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Contratti agrari:

LO STATO VIOLA IL DIRITTO DI PRELAZIONE
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COMMENTO ALL'EMANANDO DECRETO LEGISLATIVO IN ATTUAZIONE DELLA LEGGE 5 MARZO 2001 N.57
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CONTRATTI AGRARI:

LO STATO VIOLA IL DIRITTO DI PRELAZIONE

Con decreto del Ministero del Tesoro, di concerto con il Ministero delle Finanze, del 27.3.2000 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 14.4.2000 venivano elencati i beni immobili, di proprietà dello Stato, oggetto di alienazione. Oltre al noto complesso del "Foro Italico" in Roma il decreto prevede la dismissione di oltre 200 proprietà immobiliari costituite da ex caserme, castelli, palazzi nobiliari, tenute agricole, porti, ecc…

Le modalità di alienazione erano contenute nella legge 488/1999 (finanziaria) e regolate in particolar modo dall’articolo IV commi 3 e 4.

In buona sostanza il nuovo meccanismo di vendita prevede degli "advisor" che vadano ad acquistare o gestire la vendita in blocco di tutti i beni.

Nel caso di specie, i beni oggetto di vendita con richiamato Decreto Ministeriale sono stati stimati in tremila miliardi.

L’intero meccanismo di dismissione è di per sé antidemocratico e tende a favorire i grossi gruppi finanziari.

Al contrario sarebbe stata preferibile la vendita, attraverso le Intendenze di Finanza provinciali, mediante aste pubbliche.

Il Decreto Ministeriale, e connessamente la legge finanziaria, è stato impugnato al T.A.R. del Lazio, in quanto, viola il diritto di prelazione agraria, naturalmente per la dismissione di fondi agricoli di proprietà dello Stato.

Il T.A.R. del Lazio con provvedimento 5.7.2000 respingeva il ricorso, proposto dalla Confederazione Italiana Agricoltori di Bergamo, per cui è stato impugnato avanti il Consiglio di Stato che dovrebbe pronunciarsi il 20 settembre c.a..

E’ noto come la prelazione agraria è regolata da tre fondamentali leggi, 590/1965, 817/1971 e 265/1976 e tali norme sono sempre state ritenute, da dottrina e giurisprudenza, di interesse pubblico.

Ne deriva che anche lo Stato, allorquando dismette proprietà a destinazione agricola, è tenuto al rispetto della prelazione agraria che compete all’affittuario o al proprietario coltivatore diretto confinante. Al contrario, tali norme non vengono rispettate nel meccanismo di alienazione di cui alla legge 488/99. Il provvedimento di reiezione del T.A.R. Lazio, non è convincente, anche perché, tra l’altro, ritiene che la legge finanziaria, con il regolamento della dismissione, possa avere un valore derogativo alle norme sulla prelazione agraria.

Ci auguriamo che il Consiglio di Stato sia di diverso avviso.

In ogni caso, qualora, nelle operazioni di vendita di fondi agricoli dello Stato vi siano soggetti aventi diritto alla prelazione e questa sia stata violata, riteniamo che gli stessi possano esperire comunque azione di riscatto. I terreni agricoli, oggetto della più vasta vendita, sono posti nei seguenti Comuni: Agliè (Torino) Melegnano (Milano) Venezia, Grosseto, Ostia Bernalda (Matera).

 

COMMENTO ALL’EMANANDO DECRETO LEGISLATIVO IN ATTUAZIONE DELLA LEGGE 5 MARZO 2001 N. 57

Il commento al provvedimento legislativo deve partire dall’esame di quelle norme che vanno maggiormente ad incidere, con modificazioni sostanziali, sulla legge sui contratti agrari, la 203/1982, nonché quella sulla prelazione del confinante, di cui all’art. 7 della L. 817/1971.

Per quanto attiene l’articolo 5, che introduce la prelazione sull’affitto, dobbiamo preliminarmente rilevare come tale norma fosse già stata inserita in un disegno di legge presentato nel 1997, nell’approssimarsi della scadenza dei contratti agrari di cui all’art. 2 L. 203/1982.

Le critiche a tale D.D.L. furono tali e tante, che il progetto non sfociò in alcun provvedimento legislativo.

Dobbiamo oggi constatare come il legislatore ha voluto reinserire la prelazione sull’affitto agrario modificando la L. 3 maggio 1982 n. 203 con l’aggiunta dell’art. 4 bis, attinente "il diritto di prelazione in caso di nuovo affitto".

Analizziamo prima il testo normativo nelle sue parti essenziali ed esplicheremo successivamente, le nostre censure e riserve alla norma.

In buona sostanza in caso di contratto di affitto intercorrente tra un proprietario e un conduttore, sia che il contratto si sia rinnovato ai sensi dell’art. 4 L. 203/1982, sia che sia stato stipulato, ex novo, ai sensi dell’art. 45 L. 203/1982, all’approssimarsi della scadenza il proprietario che intende affittare il fondo a terzi, deve comunicare all’affittuario conduttore le offerte ricevute, evidentemente migliorative sotto vari profili quali durata, canone etc.. Tali offerte devono essere inviate all’affittuario novanta giorni prima della scadenza, e quindi, coordinando la norma con l’articolo 39 L. 203/1982, entro l’11 di agosto.

L’affittuario, entro 45 giorni dal ricevimento della proposta, deve comunicare al locatore, se aderisce a tali proposte; in caso di silenzio, o di mancata risposta, deve intendersi che il proprietario potrà liberamente affittare a terzi il fondo.

L’obbligo della prelazione nell’affitto, non sussiste qualora il rapporto sia cessato o per recesso del conduttore o per grave inadempienza ai sensi dell’art. 5 L. 203/1982.

Nel caso in cui alla scadenza del contratto, e al conseguente rilascio dei terreni, nei sei mesi successivi il proprietario abbia concesso a terzi la conduzione dei fondi, senza aver esplicato la procedura di preventiva offerta al conduttore, lo stesso, entro il termine di un anno dalla scadenza del contratto non rinnovato, ha diritto di subentrare, alle medesime condizioni, nel contratto di affitto stipulato tra il proprietario e il terzo.

 

La prelazione in un rapporto di affitto viene per la prima volta prevista nella legislazione nazionale, atteso che tale istituto non è contemplato, né per le locazioni urbane ad uso abitativo, né per quelle ad uso diverso.

La norma in sé solleva non poche perplessità sotto il profilo costituzionale e non nascondiamo le enormi problematiche attuative.

Innanzitutto nutriamo forti dubbi sulla costituzionalità della norma ad oggetto, in quanto, costituirebbe eccesso di potere rispetto alla legge delega 57/2001.

Infatti analizzando gli artt. 7 ed 8, che regolamentano, appunto, la delega al Governo per l’emanazione del provvedimento, potremmo rintracciare un vago riferimento nell’articolo 8 comma I, lettera e) che testualmente recita: "promozione e mantenimento di strutture produttive efficienti, favorendo la conservazione dell’unità aziendale e della destinazione agricola dei terreni e l’accorpamento dei terreni agricoli, creando le condizioni per l’ammodernamento strutturale dell’impresa e l’ottimizzazione del suo ridimensionamento agevolando la ricomposizione fondiaria, attenuando i vincoli della normativa sulla formazione della proprietà coltivatrice".

A ben vedere tale disposto si attaglia più agli artt. 7 – 8 del provvedimento normativo in commento, ma non certo all’affitto agrario.

Pertanto, tale norma rischia di essere dichiarata incostituzionale in quanto non rientrante nelle previsioni della legge delega.

Sorgono altresì seri dubbi sulla costituzionalità dell’istituto della prelazione dell’affitto in riferimento agli artt. 3 e 44 Cost.

