RACCONTI FANTASTICI

I racconti fantastici sono dedicati a Massimo Carubelli che mi ha permesso di utilizzare alcune immagini dei suoi quadri.

" La fine delle stelle"

".......non lasciate che tutto questo

 scompaia come un filo di fumo nella

 pallida luce della luna".

SENZA

La chiamata arrivò all’alba.
Un bip, prima leggero, poi sempre più acuto e insistente si diffondeva nelle stanze ancora buie.
Un senso vago di disorientamento e di paura prendeva il posto del fastidio.
Ero sveglia ormai ed annaspavo alla ricerca del pulsante che avrebbe acceso, sulla parete di fronte al mio letto, lo schermo del videotelefono.
In una frazione di secondo si ricomponevano le immagini della sera prima : la cerimonia nuziale, in una coreografia retrò di moda alla fine del ‘900 :la chiesetta del castello addobbata e infiocchettata per l’occasione, gli invitati parati a festa e tirati a lucido e rigorosamente distribuiti su due file di panche, parenti e amici dello sposo, parenti e amici della sposa.
Il cocktail di benvenuto in piedi,  poi era iniziata la cena nella grande terrazza sul golfo di uno dei pochi ristoranti tradizionali, con cuochi, maître, camerieri “veri”, cioè in carne ed ossa, ancora in funzione, esclusivo e costosissimo.
I commensali erano stati distribuiti ai tavoli secondo i formali e complessi criteri che, un tempo, regolavano le riunioni conviviali di questo tipo: grado di parentela, età, prestigio sociale ed altre insondabili varianti.
Mi ero ritrovata insieme ai cugini tedeschi della sposa olandese, forse per opportunità linguistiche, ormai del resto inutili, dato che ogni tavolo era dotato di un sistema di traduzione simultaneo..
Sul soffitto l’orologio elettronico proiettava l’ora, le sei del mattino.
Ero rientrata alle quattro, la cena ripresa da videocamere digitali che riproducevano le immagini sui monitor a cristalli liquidi grandi quanto le pareti era stata seguita dalle danze nel salone delle feste.
Il contatto prolungato con tante persone, le occasioni per riunioni del genere erano ormai assai rare, mi aveva stordito ed ora, proprio all’inizio del sonno, quel risveglio brusco mi trovava intontita, avevo mal di testa e un po’ di nausea per il troppo bere.
Lo schermo si era acceso e davanti a me si stava  mettendo a fuoco la faccia da bambino invecchiato del mio inquilino.
Avevo comprato l’appartamento da alcuni anni con l’idea di andarci a vivere, ma poi avevo deciso di affittarlo.
Tramite internet avevo contattato un’agenzia specializzata ed avevo inserito nel modulo che si era aperto i requisiti richiesti all’aspirante locatario : rigorosamente single, niente animali, cultura di alto livello, attività professionale ben remunerata, buone conoscenze informatiche, ambientalista e possibilmente di sinistra, impegno minimo per cinque anni.

Giovanni era perfetto.

Docente di filologia tedesca alla facoltà di lingue, cinquant’anni portati maluccio, capigliatura incerta alla Woody Allen, occhiali da miope, esperto suonatore di violino e pittore per hobby, una discreta dose di cinismo e un po’ nevrotico.
L’appartamento corrispondeva pienamente alle sue esigenze: le pareti insonorizzare gli lasciavano la più ampia libertà per esercitarsi col suo strumento musicale, la cucina completamente automatizzata e dotata di elettrodomestici intelligenti gestiti da un sistema di controllo computerizzato gli permetteva di coltivare i suoi interessi gastronomici. I tegami con minicomputer nel manico, da impostare a seconda della pietanza da cucinare, i forchettoni con display per indicare lo stato di cottura, le piastre in vetroceramica con comandi digitali lo avevano eccitato.
Guardavo incredula e annebbiata la sua espressione contrita.
Sembrava sul punto di piangere.
-Scusami per l’ora, ma non riesco a dormire, mi manca il respiro, l’ansia mi sta divorando, no, non potevo aspettare, scusami ancora…..
Continuavo a guardarlo senza riuscire a parlare, mentre si aggiustava gli occhiali, che non avevano alcun bisogno di essere aggiustati, o si passava una mano tra i capelli arruffati e continuava ad aprire la bocca per ripetere le stesse parole.
-Mi sento un verme,…..però…..……devo andare via da qui, non ce la faccio più,….ecco..vedi, .….non so….perché sono qui?
Via via che lo stato di confusione dovuto al sonno si scioglieva aumentava la mia incredulità.
Circa due anni prima Giovanni era stato selezionato dal computer in base alle caratteristiche richieste.
L’appartamento nella “residenza” completamente cablata faceva parte di un complesso urbanistico ad altissima tecnologia.
In tutte le stanze dotate di monitor a parete era attivo un collegamento continuo con l’esterno e questo gli permetteva di tenere le sue lezioni, di intrattenersi con gli amici, di consultare archivi, documenti, giornali, di fare acquisti senza quei contatti diretti con le persone che lo mettevano a disagio e che istintivamente rifiutava.
Era stato entusiasta di non dover più affrontare il traffico caotico della città tra la folla brulicante e l’aria irrespirabile dei quartieri “esterni” dove la delinquenza sfuggiva ormai ad ogni controllo in una atmosfera non altrettanto drammatica, ma per molti aspetti analoga a quella descritta  molti anni prima da Phlip K. Dick, ripresa poi nel film Blade Runner, che quasi mezzo secolo fa aveva fatto sensazione sull’immaginario collettivo.
Non era facile infatti trovare un posto nella “residenza”, separata nettamente dal resto della città, protetta giorno e notte da un esercito di guardie, perlustrata da potenti riflettori che permettevano di controllare ogni angolo, di filmare ogni movimento.
Nel frattempo avevo acceso la telecamera, così anche lui poteva vedermi e la mia espressione incredula aumentava il suo disagio.
-Non ho più stimoli…..per suonare, per dipingere…..cucinare, parlare, la mia fantasia si è come afflosciata, esaurita……non so più pensare.
L’appartamento è perfetto,…..tutto perfetto anche gli accessori, l’accappatoio con i sensori che misurano la pressione sanguigna, la tuta con i microcircuiti  che captano le condizioni ambientali  e regolano luci e suoni, la tv al plasma con schermo da cinquanta pollici……mma……io..io... mi sento morto, ecco mi sento morto.
Perché sono qui, avanti rispondimi, tu che sei abituata a decidere, che hai sempre soluzioni pronte, perché?
Non sento più il sapore del cibo, non riesco a gustare i vini, mi manca il contatto, si lo riconosco ho sbagliato, mi manca il contatto.
Parlava in modo sempre più convulso, ormai era come un fiume in piena, inarrestabile.
-Rimpiango gli odori, anche quelli sgradevoli, mi manca la gente, anche se a tavola deglutisce rumorosamente, se mastica con la bocca troppo aperta. Rimpiango tutto quello che mi ha fatto fuggire, le voci, i discorsi contorti, dispersivi, banali, ovvi, ho bisogno di stringere una mano, di sentirla tra le mie.
Ho bisogno di parlare con una persona non con un’immagine, voglio vederne gli occhi, non importa se è giovane o vecchia, bella o brutta, simpatica o meno, intelligente o stupida, voglio provare un’emozione, voglio arrabbiarmi, voglio essere triste, avere paura, provare rabbia, gioia, disgusto, delusione, speranza, voglio sentirmi vivo.
Forse qualcuno mi aggredirà all’angolo di una strada, dovrò tornare a fare la coda negli uffici o alle casse degli ipermercati, discutere e litigare, respirare l’aria inquinata, non riuscirò a dormire per il rumore, soffrirò per un amore infelice, per un tradimento, ma tornerò a desiderare una carezza,  sentirò il calore di una mano che si posa sulla mia pelle, di uno sguardo che mi cerca, ritroverò la gioia di un’attesa, l’ansia di un ritorno.
Faticavo a riconoscere il mio timido inquilino, sempre di poche parole, indeciso, timoroso, terrorizzato dalla gente, incapace di replicare.
Stavo organizzando i pensieri per replicare a quello che mi era sembrato un attacco di panico, per rassicurarlo come si fa con un bambino inquieto che fa domande inutili e per le quali non c’è risposta, ma, prima che potessi parlare, Giovanni appoggiò il pollice della sinistra alla punta del naso e, dopo aver piegato le dita, spense lo schermo, lasciandomi incredula e con la bocca aperta come per far uscire parole rimaste impigliate nella gola.

