Anthony GALT  

Sulle mie ricerche etnografiche condotte a Pantelleria tra il 1968 e il 1974*

 

    *Un sentito ringraziamento va agli organizzatori di questo convegno (Pantelleria e il Mediterraneo tenutosi al castello il 16 luglio del 2000 - N.d.E.) per averlo facilitato e per aver fatto possibile la nostra partecipazione. È proprio bello poter tornare a Pantelleria dopo tanti anni e fare la conoscenza di una nuova generazione di appassionati delle cose pantesche.

    Questa relazione vuole rivisitare le mie ricerche condotte a Pantelleria nel 1968-69, e successivamente, durante l’estate del 1974. Le ricerche erano la base della mia tesi di laurea per il dottorato di filosofia (Ph.D.) e da quel lavoro risultarono la tesi e sette articoli su riviste professionali. Non credo che queste mie opere siano conosciute fra i panteschi che si interessano in modo accademico della loro isola perché sono stati pubblicate in inglese e sono difficili da riferire fuori di una buonissima biblioteca universitaria. Al tempo della pubblicazione non esisteva una biblioteca comunale a Pantelleria, ma sempre mandai copie delle mie pubblicazioni alla Biblioteca Fardelliana di Trapani sperando che così sarebbero state a disposizione degli studiosi locali. Per l’occasione del convegno ho compilato per il Centro Culturale "Giamporcaro" una fotocopia di tutti gli articoli della serie e, adesso, almeno quelli che possono leggere l’inglese avranno un migliore accesso.

    Questa ricerca rappresentava i miei primi passi come antropologo culturale. Sono lavori giovanili. Bisogna anche ricordare che la base teorica della disciplina di antropologia è molto cambiata da quei tempi. Perciò certe analisi che feci nei miei articoli sulla vita contadina a Pantelleria mi sembrano ora piuttosto anacronistiche. Spero, però, che le notizie etnografiche contenute in queste pubblicazioni continuino ad interessare il nuovo pubblico specialmente di fronte al mutamento sociale che ha modificato certe tradizioni e usanze che ho descritto. Stasera siccome il tempo è limitato, riassumo solo una parte di quello che scrissi di una Pantelleria che esisteva quasi trent’anni fa prima della crisi agricola degli anni ‘70.

    Con mia moglie Janice arrivai nell’isola il giorno 29 Ottobre del 1968. Con l’aiuto di parecchie persone trovammo una casa nel cuore della contrada di Khamma dove condussi la maggior parte del mio "lavoro sul campo". Anche, durante quei primi giorni a Pantelleria, conobbi il Professor Henri Bresc che visitò l’isola al tempo della sua ricerca a Palermo. Diverse volte, durante quel soggiorno in Italia, il Professor Bresc ci ospitò nel suo appartamento a Palermo quando sentimmo il bisogno di un po’ di vita urbana.

    Il lavoro dell’antropologo culturale consiste nello stare sul posto a fare l’osservatore partecipante e l’intervistatore. Io avevo fatto il terzo anno di università all’Università di Padova e parlavo italiano. Con l’aiuto di alcuni amici panteschi cominciai ad apprendere anche qualche parola del dialetto pantesco. Mia moglie non conosceva ne l’italiano ne il dialetto locale ed alimentava la sua capacità di comunicare con le donne di Khamma imparando a fare la maglia e giocando alle mandorle. I soci del Circolo Concordia di Khamma, ci invitarono a diventare soci durante il nostro soggiorno e, lì, partecipammo alle sette notti del carnevale. Alcune famiglie ci adottarono e ci ospitarono spesso. Tornai di nuovo nell’isola nell’estate del 1974, con un collega che è un economista, per svolgere una ricerca sulla popolazione e la fecondità. Da quell’estate in poi non sono più venuto a Pantelleria perché mi concentrai su una lunga ricerca a Locorotondo, in Provincia di Bari, ed ora sto cominciando un’altra nella provincia di Lucca.