Innanzitutto il proprietario concedente verrebbe privato di un elemento essenziale nella libertà contrattuale: vale a dire l’intuitu personae, rimanendo legato ad un altro soggetto contrattuale contro la propria volontà.

Aggiungasi inoltre che rispetto ad altri concedenti proprietari di immobili si creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, per esempio, tra il concedente di un immobile ad uso urbano o commerciale.

Esprimiamo pertanto forti riserve sulla costituzionalità della norma in commento sotto il duplice profilo sopra illustrato.

Per quanto attiene poi l’applicazione nella prassi corrente possiamo constatare come la maggioranza dei contratti agrari vengano stipulati ai sensi dell’art. 45 L. 203/1982 e quindi senz’altro in deroga, vista l’assistenza dell’organizzazione sindacale alle norme imperative di legge.

Le deroghe attengono soprattutto tre aspetti: la durata, il canone e le migliorie.

La durata dei contratti di affitto raramente supera i cinque anni, e sovente sono stipulati per la durata di un’annata agraria, tacitamente rinnovabile, salvo disdetta da inviarsi anche tre mesi innanzi, potendosi derogare alla previsione di cui all’art. 4 L. 203/1982 (disdetta da inviarsi un anno innanzi).

E’ prassi consolidata, inoltre, che il canone sia ormai quello stabilito dal mercato secondo le varie zone agrarie.

Altra deroga, puntualmente prevista, è quella di fare divieto all’affittuario di realizzare migliorie, di qualsiasi tipo e genere, rinunciando ad avvalersi di quanto previsto dagli artt. 16 e segg. L. 203/1982.

Con la fine del regime di proroga legale, o comunque cosiddetto vincolistico, i contratti di affitto agrario avevano trovato un loro equilibrio tra domanda ed offerta, secondo le normali leggi del mercato, ma la previsione della norma in commento, andrebbe ad alterare tale equilibrio, a nostro avviso positivo.

Che l’attuale situazione abbia raggiunto un equilibrio trova un facile riscontro nella diminuzione del contenzioso agrario. Ci sembra questa una cartina di tornasole oggettiva che denota come le parti contrattuali, attraverso le rispettive organizzazioni di categoria siano riuscite a contemperare le rispettive esigenze.

L’introduzione della norma sulla prelazione dell’affitto, determinerebbe soltanto un inutile acuirsi del contenzioso. Innanzitutto il secondo comma troverebbe difficile attuazione in quanto, l’affittuario decadrebbe dal diritto di prelazione sull’affitto, per grave inadempienza, ma è chiaro che tale inadempienza dovrebbe essere dichiarata con sentenza.

A monte, la reale e vera limitazione contrattuale sta proprio nell’intuitu personae, infatti un proprietario potrebbe venire nella determinazione di non rinnovare il contratto di affitto in quanto il conduttore, in costanza di rapporto, corrispondeva il canone con ritardo, oppure non rispettava gli obblighi inerenti alle ruote di irrigazione o manteneva un comportamento che comunque poteva risultare al concedente non conforme a buoni rapporti.

Nonostante tale situazione e il venir meno del rapporto di fiducia, il proprietario si troverebbe costretto, comunque, a preferire lo stesso affittuario nei confronti del quale, anche per ragioni personali, non intende avere più alcun rapporto.

Lo stesso ritardato pagamento del canone, va ricordato, per costituire grave inadempienza risolutiva del contratto, deve essere di almeno un’annata agraria, deve essere contestato a mezzo racc. a.r., e può essere sanato nei tre mesi successivi.

In buona sostanza il concedente si troverebbe comunque legato ad un conduttore nei confronti del quale è venuto meno un rapporto di fiducia e di affidamento.

Altro aspetto, atterrebbe poi la concreta attuazione dell’esercizio della prelazione da parte dell’affittuario, qualora il proprietario abbia affittato ad un terzo il fondo senza consentirgli la prelazione.

E’ chiaro che l’affittuario dovrebbe incoare un giudizio, avanti la Sezione Agraria, ma se il contratto ha la durata di un solo anno si perverrebbe alla scadenza ancor prima che possa essere eseguita la sentenza.

 

E’ bene subito specificare che qualsiasi rinuncia al diritto di prelazione sull’affitto espressa nel contratto, anche assistito dalle organizzazioni di categoria, sarebbe nulla, in quanto, la rinuncia è valida soltanto quando il diritto è sorto ed è nella disponibilità del rinunciante; è di tutta evidenza, quindi, che soltanto alla scadenza del contratto e con la denunciatio operata dal proprietario del contratto stipulato con il terzo sorge il diritto di prelazione e soltanto allora potrà essere validamente rinunciato dall’affittuario. A nostro sommesso avviso la rinuncia potrà avvenire o con il silenzio del conduttore decorso il termine di 45 giorni o, ancor prima, con una dichiarazione sottoscritta ex art. 45 L. 203/1982.

Ci sembra che le riserve alla norma in commento siano più che sufficienti a far sì che il legislatore, re melius perpensa, abbia ad abolire tale norma.

 

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L’articolo 7, della normativa in commento, va considerato come una norma innovativa; infatti in caso di vendita di un fondo in presenza di più confinanti aventi diritto, deve essere preferito il proprietario under 40.

Nel caso di specie riteniamo che non vi sia lesione della legge delega ben rientrando tale previsione nei principi dettati dall’articolo 8 della L. 57/2001; inoltre la stessa norma risulta coordinata con la legge 441/98 recante norme per la valorizzazione dell’imprenditoria giovanile in agricoltura.

Non è in dubbio, comunque, che anche tale previsione possa comportare notevoli problemi interpretativi e attuativi.

Sino ad oggi la Suprema Corte di Cassazione, in caso di pluralità di confinanti coltivatori diretti, aventi diritto alla prelazione sul fondo posto in vendita, aveva enunciato un principio con riferimento ad una situazione oggettiva. In buona sostanza la Suprema Corte ha ritenuto che in caso di due o tre confinanti proprietari coltivatori diretti, i quali avessero contemporaneamente esercitato la prelazione, doveva preferirsi quel confinante che, per posizione del terreno, superficie ed estensione di contiguità, meglio andava a soddisfare il voluto normativo sull’accorpamento dei fondi agricoli. Pertanto, esprimeva un giudizio che doveva fare riferimento ad una situazione dei luoghi, per cui, un confinante con un fronte di 200 metri, ed una superficie globale confinante di 10 ettari, doveva essere preferito ad un confinante con un fronte di contiguità di 20 metri e con una superficie di un ettaro.

L’articolo 7 introduce, al contrario, un elemento soggettivo, e cioè che il confinante sia il cosiddetto under 40, prescindendo che la contiguità con il fondo, offerto in vendita, sia inferiore, rispetto ad altro confinante, così come il fondo nel suo complesso.

Gli esempi che abbiamo qui riportato evidenziano immediatamente quali saranno le problematiche che si porranno in sede di attuazione della norma, atteso che, si creerebbe senz’altro un contrasto, non solo con tutta la normativa relativa alla formazione e all’accorpamento della piccola proprietà contadina, ma anche con la norma costituzionale di cui all’articolo 44 Cost. laddove fa esplicito riferimento alla "ricostituzione delle unità produttive".

E’ chiaro che si crea una discrasia e un conflitto introducendo un elemento soggettivo, l’età del proprietario coltivatore diretto confinante, rispetto a quello oggettivo e cioè "l’accorpamento dei fondi e la costituzione di unità produttive".

Anche in tema non ci nascondiamo che la norma potrebbe essere "attaccata" sotto il profilo costituzionale.