Giugno 2001

IL SILENZIO

Da molti anni gli uomini avevano smesso di parlare.
Era accaduto gradualmente, nel giro di qualche mese.
All’inizio si era registrato qualche caso di afasia temporanea, poi le segnalazioni erano state più frequenti soprattutto nei paesi più ricchi e tecnologicamente avanzati.
Solo a quel punto si era diffuso l’allarme ed erano iniziati gli studi, le ricerche gli esperimenti per risalire alle cause del fenomeno che ormai interessava fasce sempre più ampie di persone, per periodi sempre più lunghi e con sintomi sempre più gravi e duraturi.
Gli scienziati di tutto il mondo avevano collaborato nel tentativo di individuare il motivo che aveva portato ad una situazione che giorno per giorno assumeva il carattere di un’epidemia inarrestabile, non c’erano farmaci, precauzioni, interventi di qualsiasi tipo che potessero arrestarlo, ma soprattutto non c’erano cause, o almeno non si riusciva ad individuarle.
Anche i bambini ormai nascevano senza vagiti e persino gli animali avevano cessato di emettere i loro suoni.
Solo i più anziani ricordavano vagamente di quando potevano comunicare con la voce, esprimere stati d’animo diversi affidandoli al tono, all’intensità , alla dolcezza o all’asprezza con cui articolavano le parole.
Lei non era più giovane, viveva sola da tanti anni, e questa era ormai la situazione della maggior parte delle persone, senza più nessuno e, ora che aveva smesso di lavorare, tornava spesso nel paese dei suoi nonni, in una vecchia casa di pietra, arrampicata su una roccia.
Lì, durante il giorno, poteva andarsene in campagna, stare all’aria aperta e fare lunghe passeggiate, la sera poi si sedeva alla “macchina”, uno strumento presente in ogni casa, che in pratica permetteva di comunicare tramite la videoscrittura.
Era cresciuta, come tutti quelli della sua generazione, tra computer, giochi interattivi, videogiochi e quando era accaduto l’evento era ancora una ragazzina, ma lo aveva  percepito come qualche cosa di drammatico, soprattutto ricordava il terrore degli adulti.
Abituati a rivolgersi agli altri parlando, aprivano le bocche in un gesto muto, inutile, che dava al viso un’espressione di grottesca incredulità.
Con una sorta di preveggenza lo aveva descritto Munch, esprimendo con la sua pittura stati di violenta emotività.
Del resto lo stesso artista  raccontava di aver dipinto Il Grido, quando, ormai stanco e malato, passeggiando per un sentiero, vide, in basso il fiordo dominato da nuvole rosso sangue ed ebbe la sensazione che tutta la natura urlasse di sgomento.
Tutto sembrava irreale, gli unici rumori erano quelli delle macchine, automobili, computer, elettrodomestici, attrezzi meccanici e le voci umane che ancora si potevano ascoltare erano quelle registrate, quelle impresse nei cd, nelle pellicole dei film
Gli strumenti della comunicazione andavano, rivisti, cambiati, reinventati.
Per Lei non era stato molto difficile, quando si è molto giovani si impara velocemente ad adattarsi alle circostanze che si vengono a creare, e in breve le tecnologia più avanzata  aveva sostituito il sistema vocale con altri strumenti interattivi e le voci sintetiche dai toni metallici, tutte uguali, con il loro ritmo vagamente intermittente, permettevano una comunicazione essenziale, precisa, sintetica e anche più veloce.
Ricordava ancora quando, passando per le vie del centro, dove si affacciavano le vetrine dei negozi, le porte dei bar, vedeva le persone rimanere a parlare, sedute ai tavolini, mentre bevevano un caffè o mangiavano un gelato, prese dal piacere di raccontarsi, di ascoltare, di scambiarsi impressioni, coinvolte nella piacevole complicità di un rapporto di amicizia, o nell’ acceso contrasto di una lite e di un divergenza di opinioni, rivedeva le espressioni dei volti, il gesticolare delle mani, scene di un dramma o di una commedia di cui comunque si era persa ogni traccia.
A volte suo padre tornava stanco e si lamentava delle estenuanti discussioni con i colleghi: assemblee che si protraevano per ore senza concludere niente, cavilli su cavilli, proposte e controproposte tra l’indifferenza dei più e, quando sembrava di poter tirare le fila, bastava l’osservazione ottusa di qualcuno per riaccendere i contrasti, alimentare i dubbi e vanificare il lavoro di un’intera giornata.
Le faceva venire in mente un pentolone di minestra che bolliva freneticamente con gli ingredienti che salivano, scendevano, si rincorrevano alimentando un vortice inarrestabile che, spento il fuoco, come per incanto si arrestava.
Forse era per questo che a casa non parlava mai.
Affermava.
Le sue verità, le sue certezze.
Lei invece non era mai sicura di niente e avrebbe avuto bisogno di scambiare opinioni, di esprimere i suoi dubbi, di lasciarsi convincere con dolcezza, magari con qualche fiaba.
Le fiabe gliele raccontava solo il nonno, un uomo mite, magro, dai modo gentili e sempre paziente che lei rivedeva ancora mentre rientrava nel cortile di casa “posteggiando” la sua bicicletta.
