Copertina Llibre ArcdelDies

Presentazione al chiostro di

San Francesco nel 

Settembre 2001

Sono onorata, ma forse è più semplice dire che sono contenta di stare qui stasera a parlare della poesia di Antonio Canu : una poesia di cui so la genesi, di cui conosco le origini e che ho seguito nel suo farsi durante anni.  

Incontrai per la prima volta Antonio una sera d’ottobre del ‘90 nella casa di campagna di Giovannina e Ciro Fadda. Antonio, come ho già raccontato in altra occasione, mi venne incontro con un singolare omaggio floreale, due rametti di gerani rossi che egli aveva sottratto all’orto di Giovannina. Il giorno seguente, accompagnandoci al Santuario di Valverde, mi disse che da qualche tempo aveva cominciato a comporre versi. Me li diede. Li lessi, mi piacquero. Gli eventi quotidiani erano cantati attraverso la verità dell’emozione, con immagini di grande freschezza e una rara potenza comunicativa. Mi piacquero, dicevo, e da Roma glielo scrissi, augurandogli anche di vederli presto pubblicati.  

Cinque anni dopo, nel 1995, usciva la sua prima raccolta, Poesies, che fu presentata proprio in questo chiostro, con lettura di alcuni testi e con felice accompagnamento musicale di Ciro. Il libro fu molto ben accolto, in Italia e all’estero, ed ebbe vari riconoscimenti.

Comunque, credo, che non fu solo il successo a spingere Antonio Canu a perseverare nel cammino poetico. C’era, effettivamente, in lui una ineluttabile urgenza a dar voce alle sensazioni che il mondo gli suscitava dentro, un impulso costante a dar corpo ad una realtà che egli coglieva immergendosi nello scorrere del vitale e del quotidiano.

Così a Poesies seguirono anni di laboriose sfide alla parola poetica e nel natale del 2000, a cinque anni di distanza dalla prima (il 5 pare un numero fatidico per Antonio) è uscita la seconda raccolta, En l’arc dels dies.

Il titolo è tratto da una poesia contenuta in questo stesso volume, e come tutti i titoli indovinati sottolinea la dominante della dimensione lirica di Canu: il fluire dei giorni, ovvero la vita quotidiana come luogo della permanente autenticità della vita.

Anche questa raccolta è molto bella. Potremmo dire che Antonio Canu crescit eundo: in altri termini, la sua cultura poetica, pur nella coerenza di stile e di concetti, è andata man mano maturando, ad esempio nel gioco delle immagini e dei significati, in certi espedienti formali, nella levità del ritmo, etc. etc.

Dunque, in quell’ottobre di tanto tempo fa, quando scrivevo ad Antonio di insistere nel poetare, avevo visto giusto. E questa mia convinzione è stata poi negli anni confortata dai molti riconoscimenti che egli ha avuto in patria e fuori, e dai giudizi sempre lusinghieri espressi da persone di ben più altto prestigio che non il mio, tra gli altri, scrittori e poeti di fama mondiale: citarli tutti sarebbe lungo e inutile. Ma almeno quattro vorrei ricordarli, a cominciare da Eugénio de Andrade, suprema voce lirica del Portogallo contemporaneo, Mario Rigoni Stern, che ha definito i versi di Antonio “di luce e di speranza”, Jorge Amado, Alvaro Mutis.

E a coronamento di tanto onore, si aggiunge la segnalazione al prestigioso e ambíto Premio Mondello : segno che la poesia di Antonio Canu ha definitivamente superato i confini insulari, proponendosi come canto assoluto.  