Di più difficile interpretazione è la parte in cui, oltre agli under 40, vengono preferite, in caso di pluralità di confinanti, cooperative di conduzione, le quali devono però rispondere ai requisiti di cui all’art. 8 del regolamento CE. n. 1257/1999.

E’ fuori di dubbio che a questo punto, il proprietario di un fondo, che si trovi nella sciagurata condizione di avere più proprietari confinanti coltivatori diretti, e dovendo offrire a tutti la prelazione, rischia di dover subire un giudizio, della durata di anni, senza percepire alcuna somma incrementativa, né interessi, né altro, in attesa che il Giudice determini quali tra i confinanti che hanno esercitato la prelazione, rispecchi il voluto normativo.

L’unica reale conseguenza di tale norma, sarà che il proprietario alienante ricorrerà a tutti gli "escamotage" possibili per evitare il diritto di prelazione dei confinanti.

 

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L’articolo 8, della normativa in commento, attiene la conservazione dell’integrità dell’azienda agricola, e ritiene che le disposizioni di cui agli artt. 4 e 5 L. 97/1994, si applicano, a decorrere dal primo gennaio 2002, anche alle aziende agricole ubicate in Comuni non montani.

In tema ci eravamo già pronunciati su questo giornale evidenziando l’evoluzione di tale istituto rispetto a quanto già previsto dal comma 10 dell’articolo 8 della L. 590/1965.

In buona sostanza, l’affittuario ex art. 49 L. 203/1982, cosiddetto affittuario ope legis, può esercitare l’acquisto delle porzioni di fondo pertoccanti agli altri coeredi, alla scadenza del contratto.

Come è noto l’articolo 49 L. 203/1982 prevede che in caso di morte del proprietario di fondi agricoli, subentrasse nella conduzione quello tra gli eredi che al momento dell’apertura della successione aveva esercitato, e continuava ad esercitare su tali fondi, l’attività di coltivatore diretto o imprenditore agricolo. In tal modo si instaurava un contratto di affitto a favore del coerede sulle altre quote dei fondi e lo stesso era tenuto a corrispondere il canone in proporzione alle quote di spettanza degli altri coeredi.

La legge 97/1994, prevedeva che alla scadenza del contratto, della durata di quindici anni, il coerede affittuario poteva acquistare le quote ricorrendone determinate condizioni, ma soprattutto il valore del fondo veniva determinato ai sensi dell’art. 4 L. 590/1965 e quindi a valori senz’altro più favorevoli rispetto a quelli di mercato.

Orbene tale "riscatto" prima previsto soltanto per i fondi posti in Comuni montani, viene ora esteso anche ai Comuni non montani.

Vogliamo evidenziare come il riscattante deve attendere il decorso dei quindici anni del contratto, quindici anni che decorrono dall’apertura della successione.

La norma in commento è senz’altro in piena assonanza con i principi e le direttive di cui all’articolo 8 della legge 57/2001 e di fatto istituisce il "principio del maso chiuso" anche per i terreni non montani.

Il voluto normativo è quello di concentrare in capo all’unico erede coltivatore diretto la proprietà di tutta l’azienda, sì da soddisfare due obbiettivi senz’altro encomiabili: consentire all’erede coltivatore diretto di mantenere e proseguire nella propria attività lavorativa, evitando lo smembramento dei terreni e delle aziende, per vendita e frazionamento da parte degli altri coeredi; evitare l’ormai eccessivo frazionamento fondiario mantenendo, ove esistente, l’accorpamento dei fondi.

Problemi attuativi si porranno nel momento in cui verrà determinato il valore di riscatto, atteso che quelli stabiliti dalla commissione sono di solito inferiori rispetto a quelli di mercato. Inoltre la norma dovrebbe prevedere, oltre che le agevolazioni fiscali e tributarie, anche l’accesso a crediti agevolati; nel caso di specie dovrebbe formarsi una legge ad hoc che abbia a finanziare tale situazione di riscatto "familiare", soprattutto per l’abbattimento del tasso di interesse.

La legge potrebbe ancorarsi alla Cassa Nazionale per la formazione della piccola proprietà contadina, o meglio ancora, demandare alle Regioni finanziamenti specifici per tale fattispecie. I finanziamenti dovrebbero attenere, esclusivamente, il concorso dell’Ente pubblico, solo per la riduzione del tasso di interesse del mutuo.

All’uopo chi esercita il riscatto "familiare" dovrebbe potersi avvalere da quanto previsto dal comma VII dell’articolo 8 della L. 590/1965, vale a dire il termine annuale per presentare la domanda e ottenere il mutuo agevolato.

Da ultimo non va dimenticato che il riscatto familiare, previsto dalla presente legge, può essere esercitato alla scadenza del quindicennio di affitto, ma l’affittuario, può sempre avvalersi, nel quinquennio successivo all’aperta successione, del riscatto speciale previsto, come detto, dal comma X, articolo 8, L. 590/1965, qualora gli altri coeredi abbiano abbandonato l’impresa familiare agricola.

 

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L’articolo 6 estende il regime dei contratti agrari ordinari anche in caso di affitto di terreni demaniali, o del patrimonio indisponibile appartenente ad Enti pubblici, territoriali e non. Pertanto in tema di concessione di terreni del Demanio, o degli Enti pubblici, non saranno più consentite deroghe al regime generale dei contratti agrari.

E’ data possibilità all’Ente pubblico, proprietario del fondo, di recedere anticipatamente dal contratto, mediante preavviso di sei mesi e previo pagamento di un’indennità per le coltivazioni in corso, qualora i terreni debbano essere utilizzati ai fini della loro demanialità.

Non è consentito all’affittuario operare addizioni e miglioramenti, o trasformazioni, se non concordati con l’Ente Pubblico concedente, o eseguiti a seguito delle procedure amministrative di cui agli artt. 16 e segg. L. 203/1982.

L’Ispettorato Agrario non può emettere parere favorevole agli interventi migliorativi, richiesti dall’affittuario, se gli stessi mantengono la loro funzionalità o utilità anche allo scadere del contratto e ciò in quanto, farebbe venir meno quel fine demaniale proprio del fondo.

La concessione dei terreni in affitto, di proprietà del demanio e degli Enti pubblici, può avvenire sia a trattativa privata che a licitazione e possono essere stipulati contratti in deroga ex art. 45 L. 203/1982, vale a dire con l’assistenza delle Organizzazioni Sindacali e quindi, con durata inferiore e con canone maggiore rispetto a quello equo previsto dalla legge.

La norma, in buona sostanza, pone gli Enti pubblici proprietari di terreni soggetti a sfruttamento agricolo, nelle stesse condizioni del concedente privato, salva l’eccezione di cui al comma due.

 

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L’articolo 11, della normativa in commento, deve essere trattato nel presente contesto, atteso che attiene la riduzione del vincolo dell’inalienabilità e indivisibilità dei fondi acquistati in forza delle leggi per la formazione e all’arrotondamento della piccola proprietà contadina.

Come è noto, chi esercitava la prelazione, quale affittuario conduttore, o proprietario coltivatore diretto confinante, non poteva alienare, parzialmente o totalmente il fondo per dieci anni, salvo che i fondi assumessero diversa destinazione urbanistica (per esempio edificatoria) o in caso di morte del prelante.

Il termine di dieci anni viene ora ridotto a cinque.

Tiene inoltre a precisare la norma, al comma due, peraltro in assonanza con la giurisprudenza di legittimità sino ad oggi formatasi a margine della normativa sul vincolo decennale, che l’estinzione anticipata del mutuo e la rinuncia alle agevolazioni fiscali (tassa di registro corrisposta al 17% anziché all’1%) non fanno venir meno il vincolo di inalienabilità se non decorso il quinquennio dall’acquisto.

