Llibre Poesies

Presentazione 

al 

Premio Ozieri

Non è certo compito facile intervenire dopo la sapiente esposizione del professor Luigi Sotgia, che ha messo in evidenza gli aspetti peculiari della poetica di Antonio Canu, i quali in effetti sono riducibili sostanzialmente all’agilità del ritmo, all’essenzialità della forma, ad immagini che si riportano per lo più ad esperienze di un passato ripensato e rivissuto con l’esperienza di una vita. Mi limiterò pertanto ad aggiungere qualche riflessione, cercando di non sovrappormi a quel che è già stato detto.

Vorrei innanzi tutto trattare dei nuovi testi poetici che hanno fatto seguito a Poesies, e che mi auguro vedano presto la luce in una pubblicazione altrettanto bella e di altrettanto successo di pubblico come quello ottenuto dal libro di esordio.

Analizzando le differenze e le consonanze tra la poesia del passato e quella presente, direi che Canu è soprattutto un poeta della continuità, più che un poeta della metamorfosi: nel senso che a prevalere è soprattutto la coerenza sostanziale delle scelte: da un lato, il mantenimento di una accurata stilizzazione nel disegno e nella composizione; dall’altro, la compattezza ed unitarietà del discorso poetico, in cui tuttavia l’eclettismo di fondo, già accennato nella precedente raccolta, si amplia, anche se in termini totalmente contenutistici, accogliendo temi che vanno al di là della memoria di un passato mitizzato o di un presente maestosamente umile. In altri termini, la materia narrativa concede uno spazio maggiore ad avvenimenti, ad occasioni, a sensazioni che esulano dal microcosmo domestico e che gli dettano dentro emozioni forti, espresse con chiaroscuri di drammaticità. Una drammaticità peraltro sempre governata da una netta ed indomabile tendenza alla letizia e da una ben calcolata mediazione stilistica.

Penso ad “Ada”, poesia che ha come protagonista la Ada del film “Lezioni di piano”, un film dolorosamente incantevole, in cui una giovane donna, muta, esiliata dal destino nelle foreste della Nuova Zelanda, ha come unico e grande amore il suo pianoforte. Suonarlo significa per lei respirare, dimentica di ogni volgarità della vita. Per folle gelosia, il marito le mozzerà un dito recidendo per sempre il legame vitale che la unisce al pianoforte, “cuore del suo dire”, nella splendida espressione di Antonio Canu. Ebbene, di questo clima perturbante e accorato Canu coglie evidentemente gli aspetti crudeli, ma li sublima attraverso un espediente poetico felicissimo: relegando il dramma alla fine della poesia e in due soli versi, sicché l’onda d’incanto dei versi precedenti (ben quattordici) si chiude su di essi come un sigillo di festa:

         Tra le dita

         le scivolano le note di Chopin,

         inquiete si librano in volo

         e dilagano nell’azzurro.

         Sulla spiaggia si fa vivo l’incanto

         e sostano le onde nel mare

         e nel cielo le nubi maestose.

         Immagine di sogno

         concerto luminoso che vibra

         e dalla terra l’anima si leva

         nell’aria estasiata

         e guarda vibrare le mani sonore

         e il piano, cuore del suo dire

         spazio di vita

         più forte del silenzio

         nell’arco dei giorni.                                          

Penso ancora alla poesia dedicata a Maria Carta, a quella dedicata a Costantino Nìvola, o a “Mutos de ispera”, in cui a versi oscuri, luttuosi, fanno da contraltare versi luminosi che riscattano e affrancano la rappresentazione poetica da un orizzonte funesto. Su questa linea si muove anche “Insidia”, in cui il verso d’inizio 

         L’hanno ucciso

 acquista quasi una sacra tragicità nella iterazione dei versi 12-13:

                   L’hanno ucciso

                  e sapeva di morire.

 Anche in questo testo, in cui forse i toni violenti sembrano prevalere, la serenità di certe immagini allevia l’oppressione implicita nel fatto evocato. “Insidia” nasce dalla lettura di un fatto di cronaca:

                  L’hanno ucciso

                  sulla riva del fiume.

                  Tremavano i giunchi

                  e le ombre della notte,

                  il vento grigio

                  gli mordeva la pelle,

                  e la luce della luna

                  cullava la sua anima.

                  Spalancati gli occhi,

                  sulle pupille inviolate

                  un’eco del cielo.

                  L’hanno ucciso

                  e sapeva di morire,

                  contro la malasorte

                  ha corso lungo il fiume

                  con la pena nel cuore

                  e l’urlo del vento.

Ognuno di noi, comunque, può riflettervi la propria esperienza (io, ad esempio, vi ho visto la corsa disperata del giovane giudice Livatino verso un’inutile salvezza, inseguito giù per una scarpata da due sicari mafiosi). Dicevo che ognuno di noi può riflettervi la propria esperienza, perché nella poesia di Canu quel che è esperienza diretta e circoscritta nel tempo assurge a momento universale, senza tempo né spazio, ed ognuno può conferirgli un nome e un significato, alla luce delle proprie passioni, del proprio sentire, del proprio patrimonio culturale.