    La tesi di laurea per il dottorato fu uno studio della contrada di Khamma come ente sociale. In quei tempi gli antropologi culturali americani e inglesi tendevano ad analizzare le entità sociali, come villaggi di contadini, come se fossero sistemi, utilizzando un’impostazione teorica che si chiama il funzionalismo. Si tentava di capire come le varie istituzioni sociali "funzionavano" insieme, e quale "funzione" sociale avevano le particolari istituzioni. Questo paradigma teorico è ormai sorpassato ma fu quello che avevo in testa quando arrivai a Pantelleria e che probabilmente coloriva le mie osservazioni. Nella tesi tentai un ritratto integrale di Khamma come sistema sociale, concentrandomi specialmente sui vari aspetti della parentela ed i ruoli sociali che la compongono. Nel capitolo finale della tesi esaminai il ruolo del carnevale pantesco nel sistema sociale.

    Questo appunto fu il soggetto del mio primo articolo pubblicato. Bisogna capire che negli anni ‘60 la letteratura antropologica e sociologica dedicata al mezzogiorno era scarsa. C’erano i lavori del grande studioso italiano Ernesto de Martino—Sud e Magia(1959), e La Terra del Rimorso (1961), fra gli altri. In lingua inglese sul mezzogiorno non c’erano che pochi articoli sparsi qua e là nelle riviste specializzate. In lingua inglese il libro più conosciuto sul mezzogiorno fu scritto da un scienziato politico che si chiama Edward Banfield ed intitolato etnocentricamente (traducendo dall’inglese) La base morale di una società arretrata (1958). In questo studio di un paese della Basilicata, Banfield asseriva che la mentalità della gente del mezzogiorno era caratterizzata da un modo di pensare che lui chiama "il familismo amorale," secondo cui le persone agiscono solamente pensando al bene della loro famiglia e solo per il futuro immediato. Cioè, per Banfield, i meridionali erano incapaci di funzionare in un gruppo più grande della famiglia e incapaci di progettare per il futuro, e questa mentalità era per lui la fonte della miseria del mezzogiorno degli anni 50-60.

    Perciò progetto importante per noi antropologi culturali e sociali, compiute le ricerche basate sulle osservazioni nel campo, era lanciare un dibattito critico con Banfield che secondo noi faceva un’interpretazione troppo semplificata e attribuiva le cause della miseria alla vittima, senza considerare le realtà storiche del mezzogiorno o la possibilità che esistessero istituzioni collettive nei paesi meridionali. Il mio articolo sul carnevale non fu storico, ma io volevo esplorare il contrasto fra quello che chiamai "l’atomismo," cioè l’agire solamente per gli interessi dell’individuo e dela famiglia, e la vita sociale più allargata. Sostenni che il carnevale, come celebrato nel circolo sociale a Pantelleria, specificamente a Khamma, rappresentava nel corso dell’anno un momento in cui si celebrava la vita sociale o collettiva del villaggio. Anche se osservai che la vita sociale di Pantelleria era caratterizzata da un certo grado di atomismo ("menefreghismo," come dicevano i miei amici), c’erano anche nelle contrade le istituzioni collettive: i circoli, che avevano funzioni a livello sociale più largo della famiglia nucleare. Per la celebrazione degli sposalizi e dei funerali: come luogo comune per guardare la televisione (che nel ’68 quasi nessuno aveva in casa) ma, soprattutto, forse, per festeggiare il carnevale. Le persone di Khamma e Scauri mi parlavano del carnevale come l’avvenimento più importante dell’anno. Era chiaro, parlando con la gente, che andare a ballare per le sette notti di carnevale era una norma della vita sociale e quelli che non volevano farlo —cioè quelli che si comportavano in modo atomistico- venivano criticati abbastanza severamente. Osservai che c’era quasi uno scambio simbolico di mogli (idea influenzata molto dal grande antropologo francese Claude Lèvi-Strauss) fra gli uomini del circolo. La mia interpretazione fu che gli uomini accompagnavano le loro donne alla festa e le mettevano a disposizione degli altri uomini del circolo e dei visitatori, ma entro circoscrizioni comportamentali molto strette. Bisogna ricordare che c’era nella sala un "coro" di donne anziane che ballavano poco e non avevano altro da fare che guardare e commentare quello che succedeva davanti ai loro occhi. Effettivamente, scrissi, si trattava di una simbolica reciprocità generale di donne. Secondo la teoria antropologica dell’epoca una tale reciprocità univa la società e creava comunità. Ci furono altri punti nell’articolo, e naturalmente una descrizione dettagliata di quello che si faceva durante la celebrazione, ma questo era l’essenza. Era chiaro che a Pantelleria, almeno, non mancava l’idea di una vita sociale fuori della famiglia nucleare. Non si poteva affatto caratterizzare i panteschi come seguaci del cosiddetto "familismo ammorale" di Banfield.