Era stata una bambina capricciosa, forse troppo sola tra persone adulte troppo indaffarate e sempre di corsa e così di quel nonno si approfittava un po’ costringendolo, come un arcaico grammofono bloccato, a raccontare, raccontare finché non si addormentava.
Ma poi il “fuoco” era stato spento.
Le abitudini quotidiane  erano cambiate radicalmente.
Poi gradualmente tutto era tornato in ordine, perfetto, i tempi ridotti al minimo, i contatti essenziali, schematici.
La impossibilità di usare la voce toglieva interesse a qualsiasi iniziativa che non fosse funzionale ad attività strettamente necessarie.
Non aveva avuto più senso riunirsi intorno ad un tavolo per un colloquio, per un gioco, per una cena, dal momento che tutti restavano in silenzio o al massimo potevano scambiarsi qualche segnale sincopato emesso da una voce elettronica, era diventato inutile ritrovarsi con gli amici per una passeggiata, una gita, anzi la presenza degli altri era solo un fastidio ingombrante, faticoso.
Le sale cinematografiche erano sparite, rimanevano solo gli archivi con le vecchie pellicole per gli appassionati del genere, finiti i concerti vocali, il teatro, i programmi televisivi, le urla dei tifosi negli stadi, il brusio dei luoghi di ritrovo.
Ai ristoranti di un tempo si erano sostituite delle asettiche mense con banconi in acciaio lucidissimo al posto dei vecchi tavoli, distributori automatici, dove bastava sfiorare l’immagine per ottenere immediatamente il piatto corrispondente.
Si era perso anche il gusto del cibo, della ricerca dei sapori, del piacere di preparare una pietanza per una persona cara, si era scoperta in compenso l’importanza di un dialogo, della presenza degli altri, si era compreso come fosse profondamente radicato in ogni persona il bisogno di esprimersi, di far emergere almeno una parte minima di sé, di trovare qualcuno disponibile a condividere i nostri pensieri, ad interessarsi al nostro modo di sentire, e soprattutto ci si era finalmente resi conto dell’importanza di ascoltare “le ragioni degli altri”, ma era troppo tardi.
Anche l’amore era diventato routine, sesso, per istinto, per riprodursi, era scomparsa la tenerezza, la confidenza, la complicità che deriva dalle parole, la voglia di scoprirsi un po’ alla volta raccontando se stessi, per farsi conoscere ed accettare per quello che si è, per le nostre paure, le nostre mancanze, le profonde contraddizioni, quelle che non si vedono dietro il “sipario” del sorriso, della sicurezza, dell’ostentato gusto del potere.
Lei aveva fatto in tempo a percepirlo tutto questo.
Da qualche tempo le succedeva sempre più spesso di mettersi a pensare a quell’estate in cui aveva conosciuto Volker che veniva al mare con i genitori, da Francoforte, giovanissimo anche lui, biondo, come erano biondi la maggior parte dei tedeschi.
Si erano trovati a sguazzare nell’acqua, a schizzarsi, come poteva capitare tra ragazzi, per caso, per giocare e poi si incontravano ogni giorno, senza dirselo, perché parlavano due lingue diverse.
E Lei si era messa a studiare, in modo frenetico, cinquanta parole al giorno da memorizzare, perché aveva “fame” di parole, perché quello era il mezzo per comunicare, per chiedere, per capire.
Incuranti del caldo, del vento che a volte li ricopriva di rena, passavano pomeriggi interi sulla sabbia, a sillabare, a ripetere, a guardarsi negli occhi e quando riuscivano a comprendersi era la gioia della scoperta, la sorpresa di imparare qualche cosa l’uno dell’altro, l’incredulità  come per aver indovinato una passwort, una combinazione misteriosa che apre porte sconosciute.
Con la fine di quell’estate erano iniziate le difficoltà e nell’arco di circa un anno gli uomini erano stati ridotti al silenzio.
La sua vita aveva avuto i ritmi “normali” di tante altre vite, un percorso lineare con qualche deviazione che, sostanzialmente non ne aveva mutato la direzione e se, per riprendere una definizione che aveva trovato in un racconto, gli uomini si potevano dividere in “quadri” e “cornici” in base al ruolo che avevano svolto, il suo era stato certamente quello della cornice, ma non aveva rimpianti.
Consapevole di sé, nel bene e nel male, non era mai stata molto ambiziosa e, con la saggezza che derivava dagli anni, capiva che il bene più grande era la possibilità di organizzare il proprio tempo, di stabilirne i ritmi, purché questo tempo lo si riuscisse a riempire continuando a sentirsi vivi e con la voglia di continuare ad esserlo.
Le era sempre sembrata inaccettabile e stupida l’idea che bisogna vivere per se stessi.
Lei sapeva che, nonostante tutto, la condizione era riuscire a raccontarsi, sentire ancora il bisogno di farsi percepire, vivere nella mente, nei pensieri degli altri.
Ormai l’aria stava facendosi scura, la notte arrivava all’improvviso, perché il sole spariva in un attimo dietro la cresta più alta della collina di fronte alla finestra del suo studio.
Si sedette di fronte alla “macchina”, aprì un foglio per scrivere e iniziò:
“ Da molti anni gli uomini avevano smesso di parlare……………..