In questa avventura, Antonio ha avuto un partner d’eccezione, Manlio Masu, che con i suoi disegni ha reso visiva la realtà poetica dei testi, come del resto era accaduto nel primo volume, quasi un’eco che si è propagata attraverso gli anni. Manlio, da grande artista qual è, ha colpito il fulcro dell’intera prassi poetica di Antonio: basti vedere la copertina del libro, in cui è sì riconoscibile un paese, un paese di montagna, ma è soprattutto un’indovinata sintesi, un felice compendio della grammatica poetica di Antonio, delle sue figure, dei suoi stilemi, delle sue invenzioni, della sua luce. Detto questo, va aggiunto che Manlio Masu partecipa al gioco creativo come interprete umile (l’umiltà è prerogativa dei grandi), rispettando cioè le scelte espressive del poeta, sempre. Egli è rigorosamente attento nel dosare il tratto, nell’organizzare le dinamiche di tutta l’orchestrazione figurativa secondo una quadratura aliena da ogni eccesso. Un interprete che evita di indulgere a prevaricazioni sul testo, che non cade mai nella rete pur seducente della presunzione. Insomma, Manlio accompagna il testo, creando così un tale equilibrio tra parola e immagine da produrre una forte intensità emozionale.

Dietro, la sapiente regia di Antonio Nughes, cui questo libro, come del resto il precedente, deve molto, a cominciare dall’entusiasmo che ha portato Canu a fare il salto dal sardo all’algherese e a diventare un importante poeta in questa lingua: “Antoni Canu, de llengua mare sarda, i per això  fill natural de la comunitat i de la cultura dels sous pares, ha volgut ésser, a tots els nivells i en la manera més profunda, fill també de l’Alguer, pàtria d’adopció: per això ha elegit com sua la llengua de la comunitat que l’ha acollit, i n’ha fet l’instrument privilegiat per comunicar les emocions i les sensacions més íntimes de la sua experiència poètica”.

Seconda premessa, che sembra in parte contraddire quel che ho detto all’inizio, ovvero che ero contenta di star qui a parlare della poesia di Antonio Canu.

In verità, io non amo le presentazioni di un’opera letteraria, sia che le faccia sia che le subisca. Perché ritengo che il rapporto tra il lettore e il testo sia un rapporto privato. Ed è quantomeno imbarazzante mettersi in mezzo tra i due. Bisognerebbe lasciare che il testo dicesse il suo messaggio, a livelli consci e inconsci, nella maniera più diretta, lasciare insomma che ciascun lettore scoprisse autonomamente il senso del testo che legge, senza suggerirgli un atteggiamento, una scelta.

Un’opera letteraria va letta, non va raccontata. Il grande romanziere russo Leone Tolstoij, ad una signora che gli chiedeva di raccontarle la trama di Ana Karenina, rispondeva che se avesse dovuto esaudire quella richiesta, avrebbe dovuto ripeterle il romanzo parola per parola dal principio alla fine, senza cambiare neppure una virgola. Così è. L’opera letteraria è, tutto sommato, irraccontabile.

Proprio per questo, mi è parso opportuno non imporre una esegesi, un’interpretazione delle poesie di Canu, quanto piuttosto di incentrare questo incontro sulla lettura di alcune liriche, per permettere a chi ascolta un approccio diretto, senza imporgli un giudizio aprioristico.

Mi limiterò pertanto a fare alcune considerazioni, sperando che non risultino pesantemente didascaliche e ricordando che esse sono appena e soltanto una mia interpretazione, non l’Interpretazione.

A mio avviso, e l’ho scritto nella prefazione, in questo secondo volume di versi Antonio Canu riprende temi e forme già esperiti in Poesies, affermandosi pertanto come poeta della continuità più che della metamorfosi. Ciò non significa che egli sia un mero ripetitore di se stesso. Significa, invece, che tra l’una e l’altra raccolta v’è un’intima coerenza del tessuto poetico, un filo conduttore che rende riconoscibile l’identità del suo autore, un’identità non scalfita, anzi esaltata dalle variazioni che intervengono in questo secondo libro.

Qui, come nel primo, si riaffaccia insistente l’esperienza vissuta, o nostalgicamente ricuperata, la celebrazione del quotidiano, il passato riconquistato attraverso l’esercizio memoriale.

