori
imputabili e per quelli non imputabili
ma non infermi di mente, bensì l’unica misura del
ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario (art. 222, quarto comma, cod. pen.).
Quest’ultima è una misura
di sicurezza detentiva (art. 215 cod. pen.), e per la sua esecuzione
nei confronti di minori – a differenza
di quanto avviene ad esempio per la libertà vigilata,
misura anch’essa applicabile ad
adulti e minori, ma eseguita nei confronti dei minori in forme
speciali (art. 36, comma 1, d.P.R.
n. 448 del 1988) – non è prevista alcuna modalità che tenga
conto delle specifiche esigenze
dei minori medesimi.
In sostanza il legislatore del codice
penale del 1930 ha ritenuto che, in presenza di uno stato
di infermità psichica tale
da comportare il vizio totale di mente, la condizione di minore
divenga priva di specifico rilievo
e venga per così dire assorbita dalla condizione di infermo
di mente: tanto che, come si è
ricordato, persino se si tratta di minore riconosciuto non
imputabile per ragioni di età,
il regime di applicazione delle misure di sicurezza è quello
previsto per l’infermo di mente
adulto, e non quello riservato ai minori.
4.– Siffatta scelta non è
compatibile con i principi derivanti dagli artt. 2, 3, 27 e 31 della
Costituzione, in forza dei quali
il trattamento penale dei minori deve essere improntato, sia
per quanto riguarda le misure adottabili,
sia per quanto riguarda la fase esecutiva, alle
specifiche esigenze proprie dell’età
minorile (cfr., fra le tante, sentenze n. 403 e n. 109 del
1997, n. 168 del 1994, n. 125 del
1992).
Le stesse esigenze sono espresse
dalle norme internazionali relative alla tutela dei minori: in
particolare, l’art. 40 della convenzione
sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre
1989), resa esecutiva in Italia
dalla legge 27 maggio 1991, n. 176, afferma il diritto del
fanciullo accusato di reato "ad
un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e
del valore personale, … e che tenga
conto della sua età nonché della necessità di facilitare
il
suo reinserimento nella società
e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a
quest’ultima" (comma 1); e chiama
gli Stati a "promuovere l’adozione di leggi, di procedure, la
costituzione di autorità
e di istituzioni destinate specificamente ai fanciulli sospettati,
accusati o riconosciuti colpevoli
di aver commesso reato" (comma 3), nonché a prevedere, fra
l’altro, soluzioni alternative
all’assistenza in istituti "in vista di assicurare ai fanciulli
un trattamento conforme al loro
benessere e proporzionato sia alla loro situazione che al
reato" (comma 4).
Una misura detentiva e segregante
come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario,
prevista e disciplinata in modo
uniforme per adulti e minori, non può certo ritenersi conforme
a tali principi e criteri: tanto
più dopo che il legislatore, recependo le acquisizioni più
recenti della scienza e della coscienza
sociale, ha riconosciuto come la cura della malattia
mentale non debba attuarsi se non
eccezionalmente in condizioni di degenza ospedaliera, bensì
di norma attraverso servizi e presidi
psichiatrici extra-ospedalieri, e comunque non attraverso
la segregazione dei malati in strutture
chiuse come le preesistenti istituzioni manicomiali
(artt. 2, 6 e 8 della legge 13
maggio 1978, n. 180). Né, più in generale, è senza
significato
che il legislatore del nuovo codice
di procedura penale, allorquando ha inteso disciplinare
l’adozione di provvedimenti cautelari
restrittivi nei confronti di persone inferme di mente,
abbia previsto il ricovero provvisorio
non già in ospedale psichiatrico giudiziario, ma in
"idonea struttura del servizio
psichiatrico ospedaliero" (art. 286, comma 1; e cfr. anche art.
73).
