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L'AFFETTO COSTITUZIONALE

Nicola Colaianni

La Costituzione è sotto attacco. 

E lo è nell'indifferenza di tanti: anche di quelle forze politiche che ad essa avevano per lungo tempo aggrappato il proprio progetto di trasformazione della società e da anni, invece, si sono adattate ad un suo uso congiunturale.

Per farne, cioè, una delle poste nel gioco complessivo della politica quotidiana, della composizione degli interessi e della competizione per la conquista del consenso e della maggioranza.

La regola condivisa è che, come Parigi val bene una messa, così (lo dimostra la vicenda ingloriosa della "commissione bicamerale") la stabilità di un governo, messo al riparo da un'opposizione oltranzista, giustifica una riforma della Carta fondamentale.

Ormai pare che la soluzione di ogni problema sociale passa attraverso una riforma costituzionale. Eppure di revisioni costituzionali ne sono state fatte ben quattro nel giro di poco più di un anno (dal novembre 1999 al marzo 2001) e su temi non secondari. 

Ricordiamole: la forma di governo e gli statuti regionali (l.c. 1/99 e l.c. 2/01); il cosiddetto "giusto processo" (l.c. 2/99), il voto degli italiani all'estero (l.c. 1/00); il "federalismo" ovvero la revisione dell'intero titolo V della parte II (l.c. 3/01). Non sono ancora state attuate ma evidentemente interessa innanzitutto il "messaggio" di una Costituzione vecchia ed arrugginita, da rimettere velocemente in sesto. 

Si continuano così a sfornare leggi costituzionali di modificazione: è stata già approvata da un ramo del Parlamento la "devolution", con cui si modifica ulteriormente il titolo V.

Si avvia in questi giorni il dibattito parlamentare sulla forma di governo (premierato forte o presidenzialismo) in cui la stella polare è costituita da Berlusconi: si tratta di cucirgli addosso l'abito governativo migliore, tenuto conto che lui è di taglia forte. Sempre attuale è la modifica dello status dei pubblici ministeri, in modo da separarne il ruolo da quello dei giudici. Sullo sfondo la modifica della composizione della Corte costituzionale e della stessa tipologia delle sue sentenze, con riduzione dei suoi poteri. 

Ma soprattutto siamo di fronte ad un attacco costante alla Costituzione come legge superiore, non trascurabile di fatto dalla legislazione ordinaria, e come legge fondamentale, non settoriale e limitata all'ordinamento della Repubblica.

E' un attacco, questo, portato avanti soprattutto con la modificazione delle leggi necessarie per una piena attuazione dei principi costituzionali o addirittura in maniera strisciante, attraverso una truffa delle etichette. 

 

 

E' il caso della guerra, che da ormai dieci anni si definisce nei modi più svariati (azione di polizia internazionale, uso della forza, intervento non meglio specificato) per rimetterne la decisione all'esecutivo aggirando il parlamento e gli altri controlli previsti dalla Costituzione e, quindi, il diritto alla pace, sancito dall'art. 11

E' anche il caso del nuovo esame di stato, che svuota l'art. 33 Cost. a vantaggio delle scuole private e della loro effettiva parificazione a quelle pubbliche, o della nuova composizione in forma ridotta del Consiglio Superiore della Magistratura, che ne riduce la capacità di difesa effettiva dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura di cui all'art. 104 Cost.

Nella stessa direzione vanno i progetti di modifica dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori -che vanifica la condizione preliminare per godere di una retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa (art. 36) e la effettiva giustiziabilità (art. 24) di questo diritto inviolabile- o di riforma fiscale, che attenta alla progressività delle imposte stabilita dall'art. 53 e quindi all'uguaglianza sostanziale dei cittadini, di cui all'art. 3 cpv.

Non mancano, peraltro, proposte esplicite di revisione della prima parte della Costituzione (alcune in stato avanzato, come l'integrazione dell'art. 51 a favore della rappresentanza delle donne: la positività del contenuto, anche se vago, è annullata dal fatto che comunque si infrange la barriera formale a difesa della prima parte della Costituzione: non si potrà opporre questa eccezione pregiudiziale quando si esaminerà, per esempio, la legge delega sulla riforma fiscale che ridimensiona l'art. 53).

D'altro canto, un'influenza sulla prima parte deriverà necessariamente dalla messa a regime della revisione del titolo V. Basta por mente ad alcune parole nuove ivi introdotte, come "Unione europea" e "sussidiarietà", capaci di mettere a repentaglio il livello di tutela assicurato nel nostro ordinamento ai diritti fondamentali.