Innovativo risulta il terzo comma ove prevede che il soggetto che abbia acquistato i fondi con le agevolazioni per la p.p.c. non decade dai benefici se durante il periodo vincolativo, e permanendo la destinazione agricola dei terreni, abbia a concederli a parenti, entro il terzo grado, o ad affini, entro il secondo.

Il quarto comma, apportando modifiche all’art. 11 della L. 817/1971, che prevedeva un vincolo trentennale di indivisibilità, (in caso di acquisto dei fondi con le agevolazioni creditizie concesse dallo Stato) riduce il termine vincolistico ad anni quindici.

Lo stesso articolo 11 L. 817/1971, al terzo comma, regolava la procedura, avanti gli ispettorati agrari, per la revoca del vincolo in caso di successione ereditaria.

Ora, è stato aggiunto l’ulteriore comma che prevede la revoca del vincolo medesimo, quindi sempre attraverso l’Ispettorato Agrario, nel caso in cui per strumenti urbanistici mutati, il fondo, o parte dello stesso, abbia perso la destinazione agricola, assumendo quella edificatoria.

 

AGRICOLTURA ED AMBIENTE – SITUAZIONI CONFLITTUALI

Allorquando, circa trent’anni or sono, iniziavano ad affermarsi i primi movimenti ambientalisti, di difesa del territorio, e di salvaguardia degli spazi verdi, gli stessi, furono benevolmente visti e accolti dal mondo agricolo, il quale, vedeva in tali nuove idee, un momento di salvaguardia e, finalmente di gestione delle aree agricole, sino ad allora rimaste "zone bianche" e concepite come serbatoio dello sviluppo urbanistico ed edilizio.

Il movimento agricolo e quello ambientalista, hanno trovato momenti di incontro e sinergia per giungere, in tempi più recenti, a situazioni di chiara incomprensione e di conflittualità.

La conflittualità si è senz’altro verificata allorquando "l’ambientalismo" si è istituzionalizzato facendo recepire ad Enti Pubblici territoriali, soprattutto Comuni, Comunità Montane e Province, indirizzi di pretesa salvaguardia che si scontrano apertamente con le esigenze dell’agricoltura e le necessità, anche primarie, del lavoratore della terra.

Il problema di fondo sta in una profonda ignoranza (nel senso di non conoscenza) da parte della maggior parte dei cosiddetti ambientalisti, di ciò che realmente è il mondo agricolo e l’attività dei campi.

Il settore primario è in continua evoluzione dovendo rapportarsi ad esigenze di mercato e ad un evolversi produttivo.

Pertanto, l’agricoltura, come qualsiasi altra attività umana, va vista in modo dinamico, talché nel tempo, variano parametri, quali forza lavoro, superficie, etc.. Le stesse necessità del lavoratore della terra, in questi anni sono profondamente mutate, per cui abbiamo assistito a fenomeni di ridimensionamento fondiario, (maggior accorpamento), nonché diversificazioni produttive.

Per quanto riguarda la Provincia di Bergamo basterà l’esempio dell’enorme sviluppo dell’orticoltura in serra che, da una parte ha determinato l’assorbimento di forza lavoro esuberante in altri settori produttivi – agricoli, e dall’altra, ha determinato occasioni di lavoro e di investimento per settori più vasti.

Questa dinamicità non ha trovato riscontro da parte dei cosiddetti ambientalisti e tanto meno da parte degli Enti territoriali, che lo ribadiamo, per ignoranza, concepiscono il mondo rurale come una realtà statica nel tempo.

Ed ecco i primi scontri, le prime incompatibilità, tra mondo agricolo e amministrazioni territoriali, le quali, con regolamenti restrittivi e sovente illegittimi, limitano, le attività produttive, presenti in serra, limitano con distanze assurde gli insediamenti bovino – allevativi, limitano l’attività di silvicoltura.

Altro equivoco discende dal fatto che per molte amministrazioni comunali le aree agricole sono considerate ancora una volta aree "zone bianche", questa volta non più per uno sviluppo edilizio ed urbanistico, ma da considerarsi come parchi urbani, con conseguenti assurdi limiti alla proprietà fondiaria, limiti comunque totalmente illegittimi, anche sotto il profilo costituzionale.

Innanzitutto è bene chiarire, che se un Comune vuol dotarsi di un parco, deve acquisire l’area, pagarla e attrezzarla, ma non può certo scaricare tale servizio sulle aree agricole con vincoli per strade, boschine o altro, che assolvono altre e ben diverse esigenze nel settore produttivo primario.

E’ fuor di dubbio, comunque, che le aree agricole oggi scontano una serie di vincoli divenuti ormai insopportabili, talché, rischiano di mettere nel nulla, o di impedire, la stessa attività produttiva.

Ancora una volta, la non conoscenza determina l’equivoco di fondo.

E’ bene che i cittadini sappiano che un determinato paesaggio rurale è tale e si mantiene, nella misura in cui l’uomo provvede alla sua manutenzione e lavorazione; al contrario, l’assenza della presenza umana e del suo intervento lavorativo, trasformerebbe colline vitate, o marcite verdeggianti, in un agglomerato impenetrabile di infestanti.

E’ del tutto impensabile un eco-sistema divenuto tale per totale assenza dell’intervento umano, (per esempio zone boscate di alta montagna o nelle zone tropicali) con un sistema che da almeno trecento anni ha visto e vede, l’intervento umano che ha provveduto a modificarlo e mantenerlo.

Soltanto quando i cosiddetti ambientalisti, e le amministrazioni che recepiscono de plano e senza una corretta conoscenza agronomica certi indirizzi, verranno superati attraverso una reale conoscenza dell’attività agricola, delle sue dinamiche, si potranno risolvere le attuali problematiche e situazioni di scontro.

La critica è fine a se stessa se non diventa anche momento propositivo.

Pertanto le organizzazioni di categoria degli agricoltori dovranno, d’ora innanzi, portare avanti una campagna divulgativa, senz’altro di spessore culturale e conoscitivo, al fine di far comprendere alla maggioranza dei cittadini, il nesso tra ambiente ed agricoltura, e come, certe scelte estremistiche si ritorcono proprio sull’assetto ambientale, nel momento in cui determinano l’espulsione o l’impossibilità di prosecuzione dell’attività agricola e di coltivazione.

Ad una campagna divulgativa, devono aggiungersi interventi mirati presso gli organi istituzionali di tutti i livelli, affinché rappresentanti delle organizzazioni agricole siano presenti in tutte le commissioni di tipo consultivo e propositivo, ed anzi, diventi obbligatorio il parere delle organizzazioni dei coltivatori in tema di piani particolareggiati, o comunque di strumenti urbanistici che riguardino le zone agricole.

Devono essere obbligatori i pareri anche in tema di vincoli, di qualsiasi tipo e genere, che le varie amministrazioni impongono sul territorio.

L’intervento dovrà essere divulgativo, ma soprattutto politico, determinato comunque a tutti i livelli, intendendosi con ciò Stato, Regioni, Province, Comunità Montane, Comuni, nonché tutti quegli organismi preposti ad una gestione e programmazione del territorio.

Se nei prossimi tre – quattro anni, non si giungerà ad un giusto equilibrio, tra le esigenze del settore primario, e gli ideologismi ambientalistici, lo scontro tra i due settori, ad oggi limitato alla fase giudiziale, potrà giungere a livelli diversi, e di maggior preoccupazione politica e sociale.

8 gennaio 2002.