Luglio 2001

"La strega e il mare"

  " Solo un amore profondamente 
 intenso permette di guardare nel nulla
 e scoprire lo splendore di tutti i colori
 del buio
"

 

  ARABELLAPARK

  Riesco con molta difficoltà a tenere l’andatura rilassata di chi si appoggia sui propri passi e, quasi distribuendo il peso con ritmica lentezza, assapora il piacere di una tranquilla passeggiata, “corro” sempre, anche quando sono in compagnia, così spesso mi ritrovo da sola a dovermi fermare in attesa che gli altri mi raggiungano e, se è vero che la gestualità, il modo di muoversi  può esprimere le ragioni profonde del nostro io, anche questo è un segnale della mia difficoltà di comunicare.

Quel giorno poi “dovevo” correre, infatti ero in ritardo, perché mi ero “distratta” più del solito tra le bancarelle della Fiera d’Estate nel Theresienwiese,  mentre Liza aveva invitato a pranzo i suoi amici, proprio per me.

Il mercato, quello delle piazze, con la confusione delle voci, degli oggetti, esercita su di me un fascino “sensuale” al quale non riesco a sottrarmi, forse proprio per la sua “impersonalità” che  coinvolge, senza obbligo di partecipazione, la mia pigrizia.

Porcellane, rami, candele di ogni forma, da quelle tradizionali ed elaborate che riproducevano i personaggi della mitologia germanica o le figure sacre a quelle più moderne e stilizzate, composizioni floreali, decorazioni in vetro per le pareti e le finestre, vecchi soprammobili accanto agli utensili più moderni mi avevano fatto perdere il senso del tempo catturando la mia attenzione, così come quei venditori che richiamavano la gente con vere esibizioni da clown, mescolando lingua e dialetto bavarese nelle battute salaci rivolti agli avventori : la mia “cartina di tornasole”, che mi permetteva di valutare il livello di comprensione della lingua e, più ancora, i miei limiti.
Uno sguardo all’orologio mi proiettò nella mia ansia di sempre, nel timore di non essere puntuale, di fare aspettare e sicuramente camminai a lungo e più in fretta del solito prima di rendermi conto che non stavo andando da nessuna parte.
Questa volta Liza mi avrebbe accusato di essere “la solita italiana”, una variazione nei nostri battibecchi quotidiani, visto che di solito, prima di sbattere la porta e chiudersi in bagno, concludeva che io ero la “tetesca”, anzi la “ Preuße”.

  Fra noi non ci sono mai stati convenevoli formali, quando arrivo a Monaco, dopo gli abbracci e i baci che si ripetono uguali ad ogni incontro, scende in cantina a prendere un materasso da stendere sul pavimento del guardaroba, che diventa la mia “camera”, ingombra di vestiti, scarpe e cianfrusaglie varie, un vero e proprio bazar in miniatura e, quando poi arriva il giorno della partenza, esce di casa fin dal mattino, per non piangere vedendomi andare via.
A Monaco mi sento a casa, mi piace prendere l’Ubahn, camminare per le strade del centro, sedermi a Stachus, nella Kaufingerstraße, la strada dei grandi negozi, e guardare il frenetico via vai delle persone, un marciare continuo, senza sosta, simile a quelle lunghe file di formiche che basta un niente per scompigliare e che poi, dopo un breve, impazzito girovagare, tornano a ricomporsi per riprendere il loro inesauribile movimento.
Mi fermo ad ascoltare qualche musicista di strada o i complessini che suonano ritmi afro-cubani, mi piace il “colore” della città, i suoi strani accostamenti, come, ad esempio, le bancarelle con la frutta davanti alle vetrine più eleganti e mi sorprende che la gente mangi sempre, a qualsiasi ora del giorno
Spesso vado al Viktualienmarkt, dietro Marienplatz, sempre affollata di turisti in paziente attesa dei rintocchi che mettono in movimento le figure dell’orologio della Rathaus.
Mi ha sempre attirato il vecchio mercato dei generi alimentari, forse perché lì i turisti non ci sono.
Mi siedo ad uno dei lunghi tavoli di legno vicino a qualche signora vestita con il Dirndl, il costume tipico delle donne bavaresi, e ordino lo Schweinehaxe con la crosta croccante, da mangiare sorseggiando lentamente “ein Maß”, la birra da un litro, per me impossibile in qualsiasi altro luogo.
C’è sempre qualcuno che prima o poi mi chiede se sono americana e non ho mai capito perché.

  Quando ripresi a guardarmi intorno mi resi conto di trovarmi in un quartiere che non conoscevo, un viale dagli alti palazzi massicci, ai quali le tinte pastello della facciata non riuscivano a togliere l’aria severa e vagamente inquietante.
A qualche decina di metri si apriva uno dei tanti parchi della città, alberi rigogliosamente verdi, erba folta, soffice e in mezzo incredibili, intensissime macchie di colore: in estate uno spettacolo inconsueto per noi “mediterranei”, abituati alle nostre aiole ingiallite e poco curate.

  Sono le “spiagge” di Monaco, dove si va a prendere il sole, a mangiare negli immancabili Biergarten, a fare il bagno o, semplicemente a leggere o a riposare nei ritagli di tempo o nelle giornate festive.