Infatti, si prevede che la potestà legislativa, statale e regionale, sia esercitata nel rispetto non solo della Costituzione ma anche dei "vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali" (art. 117): ciò comporta che i diritti sociali -la cui politica la Carta dei diritti di Nizza lascia agli Stati- possano, e debbano, essere condizionati dalle politiche economiche decise in sede europea senza previsione nel contempo degli standard minimi che ogni stato deve assicurare.

Ma anche i diritti di libertà potrebbero essere incisi in sede europea: si pensi al diritto di libera circolazione ed alla questione delle impronte dei cittadini extracomunitari, la cui disciplina è ormai all'ordine del giorno dell'Unione (senza che l'estensione anche ai cittadini europei possa superare ogni discriminazione, dato che comunque le impronte sarebbero di diversa qualità a seconda che compaiano sulla carta d'identità dei cittadini europei o su quella degli altri).

Analoghi problemi di tenuta dei diritti fondamentali sorgono per la cosiddetta sussidiarietà orizzontale tra Stato, Regioni, province, comuni e "l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale" (art. 118, co. 4): i settori dell'agire sociale -soprattutto quello economico, ma non solo: la cultura, la comunicazione, ecc.- una volta resi autonomi possono organizzarsi come sistemi autoreferenziali, con una propria logica.

Anche in questi casi, perciò, occorrerebbe prevedere dei livelli minimi di tutela (il problema si sta già ponendo per l'assistenza sanitaria, con la diversificazione dei tickets da Regione a Regione): privatizzazione non può essere deregulation e quanto più si privatizza tanto più puntuale deve essere l'intervento regolatore del legislatore nazionale.

La Costituzione, insomma, non orienta più la legislazione ordinaria, ma addirittura ne viene orientata.

E' la legislazione ordinaria che si pone come chiave interpretativa della Costituzione.

La politica non è più costituzionale, è afinalistica: non persegue più, necessariamente, i fini indicati nella Costituzione, ma si affida ad opzioni tattiche, senza respiro ampio e sistemico, quali risultano dalla ordinaria dialettica tra maggioranza e opposizione. Riconosce come livello prescrittivo ed inderogabile solo quello comunitario europeo o (come nel caso della pace e della guerra) delle organizzazioni mondiali, sacrificando ad esso la dimensione nazionale quale si esprime nella nostra Carta fondamentale.

Questa dissociazione della politica dalla Costituzione si nota anche in altri paesi occidentali. 

In Germania un costituzionalista, Grimm, ha paventato il rischio di un ritorno al "dominio policentrico premoderno, refrattario all'intervento della costituzione". Necessità di assicurare la governabilità, si dice: la sovranità popolare si esprime attraverso l'indirizzo politico di maggioranza, che va garantito. Il che è vero, ma va bilanciato, come ha scritto un nostro storico delle costituzioni, Fioravanti, con la garanzia dei diritti dei cittadini per via giurisdizionale.

Il principio democratico, che è la fonte del diritto d'indirizzo politico attribuito alla maggioranza, non esaurisce tutta la Costituzione: in questa c'è anche la parte dei diritti dei cittadini, la prima, che non può essere modificata in maniera obliqua attraverso gli atti legislativi in cui si esprime l'indirizzo politico di maggioranza.

Di qui la necessità di preservare gli istituti di garanzia (Presidente della Repubblica e Corte costituzionale) da logiche maggioritarie, come si avrebbe nel caso dell'elezione diretta del Capo dello Stato o del premier (che grazie all'investitura popolare godrebbe di una supremazia a scapito dell'altrui ruolo di garanzia).

E' questo il tratto fondamentale di quella razionalizzazione del potere, fatta di pesi e contrappesi, in cui Giuseppe Dossetti individuava la maggior ricchezza della nostra Costituzione.

 

Invece, la decostituzionalizzazione della politica della maggioranza, che così ambisce ad un dominio assoluto, è particolarmente grave per una Costituzione-programma, come la nostra: che ambisce, cioè, a promuovere il cambiamento della realtà, indicando obiettivi (basta ricordare il secondo comma dell'art. 3) e predisponendo strumenti (basta ricordare la giustiziabilità dei diritti davanti a giudici soggetti solo alla legge) per conseguirli.

E' in atto il tentativo di renderla neutra, irrilevante nella parte programmatica.

Bisogna rispondere assumendola come stella polare di una politica che, perseguendone i fini, non subisce ma guida il cambiamento:

con affetto costituzionale.