 

 

CON IL NUOVO ANNO IN VIGORE IL MASO CHIUSO ALL’ITALIANA

Appena pubblicato il Decreto Legislativo 228/2001 era apparsa, quale novità assoluta, la previsione di cui all’art. 8, che estendeva alle aziende agricole di pianura la normativa di cui agli artt. 4 e 5 della L. 31 gennaio 1994 n. 97, nata per mantenere l’accorpamento dei fondi agricoli nelle zone montane.

Dovremmo sostenere che l’applicazione alle aziende agricole di pianura del cosiddetto riscatto delle quote di terreni dei coeredi, aggiunge un ulteriore tassello ad una tendenza legislativa che viene senz’altro da lontano.

Nel primo dopoguerra, e nel famoso protocollo De Gasperi – Grüber, che prevedeva una normativa speciale per il Sud Tirolo, al primo posto, era stata prevista la reintroduzione normativa del cosiddetto "maso chiuso" istituzione abrogata già nel 1922, ma di fatto mantenuta dalla compagine sociale di lingua tedesca.

Il legislatore del dopoguerra aveva potuto constatare gli effetti deleteri dell’eccessivo frazionamento fondiario derivante dalle successioni e che aveva portato intere zone e Regioni ad una parcellizzazione della proprietà terriera si da rendere difficile ed antieconomica la conduzione.

Al contrario l’esperienza del "maso chiuso" altoatesino, aveva dimostrato come il mantenimento dell’integrità aziendale in capo all’erede coltivatore, consentisse il proseguimento di aziende economicamente efficienti e produttive.

Il legislatore italiano, pur nei contrasti interpretavi delle norme costituzionali, portò avanti una normativa abbastanza organica per contrastare l’eccessivo frazionamento fondiario, e già con l’art. 8 comma X L. 590/1965 ritroviamo il diritto di riscatto del coerede, rimasto insediato sui fondi, delle quote di terreni cadute in successione e facenti capo agli altri familiari che non avevano provveduto nel quinquennio successivo all’aperta successione, alla divisione.

Tale norma, estremamente innovativa, già di per sé configurava l’istituto del cosiddetto "maso chiuso" favorendo senz’altro l’erede che restava insediato sul fondo agricolo provvedendo alla coltivazione dei terreni e all’allevamento del bestiame e fornendo allo stesso uno strumento normativo che gli consentiva di riscattare le quote degli altri comproprietari.

Un altro tassello su questo indirizzo normativo e politico lo ritroviamo nella legge 203/1982 sugli affitti agrari, ove l’articolo 49 prevede la costituzione di un affitto "ope legis" a favore dell’erede coltivatore diretto anche sulle porzioni di fondo pertoccate agli altri familiari estranei alla conduzione dei terreni e all’attività agricola.

Con gli artt. 4 e 5 della L. 97/1994, si opera un’innovazione delimitata però, nella sua applicazione, solo alle aziende agricole montane.

In buona sostanza l’erede coltivatore diretto, che sia rimasto insediato sul fondo divenendo affittuario delle quote degli altri coeredi, a mente dell’art. 49 L. 203/1982, alla scadenza del contratto così intervenuto, può riscattare le porzioni di fondo agricolo degli altri coeredi e il prezzo viene determinato a mente dell’art. 4 della L. 590/1965.

Così operando l’erede affittuario, trascorsi quindici anni di affitto "coatto", e comunque dalla morte dell’originario proprietario, può divenire proprietario di tutto il fondo caduto in successione, sia che nel frattempo sia stato diviso tra i vari coeredi, o che sia rimasto in comunione.

Il primo gennaio 2002 è entrato in vigore l’art. 8 del Decreto Legislativo 228/2001 che estende tale regime di acquisizione della proprietà fondiaria anche alle aziende di pianura.

Innanzitutto il presupposto è l’esistenza di una comunione ereditaria che vede, sotto il profilo oggettivo, un’azienda agricola con dotazioni di terreni scorte vive e morte, e dall’altra, sotto il profilo soggettivo, uno dei coeredi che sia coltivatore diretto e abbia instaurato l’affitto di cui all’art. 49 L. 203/1982.

Vale la pena operare un inciso: si ritiene che anche l’erede testamentario possa rientrare nell’applicazione dell’art. 49 L. 203/1982, e quindi anche nell’azione di riscatto familiare.

L’affitto instaurato in tal modo ha la durata di quindici anni a decorrere dall’aperta successione, o meglio, dall’11 novembre successivo. Alla scadenza del contratto quindicinale l’erede – affittuario, può riscattare le porzioni di terreni degli altri coeredi, sia nel caso in cui permanga una comunione ereditaria (proprietà indivisa), sia che nel frattempo i coeredi abbiano provveduto alla divisione con intestazione esclusiva dei singoli appezzamenti di terreno o delle porzioni di fabbricato rurale.

Come detto, alla scadenza del contratto, il coerede coltivatore comunicherà la propria intenzione di voler acquistare le porzioni o le quote degli altri coeredi e il prezzo è già determinato attraverso il meccanismo di cui all’art. 4 L. 590/1965 (valori fondiari medi determinati per zone omogenee da una Commissione Provinciale).

In tale occasione il coerede potrà acquistare anche le scorte vive e morte (bestiame, trattori, etc…) al prezzo che verrà determinato dall’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura (o Organo equipollente).

La novità, rispetto alle precedenti normative, è proprio la possibilità per il coerede di godere per quindici anni di tutte le scorte vive e morte e delle dotazioni aziendali e, alla scadenza del contratto, acquistare le medesime al prezzo determinato dall’Organo Amministrativo.

Qualora gli eredi rifiutino di ricevere le somme, l’erede obbligato dovrà limitarsi a depositarle presso un istituto di credito dandone comunicazione a mezzo racc. a.r.. Anche in tal caso, non sarà necessario, come in passato, provvedere alla procedura dell’offerta reale.

Naturalmente ad oggi non possiamo citare precedenti giurisprudenziali, ma è fuor di dubbio che gli eredi che intendono opporsi all’azione di riscatto dovranno agire avanti il Tribunale ordinario, qualora invece abbiano a contestare le valutazioni espresse dagli Organi Amministrativi dovrebbero impugnare tali pronunciamenti avanti la giustizia amministrativa. In tema esprimiamo alcune riserve in quanto, pur essendo il pronunciamento sul valore esplicato dall’Ispettorato Agrario o da una Commissione Provinciale, riterremmo maggiormente confacente la competenza dell’autorità Giudiziaria Ordinaria.

In tema dovremo comunque attendere il formarsi di una giurisprudenza, sia dei giudici di merito, che di legittimità. Resta un ultima problematica, in ordine all’intera procedura di riscatto; infatti, qualora gli altri coeredi abbiano a mantenere una posizione totalmente indifferente, ed esplicandosi la volontà del riscattante semplicemente dalle raccomandate a.r., non si comprende come possa essere data pubblicità all’avvenuto riscatto, sì da tutelare i terzi.

In buona sostanza, non vi è traccia, nel testo normativo, di una qualsiasi forma di trascrizione, salvo che la stessa non derivi da una sentenza o da un atto di citazione; in caso contrario, il terzo estraneo o cosiddetto in buona fede, potrebbe acquistare una porzione di area dall’erede rimasto inerte, senza venire a conoscenza, attraverso l’indagine alla Conservatoria dei Registri Immobiliari che la porzione di area è stata oggetto di riscatto.

In realtà dovrebbe intendersi che nel silenzio dei coeredi riscattati, o in loro opposizione, non resta che affidarsi ad un pronunciamento giudiziale, giudice ordinario, con conseguente trascrizione, sia dell’atto introduttivo del giudizio, sia della sentenza che acclara il trasferimento della proprietà in capo all’erede avente diritto.

11 gennaio 2002.