  L’ora del pranzo ormai era passata da un pezzo, mi sentivo stanca e c’era un’afa pesante, che toglieva il respiro. Mi avviai verso una fontanella per riposarmi su una panchina dove c’era già una anziana signora, alla quale chiesi distrattamente il permesso prima di sedermi e di liberarmi dei sandali per una immediata, piacevole sensazione di sollievo.
Dopo un po’ si volse verso di me: era italiana anche lei.
Aveva i capelli grigi, lucidissimi e raccolti da un nastro sulla nuca, gli occhi di un caldo, indefinito colore trasmettevano una istintiva, sorridente simpatia che faceva dimenticare le rughe spesse del volto.
La sua espressione mi ricordò la Vanessa Redgrave de La signora Dalloway, anche se lei era molto più minuta, quasi infantile nel suo lungo abito marron di tela indiana annodato dietro la vita.

  -Vivo qui da circa tre anni, da quando è morto mio marito. Potrei dire che cerco di non lasciar cadere le ultime briciole di un sogno.
Ho una piccolissima mansarda proprio davanti a questo giardino.
La prima volta ci sono venuta con Herman, quasi cinquant’anni fa. -

  La guardavo, divisa tra la curiosità e l’incertezza, con il timore di ascoltare qualche cosa che non mi apparteneva, qualche segreto rivelato per fragilità o per vincere la solitudine.

  - Herman era la “pecora nera” della famiglia, inconcludente a scuola, più o meno l’equivalente del nostro “bulletto” di provincia, sempre in cerca di ragazze e con la passione per le macchine “truccate”, si barcamenava tra incidenti e lavori precari.
Lo conobbi per caso.
Avevo superato tutti gli esami all’università, ero una ragazza studiosa che veniva da una piccola città e i miei mi avevano accompagnato al treno permettendomi di partire da sola e di restare qui per due settimane da una famiglia di amici con una figlia della mia età, una specie di viaggio-premio per gli ottimi voti.
Lui venne ad una festa insieme ad altri e con la sua ragazza.
Tra noi fu la passione.
Ci alzammo all’improvviso, sotto lo sguardo interrogativo degli altri, e andammo all’Isar a fare l’amore fino al mattino. -

  Forse la mia espressione disorientata l’aveva divertita, perché, spostando da una mano all’altra il bastone di legno scuro dal manico d’argento che le conferiva una fragile eleganza di altri tempi, mi sorrise con ironia, quasi mi avesse letto nel pensiero:

  -No, non sono una vecchia pazza, e lei mi piace, potrebbe essere mia figlia.
Da quella sera continuammo a vederci, quando potevamo, e ogni volta era un’ emozione nuova, intensa, un gioco che ci coinvolgeva senza lasciare spazio per niente altro, come quando entrammo da una porta di servizio in una piccola pensione sul lago di Starnberg e ci chiudemmo nella prima camera che trovammo aperta, andandocene poi senza pagare il conto, trattenendo le risate, mentre scivolavamo per le scale con le scarpe in mano.
La vita, quella “reale”, quotidiana, della famiglia, del lavoro con le ipocrisie e il cinismo della corsa al successo, al denaro, quella dove si affrontano i problemi concreti dei figli da crescere, della casa, della macchina da cambiare, dei contrasti grandi e piccoli della convivenza, degli screzi cattivi che, giorno dopo giorno, alimentano l’incomprensione, il silenzio, l’abbiamo vissuta lontani, ognuno con il suo percorso.
Allora non era facile comunicare, le distanze erano reali, non c’era nemmeno la teleselezione e per telefonare ci voleva il centralino.
I nostri incontri, sempre brevi, un giorno, due, poche ore a volte, a distanza di molti mesi, di anni, sono stati per entrambi una fuga dalla vita, me ne rendo conto, ma forse lo abbiamo saputo sempre, una sbornia per non pensare, un gioco d’azzardo per provare il brivido dell’illusione.
Un poeta, non ricordo chi, diceva che “il sogno è l’infinita ombra del vero” e, ora che “ il mio avvenire è dietro le spalle”, mi chiedo spesso se siano più autentiche le cose che viviamo o quelle che immaginiamo, rincorrendole con i nostri sogni. -

  La guardavo affascinata, ormai del tutto presa dalle sue parole e mi tornava in mente “l’astronauta che aveva conosciuto l’amore e…..visto le stelle”

  - Ad Herman piacevano i cavalli ed una volta aveva voluto condurmi alla festa per il centenario della fondazione dei pompieri, in un paese della campagna bavarese dove vivevano i suoi genitori, voleva che lo vedessi sulla sua splendida Eispfeil, una cavalla bianca dalla criniera lunghissima.
C’era stata la sfilata delle antiche carrozze, ciascuna con lo stemma della propria caserma e gli uomini portavano tutti i pantaloni di camoscio allacciati al ginocchio sui calzettoni colorati..
Avevamo mangiato sotto uno di quegli enormi tendoni tipici nelle feste popolari, che si assomigliano tutte: all’interno file interminabili di tavoli, uno di seguito all’altro, dove si iniziava a mangiare e soprattutto a bere fin dal mattino, ai lati altissime griglie elettriche con decine di spiedi pieni di polli che cuocevano senza interruzione, su un palco, al centro, un’orchestrina  con il suo repertorio di canti tradizionali e di canzonette alla moda e, disseminati ovunque, orinatoi per smaltire la birra.
C’erano anche i suoi genitori ed io ero rimasta incredula per la sua somiglianza con il padre che, però, aveva un’espressione dura, non sapeva sorridere e, nonostante i modi cortesi, mi faceva sentire a disagio.
Mi accorsi che Herman non riusciva a sostenerne lo sguardo.
Non fu una giornata serena, mi ero sentita estranea e quell’ambiente, quei canti, quei volti arrossati dal troppo cibo e dalla troppa birra mi opprimevano, mi soffocavano. -

  Capivo le sue sensazioni.
Le avevo provate più volte, in occasioni diverse e rimanevo sempre disorientata di fronte al contrasto tra la riservatezza delle singole persone e quella che mi era apparsa crassa, rozza e, talvolta, violenta, bestialità dei raduni di massa. C’era qualche cosa che mi attirava e  mi respingeva contemporaneamente.
Pensai che nessuno come Visconti aveva saputo rappresentare nel disfacimento fisico e morale dei Krups e di Ludwig la malattia dello spirito, il tarlo sempre latente nell’animo di questo popolo.
Mi tornavano in mente le parole di Brecht che definiva il nazismo una tragedia e il fascismo una commedia e mi sembrava di coglierne, per la prima volta, il vero significato.
In fondo la tragedia è estranea alla cultura italica proprio per quella capacità razionale e beffarda di vedere le cose, quell’ “acetus”, in grado di sviluppare un senso del limite che spesso sfocia nell’ironia. E in effetti alle mie divagazioni eziologiche subentrò immediatamente un’istintiva, pietosa autocommiserazione, con l’unica attenuante della stanchezza e del caldo.