Per comodità e semplificando molto, potremmo individuare tre poli attorno ai quali si costruiscono le poesie di Antonio :  

1. eventi passati, cui ridà vita una memoria emozionale;

2. eventi presenti (dal fatto di cronaca all’esperienza di lavoro, al viaggio, al film);

3. evocazione di persone e di personaggi.

— Iniziamo con la lettura di alcuni testi, che hanno come argomento il passato riacquistato attraverso un ricordo nostalgico:

Infanzia  

Sono cresciuto

al doloroso sgranarsi

delle avemarie,

che andavano e venivano

come i nuovi solchi

aperti dall’aratro.

Le orazioni

sono state il mio pane,

riempivano lo spazio

in cui vivevo

e la casa dell’anima,

dove afferravo

i peccati per la coda

facendoli volteggiare

come aquiloni.

La terra

La mia seconda madre

è stata la terra,

la terra che reggeva le messi,

ampia e bionda marea

che ho abbracciato

per amarla e non perderla.

Mi fu maestro l’aratro

padrone del solco

e della terra fumante

dove riposa il seme

e il mio sogno.

Sono stato spiga del campo,

del sole e delle stelle,

e qui sto nella terra

dove il tempo

va consumando gli anni,

asciugando le radici

dove dimora il pulsare della vita.

Mutos de ispera

Mi ricordo di contadini

che partivano alla guerra

con l’età verde negli occhi,

e portavano l’emblema della terra

inciso dentro il petto.

Partivano con il sole di luglio

cantando mutos de ispera

che bucavano il cielo.

Le madri già aspettavano

negli antichi nuraghi

sgranando litanie

al Dio degli eserciti.

Nel campo le spighe

balenavano di giallo e d’oro,

mare fluttuante

dove sognano le lepri.

In queste poesie, come in tutte le altre che girano sullo stesso cardine, quel che colpisce è soprattutto la forte tensione espressionistica ottenuta mediante inedite figurazioni metaforiche: le avemarie che vanno e vengono come solchi aperti dall’aratro, i peccati che presi per la coda volteggiano come aquiloni, i campi di grano divengono “mare del vivo pane” o “porto delle spighe”, le spighe si fanno “vestali nell’Olimpo dell’oro”, i contadini “calzano il frumento”,  i canti “invadono le stelle”, i giovani vanno alla guerra con “l’età verde negli occhi”, la speranza “con mani nodose / accende uno a uno / i papaveri / come i ceri a Pasqua; forse tra le più suggestive rappresentazioni includerei quella del trascorrere della vita, che come “flotta di anni / approda al porto / delle mie spalle”.

Il linguaggio che Antonio Canu usa è familiare, consueto: eppure esso si muta in insolito, originale, in una parola “poetico” attraverso accostamenti verbali inattesi: ne cito solo alcuni, anche se essi costituiscono il tratto più assiduamente frequentato dal poeta: “azzurra adolescenza”, “spiga di luce”, “sbrigliato scirocco”, “sonno recinto”, “conchiglia del cuore”, “calore giallo”, “ruvido sole dell’estate”,  e via dicendo.

— Al di là di un passato mitizzato, il poetare di Antonio Canu in questo secondo libro si apre ad avvenimenti del presente, che però esulano dal microcosmo domestico e gli dettano dentro emozioni forti, espresse con chiaroscuri di drammaticità. Una drammaticità, comunque, sempre guidata, sempre controllata da una naturale e invincibile tendenza alla letizia.

Evento può essere la visione di un film. Penso ad “Ada” :

Tra le dita

le scivolano le note di Chopin,

inquiete si librano in volo

e dilagano nell’azzurro.

Sulla spiaggia si fa vivo l’incanto

e sostano le onde del mare

e nel cielo le nubi maestose.

Immagine di sogno,

concerto luminoso che vibra.

