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    2000

E L’INTERESSE PRIVATO PREVALSE SUL PUBBLICO  

Scelte politiche e scelte urbanistiche:

la punta dell’iceberg

Se gli interventi dei consiglieri comunali costituissero parte integrante della motivazione, quella  sul p.p.a. (piano pluriennale di attuazione, n.d.r.) sarebbe – al modo di alcune sentenze - una delibera suicida.

Stando a quanto riportato dalla stampa, a parte il sindaco, et pour cause, anche la maggioranza è in fondo contraria e ha approvato - s’è spinto a dichiarare qualcuno - per dovere.

Quale dovere non è chiaro viste le accuse di trascuratezza dei problemi di traffico, verde, servizi, e anche di favoritismi: non, evidentemente, per aver inserito terreni ma per aver dovuto comunque scegliere alcune zone al posto di altre (ed è opportuno individuarne i proprietari per chiarire collegamenti lobbistici e interessenze private, sempre in agguato) e, prima ancora, l’espansione (di una irreale città di 630.000 abitanti tra dieci anni) anziché la riqualificazione ed il riuso, che secondo Pierluigi Cervellati avrebbe potuto ridonare a Bari l’immagine di una “città bella”.

Fatt’è che il centro-destra torna ad approvare un p.p.a. in linea con le scelte urbanistiche delle diverse amministrazioni precedenti (negli anni sessanta aspramente criticate dall’allora consigliere G.Tatarella), secondo cui – come osservava quasi vent’anni fa Marcello Petrignani in Bari di Laterza - i criteri seguiti “vennero interamente orientati a favorire le proprietà fondiarie ed edilizie”.

Il centro-sinistra, d’altro canto, nonostante gli strenui 8 consiglieri residuati in trincea, non riesce per le vistose defezioni e numerose assenze (un copione purtroppo già visto in altri snodi decisivi come i PRUSST) a fugare l’impressione che in questo settore l’azione di contrasto, come anche la prospettazione di alternative, non è mai stata di livello adeguato: se è vero che in passato, anche quando le varie giunte vararono interpretazioni “stravaganti” delle norme edilizie, come quelle del cosiddetto “attico a filo” (invenzione per cui gli edifici del murattiano a otto piani superano di quasi due metri l’altezza massima di 26 metri anche in strade larghe la metà di corso Vittorio ), “le opposizioni le accettarono”.

Questo è il giudizio di Domenico Di Bari in un libro, edito qualche mese fa dall’Ecumenica, dal titolo La città fuori legge, che documenta appunto le tante illegalità compiute in questo mezzo secolo, a cominciare dalla ricostruzione dell’isolato distrutto dalla guerra,  al cui interno per sistemare l’ampio salone della banca Commerciale si coprì l’intero spazio che a norma degli statuti di Gioacchino Murat doveva essere lasciato a giardino o comunque “scoverto”: un abuso che diventò poi la regola, privando il quartiere dei giardini interni e peggiorandone  la qualità della vita e del paesaggio.

Una scelta continuata senza meno anche nelle zone di espansione (di qui la facile previsione per quelle interessate dall’ultimo p.p.a.) e perfino di fronte all’elemento caratterizzante la città e la sua cultura (il lavoro, il patrono …): il mare, costruendosi senza scrupoli a distanza inferiore a quella legale.

Punta Perotti è diventata il simbolo (ma altre punte stanno acquattate alla sua ombra, in attesa di vedere come va a finire) di questa illegalità.

Non parlo di quella penale, per cui è in corso un processo e nel dibattito pubblico va osservata la presunzione di innocenza, ma di quella politico-amministrativa, per cui si sono approvate deroghe (un istituto largamente usato, questo, a tutto vantaggio di proprietari e costruttori, secondo uno studio fatto anni fa da Arturo Cucciolla) con leggi regionali, progetti anche in mancanza del parere obbligatorio del comitato urbanistico regionale fino alla famigerata “rotazione” dei fabbricati allo scopo, impudentemente dichiarato e colpevolmente non contrastato in commissione comunale, di far godere ai proprietari di Punta Perotti la vista della città vecchia.

Un interesse privato viene assunto a base di una delibera in luogo dell’opposto interesse pubblico, della generalità delle persone, a godere della vista di un orizzonte, libero e non chiuso da una saracinesca.

La questione urbanistica non è che una punta (l’altra, ovviamente, è la criminalità violenta) dell’iceberg dell’illegalismo diffuso, cui partecipa anche la politica con il suo volto ordinario di sopraffazione e clientelismo, di sostituzione del favore alla legge. Ciò provoca fenomeni di pericolosa assuefazione o di spaesamento: nel senso letterale di una fuga dalla città appena possibile, ma anche di una dimissione dalla identità collettiva barese, di una perdita delle coordinate del vivere bello e civile.

Mirare alla legalità è allora impegno non di settore ma trasversale, bussola nello spazio di quella politica senza qualità, che preclude vere e grandi innovazioni.

Nicola Colaianni