  - Ma Herman ce l’aveva fatta, aveva creato un’azienda tutta sua,  aveva una bella villa e due figlie che amava molto.
Era orgoglioso di dirmelo ed io ho sempre pensato che a spronarlo, a spingerlo a lavorare senza sosta per anni fosse stato proprio il confronto con il padre, quello sguardo severo, ostile, non disposto a perdonare niente.
L’ultima volta l’ ho incontrato cinque anni fa nel Biergarten del castello di Nymphenburg.
Ero emozionata, come sempre, mi sono provata quattro o cinque abiti, mi sono lavata i capelli, mi sono anche truccata un po’ e per l’ansia non sono riuscita a mangiare.
Seduti sotto la tenda con i colori bianco e azzurro della Baviera, siamo rimasti un pomeriggio intero a parlare, a ricordare, sembravamo una vecchia coppia ancora con la voglia di scambiarsi un po’ di tenerezza.
Dopo che ci siamo salutati l’ ho visto andar via per l’ultima volta, più curvo del solito nel suo vestito grigio, con la giacca che gli sembrava piovuta sulle spalle e che, interpretando a modo suo il concetto di eleganza, si ostinava ad indossare ogni volta che ci incontravamo. -

  Mi sentivo in debito con lei per quanto mi aveva raccontato e cercavo un’idea , qualche cosa per mettere insieme un discorso che le facesse capire la mia simpatia e più ancora la mia partecipazione alla sua storia, alla sua ansia di evadere dal “male di vivere” scavalcando “la muraglia” dell’esistenza quotidiana.
Ogni persona, consapevolmente o meno, avverte prima o poi il bisogno di sottrarsi alla “prigione” della propria vita, alcuni riescono a fuggire davvero o si illudono di farlo, per finire poi invischiati nei lacci delle loro stesse illusioni, altri si accontentano  di “un’ora d’aria”, di una breve uscita in punta di piedi, senza far rumore e si limitano a coltivarlo quel sogno che, forse, solo rimanendo tale, continua ad alimentare la speranza.
Rapidamente ripassavo i miei ricordi letterari per trovare argomenti che non si riducessero alle solite, ovvie, scontate parole e mi sembrava che la vicenda di Belluca, proiettato dal fischio del treno verso la coinvolgente fantasia di una gioiosa evasione dal grigiore inesorabile della sua esistenza, avesse molti elementi in comune con la storia di questa donna, con quel suo bisogno di credere nelle illusioni, con il suo coraggio di afferrarle, o almeno, di non rinunciare a provarci, senza far del male a nessuno, senza sottrarsi ai suoi doveri.

  Mi girai verso di lei con l’intenzione di spiegarle le mie impressioni, di manifestarle la mia simpatia, ma accanto a me non c’era nessuno.

La panchina era vuota e il vialetto deserto.

Dopo qualche momento di perplessità mi alzai, guardandomi intorno incredula e ormai convinta di essermi addormentata, e allora lo vidi : appoggiato sul bordo della piccola fontana c’era il bastone di legno scuro con l’impugnatura d’argento.

Luglio 2001

 

" Massimo Carubelli. Autoritratto"