Perché la poesia di Canu va alla sostanza delle cose, al loro cuore immemoriale, e nel contatto tra l’evento e la trasposizione in immagine si crea una sorta di cortocircuito spazio-temporale, per cui la poesia svincola quell’evento dal contingente, lo libera dalle pastoie della momentaneità e di una univoca localizzazione.

Un secondo punto che vorrei considerare è quello del bilinguismo: anche queste nuove poesie sono concepite in catalano-algherese e in italiano. Del resto, non ci si poteva aspettare altro, poiché il bipolarismo di Canu non è soltanto un fatto linguistico, ma è anche e direi essenzialmente un fatto culturale. Nel senso che la sua poesia si nutre di letture e di esperienze delle due culture, dietro le quali tuttavia ne emerge una terza, che è quella del Logudoro dell’infanzia, che alimenta visibilmente la sua intuizione lirica. Sullo sfondo della sua poesia si disegna allora la trama di una identità che si è andata formando attraverso la salvaguardia e il rispetto di quel che la tradizione culturale nativa gli offriva e l’assimilazione del nuovo che il contesto acquisito gli proponeva. “La scomparsa degli antichi idiomi è una castrazione dell’anima”, ha affermato Gavino Ledda alcuni giorni or sono, dicendo che riscriverà il suo Padre padrone in sardo e lo firmerà come Gaìnu de sos Leddhas, per salvare la lingua materna. E salvare la lingua materna significa, come è ben noto, salvare tutto un patrimonio implicito in quella lingua. Canu ha fatto sua la lingua del paese che a dieci anni lo ha adottato, portandosi però dietro la memoria e le abitudini della terra d’origine: la mistione gli ha permesso di allargare il proprio orizzonte, di far esplodere quel che l’animo gli dettava dentro in una voce composta e sottomessa alle leggi della poesia.

Un terzo punto, al quale vorrei appena accennare, è quello dell’intertestualità. È nozione ormai acquisita che ogni scrittura è scrittura di scritture. Così, la poesia è interpretazione di altra poesia, alla luce della storia e dell’esistenza, della propria esistenza. Voglio dire con questo che dietro il poetare di Canu c’è un’esperienza personale, certo, filtrata tuttavia da una conoscenza ampia e profonda di una letteratura lirica che non si arresta agli italiani, ma spazia alle grandi voci mondiali (da Espriu a Lorca, a Yeats, a Eliot, per non citarne che alcune). E questo è uno dei pregi della poesia di Canu: appropriarsi e assimilare e restituire in forme originali è prassi corrente, come le culture antropofagiche ci insegnano. Mangiare le parti nobili (cuore e cervello) dell’eroe caduto significa impadronirsi delle sue qualità. E che questo valga anche in letteratura lo afferma esplicitamente il movimento modernista brasiliano detto “antropofagico” che programmaticamente proclamava l’urgenza di alimentarsi della cultura europea per digerirla e annullarla in nuove forme originali, che avrebbero dato al Brasile una sua identità culturale. Non rinnegare, dunque, né trascurare o ignorare, ma divorare quel che i grandi ci offrono per tentare di somigliargli il più possibile.

Un quarto punto riguarda la genesi del testo, ovvero come nasce e in che modo si sviluppa un componimento poetico. Ho avuto l’onore e il piacere di seguire la poesia di Canu nel suo farsi, nel suo divenire; credo pertanto di conoscere nelle sue pieghe, anche le più nascoste, l’iter di una elaborazione solo all’apparenza piana e agevole, ma che in realtà cela un lavoro di ripensamenti, di aggiustamenti, di rifiuti, di scavo incessante: dopo una prima stesura, in genere realizzata di getto (ma di getto solo esteriormente, perché, per dirlo con le parole dello stesso Canu “l’idea mi gira per giorni e mesi nella testa”), ecco sorgere i dubbi, i tanti dubbi sulla validità di una rima, sulla misura di un verso, sulla musicalità di una parola, sulla costruzione di una metafora, sull’effetto pittorico di un aggettivo, sull’efficacia di un titolo. In un gioco tormentato di scrittura e di riscrittura, il testo si va formando fino ad acquisire la veste definitiva. Se si dovesse un giorno preparare un’edizione critico-genetica della poesia di Canu (l’edizione critico-genetica prevede il recupero di tutte le varianti, da quelle tematiche, a quelle lessicali, a quelle metriche, a quelle semantiche, ed ha come scopo precipuo di mostrare come si è venuto strutturando man mano il testo), se si dovesse preparare un’edizione critico-genetica della poesia di Canu, dicevo,  ci si renderebbe conto che dietro quella semplicità di espressione e di contenuto c’è un insospettabile, esigente, assiduo lavoro di revisione, un’ansia che si placa solo allorché egli ritiene che quel che ha elaborato sia la realizzazione che più si avvicina all’idea poetica che ne è all’origine.

Quel che mi auguro, per concludere queste mie considerazioni, è che Antonio Canu presto mi dia, anzi ci dia il piacere di un secondo libro, un secondo libro che non potrà prescindere dalla eccelsa collaborazione illustrativa di Manlio Masu, il quale ha impreziosito con disegni di grande bellezza il libro d’esordio.

 

Giulia Lanciani

Università degli Studi di Roma


 
Miquel Canu 2000 - 2008

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Darrera revisió  03.01.2008

Ultima revisione 03.01.2008