L’assenza, negli ospedali psichiatrici
giudiziari, di strutture ad hoc per i minori, correlata
anche alla mancanza di casi di
ricoveri di minori in tali istituti, per un verso conferma la
diffusa consapevolezza presso gli
operatori e gli stessi giudici minorili della incompatibilità
di siffatta misura con la condizione
di minore, consapevolezza di cui è ulteriore indice
indiretto il silenzio serbato dal
legislatore delegato, in sede di riforma del processo penale
minorile, sui problemi collegati
alla misura di sicurezza in esame, pur nell’ambito di una
disciplina che si è sforzata
di risultare esaustiva in ordine agli aspetti esecutivi delle
misure di sicurezza; per altro
verso rende ancor più palese detta incompatibilità.
In definitiva, le esigenze di tutela
della personalità del minore coinvolto nel circuito penale
non consentono in alcun caso, nemmeno
dunque in quello di infermità psichica, di trascurare la
condizione di minore del soggetto.
Il minore affetto da infermità
psichica è prima di tutto un minore, e come tale va trattato,
tutelato nei suoi diritti in quanto
persona in formazione, ed assistito, anche nell’ambito del
sistema giudiziario penale.
5.– Deve dunque dichiararsi la illegittimità
costituzionale delle norme denunciate, che
prevedono l’applicabilità
ai minori della misura di sicurezza del ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario.
La dichiarazione di illegittimità
costituzionale deve colpire il denunciato quarto comma
dell’art. 222 del codice penale,
che ha riguardo all’applicazione della misura ai minori
"prosciolti per ragione di età";
ma deve investire altresì in parte qua, secondo quanto si è
premesso, i primi due commi dello
stesso art. 222, ove si prevede in generale, e dunque
implicitamente anche nei confronti
di minori (come conferma il quarto comma), l’applicazione
della misura nel caso di proscioglimento
per infermità psichica o condizioni assimilate, ai
sensi degli artt. 88, 95 e 96 dello
stesso codice. Deve poi colpire il denunciato art. 206 del
codice penale, che disciplina l’applicazione
provvisoria della misura, nella parte in cui si
applica ai minori infermi di mente.
Spetterà al legislatore colmare
con previsioni adeguate, anche in ordine all’apprestamento
delle conseguenti misure organizzative
e strutturali, il vuoto normativo che si viene a creare
con l’eliminazione, relativamente
ai minori, della misura di sicurezza oggi specificamente
diretta a far fronte alla situazione
di persone, giudicate pericolose, che abbiano commesso
fatti di reato ma siano affette
da infermità psichica che le renda non imputabili.
6.– I rilevati vizi di costituzionalità
non concernono il pure denunciato art. 312 del codice
di procedura penale, che si limita
a stabilire le condizioni di applicabilità in via
provvisoria delle misure di sicurezza
in generale, in qualunque stato e grado del procedimento,
ad opera del giudice su richiesta
del pubblico ministero. In ogni caso è evidente che, caduta
la possibilità di applicare
ai minori, in via definitiva o provvisoria, la misura di sicurezza
del ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario, non vi può essere luogo ad applicare, nelle
ipotesi qui considerate, tale disposizione:
onde la relativa questione va dichiarata
inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 222, primo e secondo comma, del codice
penale, nella parte in cui prevede
l’applicazione anche ai minori della misura di sicurezza del
ricovero in un ospedale psichiatrico
giudiziario;
b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, quarto comma, del codice penale;
c) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 206, primo comma, del codice penale, nella
parte in cui prevede la possibilità
di disporre il ricovero provvisorio anche di minori in un
ospedale psichiatrico giudiziario;
d) dichiara l’inammissibilità
della questione di legittimità costituzionale dell’art. 312 del
codice di procedura penale, sollevata,
in riferimento agli articoli 2, 3, 10, 27 e 31 della
Costituzione, dal Tribunale per
i minorenni di Brescia con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14
luglio 1998.
Presidente: Giuliano VASSALLI
Redattore: Valerio ONIDA
Depositata in cancelleria il 24 luglio 1998.