" La luce e la vita stessa si spengono inghiottite dal buio

  IL RIFUGIO

Era un rettilineo lunghissimo e sembrava non aver mai fine.
La campagna arsa dal sole  si apriva ai lati della strada con tutte le tonalità del giallo fino al marrone che sfumava nel grigio delle zolle indurite.
I ciuffi degli scopi e gli ulivi polverosi ai bordi dell’asfalto apparivano come sperduti nella secca aridità delle stoppie che sembravano riflettere i raggi del sole accecante raddoppiando la calura.
Avrebbe dovuto essere arrivata da un pezzo e in effetti fino a Grosseto tutto era andato secondo le sue previsioni, i problemi erano iniziati quando, lasciata la via Aurelia, aveva dovuto affrontare strade secondarie e mal segnalate per arrivare sino al casale, affittato nei pressi di Monticello, per trascorrere un po’ di tempo lontano dalle persone e dai luoghi consueti.
Le lamiere, arroventate dal sole, della Panda 4X4 rossa con cui era partita, proprio in previsione di trascorrere dei giorni in campagna, toglievano il respiro e ormai le gocce di sudore  le scivolavano lungo le guance incollandole i capelli al viso e al collo.
L’intensità della luce sbriciolava i contorni appiattendo case, campi, cespugli come in una  tavolozza pasticciata da un pittore indeciso sulla tonalità del colore.
Alla fine della spianata la strada girava all’improvviso e iniziava a salire velocemente in un intrico di curve e controcurve dove l’asfalto, incatramato da poco, sembrava un nastro stirato fino ad un certo punto da un ferro bollente e poi lasciato andare, libero di accavallarsi e di arricciolarsi su se stesso.
Dopo alcuni chilometri, al di là di un campo sterminato di girasoli  carnosi e con i petali ancora intensamente gialli, ma già con la testa leggermente reclinata, si intravedeva, sulla destra, il sentiero sterrato, che secondo le indicazioni fornite dall’impiegata dell’agenzia immobiliare, conduceva al rustico preso in affitto.
Era la prima volta che si allontanava da casa dopo la malattia.
All’inizio era stato solo un forte mal di gola, ogni giorno più intenso, nonostante le cure, gli antibiotici, sempre più forti e sempre meno efficaci.
Era un dolore sordo, strisciante, accompagnato da un’insolita debolezza che lei si era sforzata di ignorare mantenendo le abitudini quotidiane, il lavoro, nonostante la temperatura corporea sempre oscillante, ma costantemente alterata.
Poi tutto era precipitato, la febbre schizzata su valori altissimi, le analisi frenetiche, il ricovero.
Non era mai stata in ospedale prima di allora e si sentiva indifesa, esposta, incredula, tradita dal suo fisico che non rispondeva alla sua volontà, come se avesse imboccato una strada propria che non coincideva più con la sua, ribelle,estraneo.
La scritta “Oncologia” all’ingresso del reparto le era apparsa una condanna senza appello.
Nessuno pronunciava “quella parola” ma le emorragie, le petecchie che le avevano invaso il corpo, la bocca, impedendole di mangiare, erano un messaggio eloquente.
Le braccia e le mani erano piene di lividi per le continue flebo e per i prelievi che si susseguivano a distanza di poche ore.
Amici, parenti, colleghi erano costantemente presenti e lei si ritrovava a evitarne lo sguardo, per altro sempre sfuggente, nascosto dietro il sorriso, mascherato dalle parole.
Soprattutto il volto di sua madre tradiva l’angoscia.
E lei ne temeva la presenza, nei suoi occhi leggeva la condanna che non accettava,  perché non voleva combattere, non lo aveva mai fatto, per debolezza, per pigrizia, forse per vigliaccheria, voleva semplicemente ignorare, non sapere.
La sua reazione di fronte alle difficoltà, al dolore era sempre stata di non guardare, come se il non vedere potesse cancellare, rimuovere, allontanare.
L’avevano accompagnata con l’autoambulanza al centro tumori di Bologna e lì aveva atteso il suo turno in un lungo corridoio con due file di sedie ai lati, tutte occupate, e alcune barelle posteggiate in un angolo, occupate anche quelle.
Le era venuto in mente con sarcasmo che quello era come una specie di club dove non si entrava senza i requisiti richiesti: la sofferenza disperata, la malattia, quella vera.
Poi finalmente il prelievo del midollo spinale : LEUCEMIA, “la parola”, la morte, era lì, scritta, indelebile e le lettere, come una spirale che la inghiottiva, sembravano dilatarsi sul foglio in cui il medico appuntava i dati delle analisi.
E all’improvviso le capitava di pensare agli oggetti che non avrebbe rivisto, ai progetti senza futuro, ai viaggi che non avrebbe fatto, ai luoghi dove non sarebbe tornata, alle cose che non avrebbe detto e, quasi per una beffarda rivalsa, tutto sembrava materializzarsi contro di lei con un impeto di rabbia che sfuggiva al suo controllo.
Era braccata, accerchiata.
Invece ne era uscita.
Lentamente, giorno, dopo giorno le analisi miglioravano.
I medici erano increduli, non capivano, come se un “caso” evidente, analizzato con chiarezza in tutte le sue componenti, rivelasse all’improvviso una crepa, un’equazione che non tornava più, un aspetto inatteso e che non era stato valutato correttamente, un’evoluzione non prevista.
L’avevano interrogata, sollecitata a ricordare, ad elencare sintomi, farmaci, malattie.
Si era sentita spiata, non creduta, un testimone inattendibile, scomodo, perché vanificava un lungo lavoro di indagine, proprio come in un vecchio film poliziesco.
Dopo quasi due mesi c’era voluto un secondo prelievo del midollo osseo e del midollo spinale perché “la parola” venisse finalmente rimossa, cancellata.
Il suo corpo era guarito, la sua fragilità interiore si era aggravata.
Era stato come dover imparare di nuovo a misurare le cose, a percepire la dimensione del tempo, a recuperare la consapevolezza del poter fare.
L’avevano fatta sentire come un bambino che non sa ancora camminare, che deve crescere in un ambiente protetto, che deve essere guidato, consigliato, sorretto.
E lei si era adagiata, aveva lasciato che decidessero per lei, che scegliessero, che agissero, che le imponessero la loro presenza.
E ora la decisone di andare via da sola era stata sentita come una rivolta, un rifiuto, una sorta di ingratitudine, di disamore.
Si fermò davanti ad un vecchio, pesante cancello di legno con la vernice scrostata e, preso dalla borsa il mazzo delle chiavi che le erano state consegnate, ognuna con il suo cartellino, cercò quella giusta per aprire il lucchetto della catena che lo serrava.
Entrata nel cortile con la macchina, scese a guardare la casa dal di fuori.
La facciata era di pietra e sopra la porta di ingresso c’era una terrazza piuttosto grande.
All’interno tutto corrispondeva alla piantina fornitale dall’agenzia: una grande stanza con il camino e la cucina al piano terra, di sopra due camere con la più grande che si apriva sulla terrazza che aveva visto dall’esterno.
Tutto era pulito, alle finestre le tendine lavorate all’uncinetto e perfettamente stirate, sui letti con le testate in ferro battuto le coperte di cotone erano state ripiegate con precisione millimetrica.