E dalla terra l’anima si leva

nell’aria estasiata,

guarda vibrare le mani sonore

e il piano, cuore del suo dire,

spazio di vita

più forte del silenzio

nell’arco dei giorni.

Evento può essere un fatto di cronaca: si veda la poesia “Insidia”:

L’hanno ucciso

sulla riva del fiume.

Tremavano i giunchi

e le ombre della notte,

il vento grigio

gli mordeva la pelle

e la luce della luna

cullava la sua anima.

Spalancati gli occhi,

nelle pupille inviolate

un’eco di cielo.

L’hanno ucciso

e sapeva di morire,

contro la malasorte

ha corso lungo il fiume

con la pena nel cuore

e l’urlo del vento.

Evento può essere la guerra: si veda “Sogno a Sarajevo”,  o “Kossovo 1999”.

In queste liriche a versi oscuri, luttuosi, fanno da contraltare versi di luce che riscattano la rappresentazione da un orizzonte funesto.

In tal senso, “Sogno a Sarajevo” è emblematica: qui il dramma di un popolo si purifica e si libera in limpida melodia:

È così seducente l’aurora

che m’invita ad ascoltare

tra le rovine incantate

la melodia di un usignolo.

È così gioioso il canto

che le sue note

agitandosi come un’onda

di farfalle a primavera

salgono fino alle montagne.

Nell’estasi,

l’anima trattiene il respiro

e leggero sale il sogno

perché non giunga ancora la morte.

Evento è un viaggio: “Angeli indios” è la felice sintesi delle impressioni che il Messico gli ha suscitato dentro:

Dalla montagna della luna

scendono silenziosi gli Angeli

con scialli che vestono la miseria,

vanno a colorare gli amari ciottoli

del mercato di Santo Domingo.

Piccoli Angeli

ma grandi fino alle stelle,

pietre di luce

dove si riflette l’indifferenza

degli uomini.

Accendono ceri

pregano il loro Dio

e salgono la Piramide del Sole

a cogliere nuvole di speranza,

ma i venti che mai riposano

le soffiano lontano.

Hanno negli occhi sogni di terre

dove seminare la vita,

dove la morte

non sempre ha l’ultima parola.

— Vi sono poi le poesie dedicate a persone care scomparse, l’amica Lilli, ad esempio:

La vera luce

Leggeri al tuo fianco camminano gli ulivi

stretti nel loro abbraccio

fino al mare.

Festose s’inclinano le barche

nell’Isola Celeste

dove hai trovato verità di luce

e la Parola che il tempo non corrompe.

Vivi una vita nuova

senza orologi

né cortei di neri tessuti

con le spighe che anelano a farsi

nuovo pane

e il vento che ripone le sue gioie

nel giardino dei lentischi,

o a personaggi celebri dell’isola, come la cantante Maria Carta :

La fredda corrente

del mare d’ombre

non potrà gelare la tua voce.

Il ruvido sole dell’estate

non potrà seccare i gerani

nel giardino di pena.

Vivo è l’amore

e l’antico canto

che cammina

a grandi passi

nelle strade,

  o lo scultore Costantino Nivola:

Nel limite stretto

dell’umida terra

non finisce il tuo viaggio.

Continua qui

tra le radici del sogno

e la silenziosa presenza

delle maestose “Madri bianche”.

Braccia ampie come vele

scolpite nella pietra

liberano l’anima all’emozione

e svelano al cuore l’incanto

del trionfo della vita.

Un incontro come questo non può che concludersi con un canto d’amore, la poesia che Antonio Canu ha dedicato alla persona cara per eccellenza, sua moglie Maria :

Soltanto l’amore

So

che non ha alfabeto

la lingua

che parla

il dolore.

Ma

le ferite

che incidono

il corpo

e l’anima

sono sillabe

che soltanto

l’amore

sa decifrare.

Giulia Lanciani

Università degli Studi di Roma


 
Miquel Canu 2000 - 2008

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Darrera revisió  03.01.2008

Ultima revisione 03.01.2008