Corte di Cassazione – Sezione III civile – Sentenza 14 novembre 2001/11 marzo 2002 n. 3500 (Pres. Duva; Rel Calabrese; Pm – Difforme – Apice; Ricorrente Garofletti; Controricorrente Sonzogni)

PER IL COLTIVATORE DEL FONDO E’ INDIFFERENTE IL NOME DELL’ACQUIRENTE

Esame critico della sentenza

Al fine di inquadrare la problematica che ci vede critici nella sentenza in commento, dobbiamo preliminarmente inquadrare la tematica al nostro esame.

Dottrina e giurisprudenza, formatasi a margine dell’articolo 8 L. 590/1965, ritenevano che vi dovesse essere perfetta identità tra quanto comunicato all’affittuario, perché potesse esercitare la prelazione, e quanto poi riportato nell’atto definitivo di vendita.

Come è noto, eventuali difformità davano diritto all’affittuario di riscattare il fondo.

Tra gli elementi ritenuti essenziali, per una valida denuntiatio, oltre al prezzo, le modalità di pagamento, all’identificazione dei fondi, veniva ritenuto essenziale il nominativo dell’acquirente, talché, la notificazione di un atto preliminare, nella forma della persona da nominare, veniva ritenuto inidoneo a raggiungere l’obbiettivo di una valida denuntiatio all’avente diritto. In buona sostanza si riteneva che l’affittuario dovesse essere perfettamente a conoscenza del nominativo dell’acquirente, costituendo lo stesso, un elemento essenziale per la sua scelta, circa l’eventualità o meno di esercitare la prelazione.

Effettivamente, la conoscenza del soggetto acquirente i fondi, poteva avere rilevanza, allorquando i contratti agrari erano in regime di proroga, atteso che, il nuovo acquirente dei terreni, poteva escomiare l’affittuario.

Altrettanto dicasi nel regime cosiddetto transitorio di cui alla L. 203/1982 ove era consentito, a mente dell’art. 42, stessa legge, al nuovo proprietario eserctare la ripresa sui terreni acquistati

Pertanto, l’affittuario, sapendo che l’acquirente dei terreni era un coltivatore diretto, o soggetto equiparato, doveva valutare la possibilità che il nuovo proprietario potesse escomiarlo dalla conduzione, prima della scadenza del contratto.

Se questa era la ratio che imponeva l’esatta identificazione, nel preliminare o nella denuntiatio, del soggetto acquirente, del tutto indifferente risultava tale circostanza per il confinante, al quale, nella veste di proprietario e conduttore dei terreni, doveva risultare del tutto indifferente l’acquirente dei fondi agricoli contigui.

Proprio per tale differente situazione giuridica, già la Suprema Corte, per quanto riguardava il confinante, aveva ritenuto valida, ai fini della denuntiatio, la trasmissione di un preliminare nella forma di un contratto per persona da nominare (Cfr. Cass. Sez III 4113/93).

Dopo l’11.11.1997 tale principio doveva trovare applicazione anche per quanto attiene l’affittuario, atteso che, il diritto di ripresa, era consentito esclusivamente per i contratti regolati dalla L. 203/1982 in corso o in regime di proroga al 6 maggio 1982, data di entrata in vigore dei nuovi patti agrari.

A mente dell’art. 2 L. 203/1982, con l’11 novembre 1997 venivano a scadere tutti i contratti, o in regime di proroga legale, o comunque in essere a quella data, al contrario, tutti i contratti stipulati in epoca successiva all’entrata in vigore della L. 203/1982, comunque stipulati, anche in deroga alla legge, ai sensi dell’art. 45, per durata, canone etc…, non consentivano il diritto di ripresa.

L’ormai consolidata giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha confermato l’applicabilità del diritto di ripresa del fondo, e di cui al citato articolo 42 L. 203/1982, esclusivamente ai contratti in regime di proroga o in corso all’entrata in vigore della nuova legge; la stessa giurisprudenza ha escluso il diritto di ripresa, per tutti quei contratti sorti, in qualsiasi forma, in deroga o meno, successivamente al 6 maggio 1982.

Pertanto, con l’11 novembre 1997 i contratti in corso al 1982 o erano scaduti e disdettati, oppure si sono rinnovati, ma anche ai contratti rinnovati tacitamente o per mancata disdetta non trova applicazione il diritto di ripresa.

Quid juris?

E’ di tutta evidenza che un contratto rinnovatosi per quindici anni per mancata disdetta dopo il 1997 non sarà soggetto alla ripresa di cui all’art. 42, talché, troverà la sua scadenza secondo le previsioni di cui all’articolo 1 secondo comma L. 203/1982.

Da quanto sopra ne deriva la totale ultroneità, per l’affittuario conduttore, che il fondo venga acquistato da un coltivatore diretto o meno, dato che, comunque, l’acquirente non potrà escomiarlo dal fondo sino alla scadenza del contratto.

Ne deriva, a nostro sommesso avviso, la piena validità, sotto il profilo della denuntiatio, di un preliminare stipulato in forma di contratto per persona da nominare, estendendosi quindi la giurisprudenza, formatasi in tema per il confinante, anche all’affittuario conduttore.

Infatti, dopo l’11 novembre 1997 è venuta meno la ratio che dava rilevanza al soggetto acquirente dato che poteva crearsi l’assioma proprietario coltivatore = escomio.

Venuta meno la possibilità per il conduttore di essere escomiato dal nuovo acquirente, prima della scadenza del contratto, ci sembra del tutto irrilevante la conoscenza precisa ed esatta dell’acquirente stesso, per cui, in tema, la giurisprudenza dovrebbe uniformarsi, sia che la denuntiatio attenga un confinante, sia che riguardi l’affittuario conduttore.

3 maggio 2002

 

 

ANCORA SULL’EQUO CANONE AGRARIO

PROBLEMATICHE INERENTI ALLA DICHIARAZIONE DI INCOSTITUZIONALITA’

Corte Costituzionale 1-5 luglio 2002 n. 318 (Pres. Ruperto; Rel. Marini; Ordinanza di rimessione Tribunale Pesaro)

LA MASSIMA

CONTRATTI AGRARI – EQUO CANONE AGRARIO – MANCATA REVISIONE DEGLI ESTIMI CATASTALI – SPEREQUAZIONE CON LA REALE PRODUTTIVITA’ DEI FONDI – INCOSTITUZIONALITA’ - SUSSISTE

(Articoli 3, 42 e 44 Cost.; artt. 9 e 62 L. 203/1982)

Il meccanismo di determinazione del canone di equo affitto di cui agli artt. 9 e 62 della legge n. 203/1982, basato sul reddito domenicale risultante dal catasto terreni del 1939, rivalutato in base a meri coefficienti di moltiplicazione, risulta privo, ormai, come già evidenziato da questa Corte, di qualsiasi razionale giustificazione, sia perché esistono dati catastali più recenti ed attendibili, ai quali fare eventualmente riferimento, sia perché in ogni caso, a distanza di oltre un sessantennio dal suo impianto, quel Catasto ha perso qualsiasi idoneità a rappresentare le effettive e diverse caratteristiche dei terreni agricoli, cosicché, non può essere posto a base di una disciplina nei contratti agrari rispettosa della garanzia costituzionale della proprietà terriera privata, e tale da soddisfare la finalità dell’instaurazione di equi rapporti sociali, imposta dall’art. 44 della Costituzione.

 

LA GIURISPRUDENZA RICHIAMATA

- Corte Costituzionale: sentenza n. 155 del 14 luglio 1972 dichiara l’incostituzionalità degli artt. 1, 2, 3, 4 primo comma Legge 11 febbraio 1971 n. 11.