I muri esterni erano massicci e appena entrata aveva subito avvertito sulla pelle la piacevole sensazione dell’aria fresca nella penombra delle stanze.
Il frigorifero era pieno di cibi, ma lei aveva solo sete, aveva preso una bibita e si era lasciata cadere su una poltrona per godersi quella sensazione di benessere dopo il caldo, la stanchezza che le si era attaccata addosso durante il viaggio.
All’improvviso ebbe la sensazione di una presenza alle sue spalle.
La prima reazione fu di paura, ma poi, impulsivamente si alzò di scatto per guardare.
-Mi scusi signora, ho bussato, ma forse lei non ha sentito, e, poiché  la porta era aperta, sono entrata. Sono Brunora, con mio marito siamo i custodi della proprietà, abitiamo a poche centinaia di metri da qui. -
Era una donna piccola, piuttosto grassa, con i capelli corti, bianchi e leggermente ondulati, gli occhi nerissimi e penetranti come due spilli, doveva essere avanti con gli anni, ma il suo sguardo attento e l’espressione sorridente del viso la facevano sembrare più giovane.
-Abbiamo molti alberi da frutto e un orto piuttosto grande dove coltiviamo le verdure, non faccia complimenti, se ne serva pure. Facciamo anche il pane, una volta alla settimana,e lo cuociamo nel forno a legna, un sapore ben diverso da quello delle botteghe………, poi sa, ormai siamo vecchi e, anche se il paese è qui vicino, è sempre più faticoso affrontare la strada a piedi. -
Era rimasta incerta di fronte a quella apparizione: all’agenzia non le avevano detto niente dei custodi, almeno non ricordava, però l’idea di avere a disposizione prodotti genuini le piaceva e anche la possibilità di non doversi preoccupare della spesa.
-Se vuole, possiamo aiutarla anche nelle pulizie di casa, lo facciamo volentieri, che ci siano ospiti nella casa ci fa piacere anche perché nei mesi invernali non vediamo quasi mai nessuno.
Nella rimessa ci sono alcune biciclette, può scegliere quella che vuole e andare in giro qui intorno.
Ci sono tanti sentieri e vicino c’è anche il fiume, magari eviti la strada provinciale che è sempre molto trafficata e pericolosa. -
Aveva cominciato a rimandare il progetto di visitare i paesi circostanti e si era completamente abbandonata all’inerzia.
Eppure aveva scelto di venire lì proprio per la possibilità di spostarsi facilmente e di raggiungere, percorrendo pochi chilometri con la macchina, luoghi famosi per le loro tradizioni, ricchi di testimonianze storiche e artistiche, come del resto quasi tutti i paesi della Toscana, anche quelli più piccoli, dove una piazza, una chiesa, gli stretti vicoli lastricati di pietre tra i muri ravvicinati delle case, anch’essi di pietra, davano, con la loro solida eleganza, la sensazione che il tempo si fosse fermato.
I primi giorni era andata qualche volta al fiume per prendere il sole, ma poi aveva finito per rimanere a casa, a leggere in giardino, a chiacchierare con la Brunora che sbucava all’improvviso, si sedeva al suo fianco sulla panca di legno sotto la tettoia e le  raccontava la sua vita, le vicende della guerra, del marito partigiano che poi era diventato sindaco per tanti anni e della sua casa sempre aperta per chi aveva bisogno e non aveva da mangiare.
Aveva più volte pensato di andare in paese per comprarle dei dolci, un regalo, per sdebitarsi delle sue attenzioni, ma la Brunora stessa la dissuadeva.
- Ma che regalo vuol comprarmi, non ho bisogno di nulla e i dolci li so fare meglio del pasticcere.
Un tempo si c’era la miseria, i dolci si mangiavano una volta all’anno, per Natale e un pezzo a testa, non di più. Ricordo sempre di quella volta, io era la più piccola di otto fratelli, che mi permisero di scegliere per prima la mia pasta e io naturalmente scelsi la più grossa, purtroppo si erano dimenticati di riempirla con la crema………., altri tempi davvero, praticamente si viveva di castagne, quanta polenta abbiamo mangiato ! e noi, la mia famiglia, potevamo considerarci fortunati, avevamo la vigna, gli ulivi e persino la stalla per il somaro.
Abitavamo in paese allora, ci conoscevamo tutti, si viveva come una grande famiglia, la sera le donne si riunivano “a veglia” e noi ragazzi ascoltavamo le loro chiacchiere, le storie che raccontavano, chissà se ci credevano davvero: i fantasmi di casa “Falciani” che la notte strappavano le coperte dai letti, Pietro e Orsola precipitati per amore da una rupe che ora porta il loro nome, “sasso di Petorsola”,il buttero della Marsigliana che comandava ai diavoli, il brigante Stoppa che  dopo ogni rapina recitava il rosario……, la gente non era così cattiva allora, o forse lo era, ma non c’erano le occasioni, ci si accontentava di poco…….-
Il tempo passava alla svelta e via via che si avvicinava la data della partenza avvertiva un senso di disagio all’idea di andarsene, soprattutto al pensiero di dover lasciare la Brunora.
Non avrebbe mai immaginato che quella vacanza progettata quasi per mettersi alla prova, per affrontare da sola un ambiente diverso, per ricominciare a “camminare” si sarebbe risolta in quel modo, tre settimane di pigrizia, in balia di una vicemadre, che l’aveva viziata, tenendole compagnia, procurandole verdura fresca, addirittura cucinando per lei.
Il pomeriggio prima della partenza lo passò a fare i bagagli, cercando di riordinare gli oggetti che aveva sparpagliato in qua e là e non vide arrivare la sua vicina.
Sarebbe passata da lei la mattina presto.
Prima di uscire ripassò in tutte le stanze per controllare di non avere dimenticato niente, accostò le imposte delle finestre, caricò in macchina la valigia, chiuse a chiave la porta della casa e, una volta uscita, il lucchetto della catena che serrava il cancello.
Si rese conto di non essere mai stata a casa della Brunora, ma lei aveva parlato di poche centinaia di metri, non sarebbe stato difficile trovarla e comunque avrebbe domandato a qualcuno, nei campi c’erano sempre i contadini al lavoro, perché stavano raccogliendo le patate.
Chiese ad un gruppetto di operaie che stavano facendo colazione sul bordo dello sterrato.
Due di loro, le più anziane, si voltarono verso di lei, ma anziché rispondere rimanevano a fissarla con espressione incredula, disorientata.
-La Brunora? La moglie del sindaco? Ma è morta che saranno vent’anni. Morì, qualche mese dopo la figlia che si era ammalata di leucemia, morì di dolore, sembrava impazzita.
Continuava ad aspettarla sul bordo della strada, diceva che era in convalescenza in un ospedale lontano, ormai guarita, che sarebbe tornata da un giorno all’altro e ci avrebbe pensato lei a farle recuperare le forze con l’aria buona e i cibi che le piacevano tanto.
La casa è rimasta abbandonata per tanto tempo, cascava a pezzi, si era sfondato anche il tetto e l’avevano transennata perché c’era il pericolo di qualche frana.
La comprò un impresario da un lontano nipote e l’ ha ristrutturata per affittarla, soprattutto in estate.
Da qui la può vedere, è quel rustico di pietra, dietro quel vecchio cancello di legno.
Ma lei la conosceva la Brunora, è forse una parente?-

 Agosto 2001  

(racconti fantastici1)