    Per essere breve salto il mio secondo articolo che è forse di minore interesse qui perché vi sviluppavo una teoria generale del clientelismo. Anche se utilizzai i dati raccolti a Pantelleria, questa era una teoria applicabile alla società in genere e non specificamente all’isola.

    Nei tre articoli che seguirono mi concentrai su questioni di ambiente e popolazione. Il mio primo articolo ecologico fu di semplice natura descrittiva. Mentre stavamo a Pantelleria nel 68-69, mi dilettavo ad andare qua e là raccogliendo le piante selvatiche per portarle a casa ed identificarle. Poi, mia moglie, nei gruppi di donne che frequentava, fece le interviste per scoprire se le piante che raccolsi avevano utilità o significato per le persone della frazione. Feci qualche intervista pure io con gli uomini. L’articolo, che appare su la rivista Economic Botany s’intitola "L’uso contadino di alcune piante selvatiche nell’Isola di Pantelleria, Sicilia." Un altro articolo, scritto da Francesco Catanzaro (1968), botanico italiano, fu pubblicato nel 1968 e descriveva solamente le piante officinali delle quali i panteschi facevano uso. Il mio articolo andò al di là degli usi medicinali per considerare altri tipi di utilizzazione delle piante selvatiche come, per esempio, verdure, mangimi, giocattoli per bambini, legna, inchiostro, legname, e pozioni più magiche che medicinali. Mi interessai anche dei significati culturali delle piante e così inclusi anche quelle che avevano le connotazioni negative come erbacce, e anche alcune usate simbolicamente, come per esempio, nel gesto e modo di dire pantesco raccolto dalla gente che consiste nel fingere di sputare le ghiande dicendo "bballuti! (la parola locale)," per significare una cosa senza valore. Identificammo e descrivemmo ben 74 piante, dall’acitilia alla zabbara, raccolte nella zona di Khamma. Era chiaro che ancora, alla fine degli anni sessanta, i contadini usavano molte piante selvatiche oltre a quelle che coltivavano.

    Nel secondo articolo della serie tentai di fare un discorso più teorico. La letteratura sulla società contadina del tempo lamentava spesso, e definiva come problema da risolvere, la polverizzazione dei campi tramite il costume di dividere ugualmente fra i figli il patrimonio ereditato dai genitori. Nel mio articolo, "L’esplorazione dell’ecologia culturale della polverizzazione e sparpagliamento dei terreni nell’Isola di Pantelleria," sostenni che per i contadini di Pantelleria almeno, ed al momento storico in cui ci trovammo sull’isola, questo fenomeno era vantaggioso, in diversi modi, finché il numero di figli in una famiglia veniva controllato. L’articolo inizia con una descrizione dettagliata della coltura delle viti e dei capperi che osservavo durante il mio soggiorno e su cui feci varie interviste. Svolsi un sondaggio a campione con 123 famiglie per raccogliere una varietà di notizie sulla viticoltura e la vita familiare e da questo determinai che, nella media, una famiglia aveva 6 terreni sparse in 4 ecozone dislocate e differenziate per altitudine e posizione.