- Corte Costituzionale: sentenza n. 153 del 22 dicembre 1977 dichiara costituzionalmente illegittimi gli artt. 2, 3 e 4 della legge 10 dicembre 1973 n. 814, nonché degli artt. 12 e 14 L 11 febbraio 1971 n. 11.

- Corte Costituzionale: sentenza n.139 del 7 maggio 1984 ritiene infondata l’eccezione di incostituzionalità degli artt. 9, 10, 13, 14 e 62 L 3 maggio 1982 n. 203

 

 

IL COMMENTO

UN PRONUNCIAMENTO ORMAI TARDIVO

A distanza di venti anni dall’entrata in vigore della legge sui patti agrari (3 maggio 1982 n. 203) la Corte Costituzionale torna ad occuparsi dell’equo canone agrario; infatti, con la decisione in commento, i Giudici del Palazzo della Consulta hanno dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 9 e 62 L. 203/1982, ritenendo che il canone equo, derivante da un coefficiente di moltiplicazione per il reddito domenicale, è senz’altro sperequato non andando a soddisfare un equo compenso per la proprietà terriera privata.

Il problema dell’equo canone agrario si appalesava già all’indomani dell’approvazione della L. 11/1971, la quale, superava definitivamente il pagamento del canone rapportato a quantità di prodotto per unità di superficie, statuiva il pagamento in denaro e fissava dei coefficienti di moltiplicazione per il reddito domenicale.

Mentre il precedente sistema, ancorato a quantità di prodotto per unità di superficie, aveva difeso il canone agrario dalla svalutazione, già l’ancoramento al reddito domenicale aveva reso evidente la sperequazione determinatasi con la nuova legge tant’è che i canoni dell’annata agraria 1971/1972, erano di gran lunga inferiori a quelli del periodo antecedente l’entrata in vigore della legge.

La Corte Costituzionale, già con sentenza 155/1972 dichiarava l’incostituzionalità degli artt. 1, 2 e 3 legge 11 del 1971.

Il legislatore con legge 814/1973 aveva introdotto una normativa transitoria, sempre in tema di equo canone agrario, ma ancora una volta la Corte Costituzionale con sentenza 153/1977 riteneva l’incostituzionalità anche di tale legge.

Il vuoto normativo si protraeva sino all’entrata in vigore della L. 203/1982 ove era sempre previsto un coefficiente rapportato al reddito domenicale.

Già i primi commenti, all’entrata in vigore della legge sui patti agrari, evidenziavano l’ulteriore e permanente sperequazione rispetto ai canoni di mercato.

Nuovamente investita la Corte Costituzionale, la stessa con sentenza n. 139/1984 respingeva l’eccezione, riconoscendo, effettivamente la sperequazione del canone, ma ritenendo che l’entrata in vigore dei nuovi estimi catastali, avrebbe reso il canone equo e remunerativo, pur permanendo i coefficienti fissati.

La pochezza del canone equo si era acuita e resa palese allorquando nella stipula dei contratti in deroga, ex art. 45 L. 203/1982, si evidenziava come il canone di mercato risultasse superiore di 15 / 20 volte rispetto a quello calcolato secondo legge.

Dopo il 1997, con la scadenza del regime transitorio e quindi di tutti i contratti agrari, é diventata prassi consolidata ricorrere a contratti derogativi con l’assistenza delle organizzazioni sindacali; contratti che se non derogano alla durata minima di legge, derogano senz’altro al canone.

Il pronunciamento della Corte Costituzionale appare alquanto anacronistico, atteso che, sono soggetti all’equo canone soltanto quei contratti che, per mancata disdetta inviata nel periodo tra il 1991 e il 1996, si sono rinnovati.

In tutti gli altri casi, i contratti sono stati tutti stipulati, come detto, a mente dell’art. 45 legge 203 del 1982. Non è dato sapere, a livello nazionale, quanti siano i contratti soggetti ad equo canone, e quali superfici interessino, può darsi, per certo, comunque, che per quanto attiene importanti superfici difficilmente troveremo una rinnovazione del contratto e la sua sottoposizione ad equo canone.

L’esperienza ci insegna che la rinnovazione ha interessato perlopiù situazioni marginali e superfici ridotte.

E- fuor di dubbio che la dichiarazione di incostituzionalità costringerà il legislatore ad un "intervento tampone" al fine di regolamentare, non solo quei contratti soggetti ad equo canone agrario, ma anche, se non colpiti dalla prescrizione, per quei contratti ormai scaduti.

Non riteniamo di condividere l’allarmismo sollevato da alcune organizzazioni di categoria, circa eventuali contraccolpi sulle realtà agricole. Infatti, e anche prescindendo da un intervento del legislatore, devesi tener presente che il periodo prescrizionale giocherà senz’altro un ruolo non indifferente nelle varie situazioni, vale a dire sia per i contratti in corso, per rinnovazione a seguito di mancata disdetta, sia per i contratti scaduti in vigenza del periodo transitorio di cui all’art. 2 della legge 203/1982.

In definitiva una sentenza tardiva che non determinerà problematiche nel mondo agricolo.

15 luglio 2002.

 

DIRITTO E PROCEDURA CIVILE

CONTRATTI AGRARI

DIRITTO DI RITENZIONE DEL FONDO: SOLO PER I MIGLIORAMENTI ASSENTITI O AUTORIZZATI

Corte di Cass. Sez. Terza - sent. 29.5./11.10.2002 n. 14526 (Pres. Giuliano; Rel. Finocchiario M.; P.M. – Conf. – Marinelli; Ric. Agergest S.p.a.; Controric. Facchetti).

LA MASSIMA. Contratti agrari – Miglioramenti eseguiti invito domino ante legge n. 11/71 – Non consentono l’indennizzo – Non consentono la ritenzione del fondo – Prescrizione – Applicabilità (articoli 1651 Cod. Civ.; articolo 15 Legge 11/71; articolo 2946 Cod. Civ.)

È palese, pertanto, che i miglioramenti eseguiti prima dell’entrata in vigore della legge n. 11 del 1971 sono indennizzabili alternativamente o secondo le disposizioni di cui alla stessa legge n. 11 del 1971 qualora previsti nel contratto e concordati dalle parti, o in forza dell’art. 1651 c.c. ove eseguiti "senza essere stati autorizzati dal locatore".

In quest’ultimo caso la disciplina applicabile è esclusivamente quella contenuta nella ricordata disposizione e, pertanto, il diritto all’indennizzo è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale (cfr. art. 2946 c.c.) decorrente dalla fine dell’annata agraria in cui i miglioramenti stessi sono stati eseguiti, atteso che da tale data il diritto può essere fatto valere nei confronti del concedente (cfr. art. 2935 c.c.).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Cass. Sez. III 5.12.1983 n. 7260: "La Corte di merito ha fatto logicamente conseguire dalla ritenuta trasformazione del fondo operata arbitrariamente la preclusione alla indennità invocata ex art. 15 della legge n. 11 del 1971, essendo tale indennità ivi prevista per i miglioramenti attuati legittimamente con la procedura di cui ai precedenti artt. 11 e 14 e non potendosi quindi estendere alle trasformazioni integranti grave inadempimento contrattuale"

Cass. Sez. III 26.10.1985 n. 5286: "Secondo consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, la retroattività di una legge incontra uno ostacolo invalicabile alla sua applicazione quando il rapporto abbia esaurito i suoi effetti… d’altronde è consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte che l’indennità per i miglioramenti eseguiti dall’affittuario di un fondo rustico, ove trattasi di opere anteriori all’entrata in vigore della legge n. 11 del 1971 (come nel suo caso in esame) spetta, ai sensi della norma generale dettata dall’art. 1592 c.c., quando i miglioramenti stessi siano consentiti dal locatore, al qual fine non è sufficiente la sola scienza o la mancata opposizione del locatore medesimo, o siano autorizzati dal giudice nei casi previsti dalla legge. (Conf. - Cass. 5 luglio 1984 n. 3924; Cass. 1008/79; Cass. 1707/73) ".

Cass. Sez. III 9.12.1988 n. 6691: "Al riguardo non va infatti dimenticato che nella legge n. 11/1971 esiste l’art. 15 che, all’ultimo comma, ha esteso, con espressione ripetuta poi letteralmente dall’art. 17 della legge n. 203 del 1982, l’indennizzabilità ai miglioramenti "comunque eseguiti" in data anteriore alla legge; norma che è sfuggita alla censura di incostituzionalità – con riguardo alla sua efficacia retroattiva – ancorché non in base ad un esame nel merito, ma alla irrilevanza sopravvenuta a seguito della pronuncia di illegittimità dell’art. 4 e del primo comma dello stesso art. 15 della legge…Si pone quindi il problema del raccordo fra l’art. 1651 cod. civ. e l’art. 15 ultimo comma, della legge n. 11 del 1971 che va risolto, a parere della Corte, in questi termini: le opere di miglioramento, eseguite prima dell’entrata in vigore della legge del 1971, sono indennizzabili, ancorché effettuate senza l’autorizzazione del locatore, perché le consente l’art. 1651 cod. civ. (il quale, come norma speciale, prevale sul contrario principio affermato, in via generale in materia locatizia, dall’art. 1592 cod. civ.), ma i criteri dell’indennizzo non sono quelli stabiliti dalla suddetta norma (che al riguardo configura una facoltà discrezionale del giudice con un limite massimo di liquidazione), bensì quello previsto dall’art. 15, secondo comma, della legge n. 11 del 1971, non tanto alla stregua del successivo sesto comma ("miglioramenti … comunque eseguiti prima dell’entrata in vigore della presente legge"), quanto perché l’indennizzabilità deve essere calcolata secondo la normativa vigente al momento in cui, cessato il rapporto di affittanza, emerge in concreto il problema del calcolo dell’indennizzo".

IL COMMENTO

UN PUNTO FERMO IN TEMA DI PRESCRIZIONE PER LE MIGLIORIE APPORTATE DALL’AFFITTUARIO

Con la scadenza dei contratti agrari soggetti a proroga legale sovente veniva utilizzato l’escamotage di pretesi miglioramenti per paralizzare l’azione di rilascio del proprietario invocando il diritto di ritenzione, di cui all’art. 20 L. 203/1982.

Sia la giurisprudenza di merito, che di legittimità, ha avuto alterni pronunciamenti, soprattutto in tema di abrogazione dell’art. 1651 cod. civ..

V’è da dire che, quanto meno dal 1998, la Suprema Corte ha assunto un indirizzo univoco, anche se la sentenza in commento ha una sua originalità e novità in tema di prescrizione dell’art. 1651 cod. civ. abrogato.

Come è noto la legge 11/1971 consentiva all’affittuario coltivatore diretto la realizzazione di migliorie anche senza il consenso della proprietà (art. 12). Tali norme, venivano successivamente falcidiate dai pronunciamenti della Corte Costituzionale. Anche la legge 203/1982, in tema di miglioramenti (artt. 17 e 19) veniva raggiunta da pronunciamenti di incostituzionalità, là dove si ritenevano indennizzabili i miglioramenti effettuati dall’affittuario senza il consenso della proprietà e senza l’approvazione da parte dell’Ispettorato Agrario, previo espletamento, in quest’ultimo caso, del procedimento amministrativo.

Il problema si è posto allorquando l’affittuario sosteneva di aver realizzato miglioramenti sotto l’egida dell’art. 1651 cod. civ., espressamente abrogato dall’art. 29 L. 11/1971.

In buona sostanza tale norma consentiva all’affittuario, anche senza il consenso del proprietario concedente, di effettuare piccoli miglioramenti fondiari, potendone chiedere il rimborso al termine dell’annata agraria in cui tali interventi erano stati realizzati.

La Corte Costituzionale dichiarava l’incostituzionalità dell’art. 14 L. 11/1971 là dove consentiva interventi migliorativi, o meglio la loro indennizzabilità, anche se realizzati senza il consenso della proprietà concedente e senza l’espletamento della preventiva autorizzazione amministrativa.

Pervero la Corte Costituzionale nel 1988 riteneva di non dichiarare incostituzionale l’ultimo comma dell’art. 15 L. 11/1971 in quanto "assorbito" dal pronunciamento sull’art. 14 stessa legge.

Purtroppo la dizione "comunque eseguiti in data anteriore all’entrata in vigore della presente legge" ha fatto ritenere, sia ad alcuni giudici di merito, che ad un iniziale orientamento della Suprema Corte, che anche i miglioramenti eseguiti sotto il vigore dell’art. 1651 c.c. potessero trovare indennizzo alla scadenza del contratto di affitto agrario.

Secondo una prima interpretazione si riteneva la reviviscenza della norma codicistica a seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle norme in tema di miglioramenti di cui alla legge 11/1971.

Secondo altro orientamento tali interventi venivano "salvati" proprio dall’ultimo comma dell’art. 15 L. 11/1971.

Pur con giurisprudenza ormai conforme, dal 1998, la Suprema Corte con il pronunciamento in commento ha voluto porre dei punti fermi su alcune questioni ancora soggette a difforme interpretazione, pronunciandosi, per la prima volta, in tema di prescrizione sulle pretese migliorie.

Innanzitutto la S.C. ritiene che siano soggette ad indennizzo, e quindi eventualmente, a diritto di ritenzione del fondo, soltanto quegli interventi migliorativi che siano stati assentiti dalla proprietà concedente o dall’Ispettorato Agrario, previo espletamento della relativa procedura.

Al contrario, tutti i miglioramenti effettuati dal conduttore, dopo l’entrata in vigore della L. 11/1971 che non siano stati autorizzati dalla proprietà o dall’Ispettorato Agrario, non solo non danno diritto ad alcun indennizzo ma, al contrario, possono costituire grave inadempimento contrattuale.

In ordine ai miglioramenti eseguiti prima dell’entrata in vigore della L. 11/1971 la S.C. ha ribadito l’abrogazione dell’art. 1651 cod. civ. da parte dell’art. 29 stessa legge, e quindi, l’impossibilità di una qualsiasi reviviscenza della norma abrogata.

Pertanto i miglioramenti effettuati prima del 1971 trovavano il loro fondamento nella norma codicistica, consentendo all’affittuario, di richiedere alla proprietà concedente l’indennizzo sin dal termine dell’annata agraria in cui gli interventi erano stati realizzati.

Ma la S.C. ritiene che tali miglioramenti siano soggetti all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 cod. civ..

In ultima analisi, pertanto, tutti i miglioramenti pretesamente realizzati prima del 1971, anche senza il consenso della proprietà concedente e senza che fossero richiesti, sotto forma di indennizzo dall’affittuario, hanno trovato prescrizione nel 1981, anche se il contratto di affitto agrario trovava scadenze differenziate (da ultimo 10.11.1997) a mente dell’art. 2 L. 203/1982.

La sentenza va totalmente condivisa, sia sotto il profilo della corretta applicazione di legge, sia per quanto riguarda una certezza nell’applicazione delle norme.

Era infatti estremamente arduo per il proprietario poter contrastare le pretese dell’affittuario a distanza di quasi trent’anni da quando le migliorie sarebbero state pretesamente realizzate.

Bergamo lì 2 gennaio 2003.


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