    Il millenovecentosessantanove fu un anno in cui tutto non andava bene per le vigne. C’era la siccità primaverile e persone che conoscevo e che avevano terreni vicino al mare persero una parte del raccolto. Poi piovve molto durante la vendemmia causando ai viticoltori la preoccupazione di vedersi abbassare i prezzi imposti dalla cooperativa e dalle cantine private, per le uve ammuffite. Quello che osservai fu che la maggior parte delle famiglie avevano i loro terreni sparpagliati qua e là nell’isola e che, anche se persero una parte del raccolto, o realizzavano meno da quell’uva che potevano tagliare, avendo altri vigneti in altre zone realizzavano almeno qualcosa. Cioè il dislocamento dei terreni serviva come una specie di assicurazione contro un anno in cui tutto venisse perso riducendo così il rischio. Lo sparpagliamento o il dislocamento delle vigne fra le varie altitudini dell’isola voleva anche dire che la vendemmia aveva luogo durante un periodo che cominciava vicino al mare verso il 10 Agosto e finiva sulle khuddie verso la fine di Settembre permettendo al viticoltore di estendere la manodopera sua e quella della famiglia per tutto il tempo diminuendo la necessità di assumere braccianti agricoli, che in quei tempi, erano pagati bene poiché pochi si identificavano con questa categoria e perché cominciava ad esistere una richiesta di manodopera nel settore del turismo. La maturazione zuccherina differenziale dell’uva, di zona in zona, permetteva anche lo scambio di lavoro fra parenti -cognati e fratelli-; fattore che osservai durante la vendemmia del ’69, quando fu necessario tagliare l’uva in fretta perché c’era il rischio della muffa nelle vigne bagnate dalla pioggia.

    Per mantenere un tale sistema, però, è necessario che la quantità di terreno posseduto dalle famiglie contadine non si riduca di generazione in generazione tramite le divisioni del patrimonio fra numerosi figli. Dal mio sondaggio dell’estate di 1969 era chiaro che c’era una tendenza centrale verso la nascita di due o meno figli fra i coltivatori diretti. Naturalmente se una coppia produce due o meno figli, e ciascuno di questi figli è dotato di una certa quantità di terreno e si sposa con un individuo che porta all’unione una quantità di terreno più o meno uguale, seguendo il proverbio sentito a Khamma, "Pari pîgghîa pari". Così facendo la quantità di terreno disponibile alla generazione seguente non si riduce. Anzi, se una coppia produce un figlio solo (che era in quei tempi il numero più comune di figli fra i coltivatori diretti) la quantità di terreno che riceve la generazione successiva, aumenta. Quindi alla fine degli anni sessanta, prima della crisi agricola che doveva per ragioni varie venire, sostenni che la popolazione contadina adoperava una strategia adattiva per portare avanti il suo modo di vita.

    Il terzo articolo della serie, pubblicata sulla rivista internazio-nale Population Studies riprese questo tema, ma sulla base di un altro sondaggio a campione di 166 famiglie che condussi sull’isola durante l’estate di 1974 con il mio collega Larry Smith, un economista che allora si specializzava nella demografia. I risultati dimostrarono una fecondità bassa e coerente, con i risultati di prima. Citammo la spiegazione descritta sopra per spiegare queste tendenze centrali demografiche e le cause di una transizione demografica a Pantelleria che precedeva quella della Sicilia. Per spiegare la variazione attorno a queste tendenze centrali adoperammo una procedura statistica che utilizzava un complesso di variabili per predire il numero di figli prodotti dalle famiglie individuate. Posso rapportare che le variabili che avevano una relazione più forte con la produzione di figli erano la ricchezza della famiglia, il grado di comportamento consumistico della famiglia, l’età della madre al momento del matrimonio. Cioè più alta la ricchezza (terreni e altri mezzi di produzione), più basso il numero di figli. Questo concordava con l’idea che i possessori di terreni cercavano di salvaguardare il patrimonio familiare dalla divisione eccessiva. Più alto l’indice di comportamento consumistico (possesso in quei tempi di elettrodomestici, TV, macchine, ecc.) più alto il numero di figli. Vuol dire che i genitori non limitavano il numero di figli per poter acquistare beni non produttivi. Invece, sembrava dal punto di vista etnografico che fossero spesso i figli a spingere i genitori verso gli acquisti. Cioè più figli più mangiadischi. Per finire, più alta l’età della madre al matrimonio, più basso il numero di figli, che non è sorprendente dal punto di vista biologico, ma c’era anche una relazione un po’ meno forte fra l’età del padre al matrimonio ed il numero di figli prodotti che probabilmente spiegava la necessità di accumulare la proprietà dotale. Anche questo era coerente con l’ipotesi che quelli che avevano un patrimonio agricolo da salvaguardare si comportavano in un modo più ristretto.

    Il mio penultimo articolo su Pantelleria fu un’analisi della stratificazione sociale dell’isola. Osservai uno spirito di uguaglianza fra la gente che non mi sembrava tipica del mezzogiorno dove altri antropologi e sociologi descrivevano sistemi di stratificazione fortemente basati su un concetto di ceto sociale piuttosto rigido. Infatti, nel 68-69 per raccogliere informazioni sulla stratificazione tentai di applicare certi metodi che i colleghi avevano usato in altri luoghi nel mezzogiorno, ma non funzionavano bene qui. Quelli che intervistavo non ammettevano facilmente che c’erano forti differenze di ceto sociale. Dicevano "Semu tutta brava genti," e "ca quasi quasi semu tutti uguali." Parlavano anche metaforicamente della società come una "spincia" -un dolce locale a forma di ciambella- la maggior parte delle persone si trovavano proprio nell’anello della ciambella, pochi stavano nel centro, e pochi stavano fuori dell’anello. L’immagine che emergeva era allora di una classe media-grande formata da piccoli proprietari, artigiani, ed altri. C’era anche un ceto elitario, composto di professionisti che si trovava più concentrato nel capoluogo e un gruppo di famiglie "alluntanati" dalla società perché avevano in un modo o l’altro perso la reputazione. In quegli anni un antropologo inglese -John Davis- aveva appena pubblicato la sua grande sintesi dell’antropologia mediterranea (People of the Mediterranean, 1977) in cui offrì uno schema per analizzare la stratificazione sociale. Disse che l’ineguaglianza si poteva dividere fra tre categorie analitiche: la classe sociale, la burocrazia, e l’onore. Per Davis, come per Marx, la classe sociale dipendeva del controllo dei mezzi di produzione, cioè della ricchezza, ed era una cosa che durava a lungo. L’idioma della burocrazia dipendeva, invece dal controllo di accesso a livelli amministrativi più alti ed ai beni che ne potevano fluire alla gente. Cioè si trattava delle relazioni clientelari. L’idioma dell’onore dipendeva dalla reputazione degli individui e delle famiglie a livello locale. L’utilità dello schema era nel determinare la combinazione giusta di cose che meglio descriveva la stratificazione in un singolo luogo. Io asserii che a Pantelleria la stratificazione era meglio spiegata invocando la burocrazia e l’onore. La ricchezza -più che altro il possesso dei terreni- era distribuita abbastanza ugualmente e dimostrai questo calcolando da varie fonti, compreso i miei sondaggi, una statistica -la coefficiente Gini- che dava un’idea del grado di uguaglianza o disuguaglianza di una distribuzione di beni. Potevo così fare un confronto con altri luoghi siciliani e mediterranei che mostrava come, infatti, a Pantelleria si godeva di una diffusione piuttosto uguale del principale mezzo di produzione. C’erano pochissimi che possedevano grandi terreni. Invece, molte famiglie godevano l’indipendenza economica ma con fazzoletti di terra. Confrontando i coefficienti Gini di Pantelleria con quelli degli altri comuni nella Provincia di Trapani si trovò che stava fra le due cifre più basse. (Un coefficiente Gini basso vuole dire più ugualianza.) La concentrazione fra poche mani della ricchezza terriera che era la situazione che esisteva tradizionalmente in Sicilia e che coloriva la stratificazione sociale molto più pronunciata lì, non esisteva a Pantelleria.

    Invece, la stratificazione si esprimeva più nei comportamenti burocratici e secondo l’idioma dell’onore. Mentre la stratificazione basata su ceto sociale è più rigida perché le circostanze economiche cambiano solo lentamente, la stratificazione per via "burocratica" può cambiare con i mutamenti politici e gli individui e le loro famiglie possono perdere posizione in società precipitosamente perdendo l’onore.

    Conclusi l’articolo con una discussione dello sviluppo della piccola proprietà a Pantelleria per meglio illustrare la differenza con la Sicilia occidentale. Fu una discussione storica che purtroppo si basò sulle fonti pubblicate e non nella ricerca sull’archivio. Il tempo disponibile è troppo breve per fare un riassunto di questa parte dell’articolo.

    Nell’ultimo articolo della serie su Pantelleria ho cambiato direzione un po’ per analizzare una credenza popolare, il malocchio. Ho pubblicato l’articolo, "Il malocchio come immagine sintetica e i suoi significati nell’Isola di Pantelleria" sulla rivista American Ethnologist nel 1982. È probabilmente l’articolo mio più citato da altri studiosi. Cominciai lanciando una critica a due altri approcci dell’interpretazione del malocchio nel Mediterraneo. Il primo era di Vivian Garrison e Conrad Arensberg (1976). Loro asserirono che il malocchio in tutta la zona del mediterraneo rappresenta simbolicamente la relazione sociale clientelare. Questa tesi mi sembrava troppo generale, specialmente perché le credenze e i significati associati al malocchio variano di luogo in luogo. Un altro collega –Michael Herzfeld (1981)- negava quest’idea in un suo articolo sulla Grecia in cui asserì che il malocchio si può analizzare solamente partendo dalla scena sociale molto locale. Per lui le generalizzazioni che andavano al di là del livello del villaggio isolato erano impossibili. Invece, d’accordo con Herzfeld sull’analisi locale che era la migliore, ma senza trascurare l’idea di un’impostazione più larga, sostenni anche che il malocchio abbia una certa coerenza nel mondo mediterraneo e che era utile adoperare il concetto dell’immagine sintetica proposta da l’antropologo sociale inglese Rodney Needham. L’immagine sintetica consiste di una collezione di stimoli simbolici (lui li chiama "fattori primari") che, insieme, hanno una presenza in un universo etnografico che può comprendere diverse società. Per togliere l’invidia, fondamentale nel malocchio come immagine sintetica, sarebbe l’atto di fissare coll’occhio, combinato con la possibilità di fare male magicamente. L’immagine sintetica contiene anche l’idea della protezione con amuleti e gesti e l’idea della diagnosi con profilassi e cura. Sostenni nel mio articolo che un complesso che ha queste caratteristiche esiste in una larga zona mediterranea e anche europea, e che si potrebbero fare delle interpretazioni a livello locale esaminando quali, fra i vari fattori primari, riceve più enfasi. Cioè l’idea del malocchio come immagine sintetica generava delle domande metodologiche che l’antropologo potrebbe fare nelle sue ricerche. Nel villaggio greco studiato dal mio collega Herzfeld era chiaro che erano l’identità e le qualità morali dello "jettatore" che la cultura locale sottolineava. Invece, a Pantelleria, secondo i miei studi etnografici, erano l’invidia, la profilassi e la cura che suscitavano più interesse per la gente nella loro elaborazione simbolica dell’immagine sintetica del malocchio.

    Secondo le mie interviste a Khamma, e anche a Scauri, l’identità dello iettatore non era molto importante. Se una persona era sospetta di aver "pigghiatu" un’altra persona o un oggetto, ad occhio, la sospensione non portava con se un giudizio morale. La donna che curava il malocchio a Khamma-Centro, ‘Za Fidila, spiegò che ogni persona ha un periodo di tempo in cui può infliggere agli altri il malocchio per via di un atto d’invidia. Questo potere può passare di persona in persona senza che l’interessato se ne accorga. Sentii sostanzialmente la stessa spiegazione a Scauri, dove mia moglie, una mattina, avendo ammirato verbalmente una mucca una mattina, il giorno dopo fu richiesta di visitare la bestia, che aveva smesso di dare latte, per disincantarla con una frase magica. Però mia moglie non fu considerata maligna dalle persone locali.

    Invece, quello che notavo a Khamma era che c’erano certe persone che mostravano un grado elevato di preoccupazione all’idea di essere "preso ad occhio", cioè afflitto dal malocchio. Parlavano spesso di essere stati colpiti oppure mostravano la preoccupazione esibendo pubblicamente amuleti e gesti profilattici. Una donna raccontò la sua storia di esser stata colpita così fortemente che i servizi della curatrice locale non bastarono a guarirla e fu necessario fare un viaggio in una grande città nell’Italia continentale per procurarle l’aiuto. Da queste osservazioni sono arrivato a un’interpretazione quasi psicologica. Seguendo altri antropologi che sottolineavano l’idea di trarre un significato da atti di comportamento pubblicamente osservabili mi chiesi quali significati potevano trasmettere il comportamento che avevo osservato attorno alla credenza del malocchio. Naturalmente il significato opera su diversi livelli. C’era il livello manifesto: un tizio che si presentava dalla curatrice locale (un atto osservabile almeno dalla curatrice e forse dai vicini di casa) cercava una diagnosi e cura, cioè cercava di alleviare certi sintomi convenzionalmente identificati con il malocchio come il mal di testa. Ma l’atto di cercare una tale cura trasmetteva anche altri messaggi a livello psicologico individuale data la forza motivante principale del malocchio, l’invidia. Essere pubblicamente preoccupato con la possibilità di essere "pigghiatu ad occiu" poteva anche funzionare come una dichiarazione di valore personale perché per essere preso dal malocchio una persona deve essere stato invidiato, e per essere invidiato deve dimostrare alcune qualità positive agli occhi degli altri. Un individuo che mostrava amuleti si dichiarava un probabile candidato per l’ammirazione degli altri. Una persona con una diagnosi positiva di malocchio pronunciata dalla curatrice locale, il potere della quale era considerato sacro, si dimostrava di essere stato invidiato dagli altri per qualche qualità personale positiva.

    Nell’antropologia simbolica c’è un concetto che si chiama la liminalità, parola che deriva dal latino liminis, che significa "soglia," che in antropologia significa figurativamente proprio "stare sulla soglia" -né fuori né dentro. Cioè essere nello stato liminale significa essere né tutto questo ne tutto quello. Osservai che le persone che dimostravano una preoccupazione elevata col malocchio erano in un certo senso persone liminali perché si trovano ai bordi delle categorie sociali già descritte. In un caso in particolare la società locale riconosceva un tizio come partecipante nel ceto medio del villaggio solo precariamente. Egli mostrava una preoccupazione particolarmente intensa con la possibilità di essere vittima del malocchio. In un altro caso, una giovane donna si trovava sul margine fra il ceto medio del villaggio-contrada e la società più elitaria del porto-capoluogo. Era questa che ebbe bisogno di viaggiare nell’Italia continentale per trovare una cura. Così per certi individui liminali dimostrare una preoccupazione per essere vittima del malocchio poteva essere interpretato come una specie di strategia nel gioco della stratificazione sociale per dimostrare il valore e perciò l’appartenenza a una categoria sociale più elevata. Probabilmente questa interpretazione del malocchio a Pantelleria negli anni sessanta non esaurisce gli altri possibili significati del fenomeno in quei tempi. Infatti, aggiunsi all’articolo il punto che tali significati probabilmente cambiano coi tempi. Negli anni in cui ero presente nell’isola molte persone cominciavano a fare i primi acquisti consumistici. Fra la mia prima visita nel 1968 e la seconda nel 1974 ci fu, per esempio, un’esplosione di acquisti di televisori. Nel piccolo ufficio postale a Khamma c’era sempre un mucchio di pacchi di roba che arrivavano dalla catena distributrice della Postal Market. Si può immaginare che in una tale atmosfera questioni di invidia venivano in primo piano e che per certi individui il complesso simbolico del malocchio poteva servire come una strategia per asserire il valore personale nella competizione locale per i beni.

    Questa fu l’ultima cosa che ho scritto su Pantelleria. Spostai le mie ricerche negli anni ottanta a Locorotondo il paese dei Trulli in provincia di Bari, e lì ho continuato a battere strade tematiche e teoriche iniziate nel mio lavoro giovanile a Pantelleria. Avendo sempre periodi di tempo molto limitati per il lavoro, e anche mezzi finanziari circoscritti, non sono mai potuto tornare qui. Per questo sono molto riconoscente agli organizzatori di questo convegno per l’opportunità di rivisitare l’isola ancora una volta ed aggiornarmi un po’ di tutti i mutamenti avvenuti dagli anni ‘70 ad oggi.

A.G. Professor of Social Change and Development and Anthropology -University of the Wisconsin at Green Bay, U.S.A.

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