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Politica e Mafia

Palermo, così la mafia ha continuato a distribuire il potere

PALERMO 20 Lug - Nel salotto del dottor Giuseppe Guttadauro, medico 60enne e capomafia di Brancaccio per conto di Bernardo Provenzano, si discorreva amabilmente di candidature da piazzare al Comune o alla Regione e si ridisegnavano gli organigrammi degli ospedali e delle Asl, arraffando «primariati» e cercando di dare una mano agli «amici» a spasso, freschi o meno freschi di laurea in medicina. Domenico Miceli, fedelissimo di Cuffaro e suo «tramite comunicativo», ascoltava le richieste del chirurgo che aveva ereditato il potere dei fratelli Graviano, dispensando consigli e rivelando i retroscena della mappa del potere palermitano. Guttadauro, che si mostrava informatissimo su ciò che accadeva nei palazzi della politica, integrava le notizie fornite da «Mimmo» con quelle apprese di prima mano, una sorta di cronista di Cosa Nostra che ricorreva a fonti diverse seguendo il metodo della verifica incrociata.
Le microspie del Ros registravano ogni parola.

Successivamente il via vai sanitario che frequentava l'appartamento di via De Cosmi, poche centinaia di metri in linea d'aria dal tribunale, veniva trascritto nel voluminoso rapporto inviato in procura. Una sceneggiatura per un filmone sulla «classe borghese» palermitana sciascianamente «irredimibile», l'informativa trasmessa dal Ros di Palermo all'autorità giudiziaria.
«È stato davvero sconcertante scoprire che tanti professionisti, soprattutto medici, si siano relazionati con Cosa nostra in maniera così naturale», commentano i carabinieri. Dalle intercettazioni saltano fuori fior di dottori, ma anche nomi di notai e di avvocati. Balza in primo piano, cioè, uno spaccato illuminante della classe dirigente palermitana presso la quale, secondo il Ros, «Cosa nostra trova la sua maggiore legittimazione» . Il dato più significativo delle conversazioni in casa Guttadauro? «la disponibilità dimostrata dal professionista Miceli, cittadino facente parte della Palermo borghese, che con la sua condotta si attivava concretamente a colloquiare con esponente di Cosa nostra per conseguire due fini: quello proprio e di indiretto rapporto relazionale tra il mafioso e il futuro Presidente della Regione».

Miceli, l'Udc finito in carcere nelle scorse settimane nell'ambito dell'operazione «Ghiaccio» (una cinquantina di mandati di cattura), è uno dei pilastri del «sistema Cuffaro». Della macchina - perfetta prima dell'avviso di garanzia per mafia ricevuto dal governatore della Sicilia - che ha prodotto per anni voti e affari e che, secondo Cuffaro, ha creato tante invidie tra gli stessi alleati di coalizione e dentro le file di Forza Italia. Queste invidie, e non gli inesistenti rapporti con i boss, sarebbero all'origine delle sue disavventure giudiziarie: così si difende il governatore.

CUFFARO O MUSOTTO? Primo febbraio 2001, vigilia di elezioni politiche, regionali e comunali. Guttadauro sa già che Cuffaro sarà il candidato governatore della Sicilia. «Sarà lui, Micciché si tirerà fuori - annuncia il capomafia - L'unico che può fottere Orlando alla presidenza della Regione è Totò». Fatta questa premessa, spiegano gli uomini del Ros, «il Guttadauro introduceva una serie di temi per i quali riteneva opportuno l'intervento di Cuffaro, finalizzato ad esaurire le sue proposte» e che riguardavano, espressamente, «la nomina di primari»: quello dell'ospedale di Partitico e quello di chirurgia d'urgenza dell'ospedale Civico. Dal cilindro del «padrino», così, saltano fuori i nomi dei medici «raccomandati». «Possibile che noialtri un primario non lo dobbiamo fare? », esclama Guttadauro mentre fornisce a Miceli l'elenco dei suoi candidati. Se Cuffaro «non ha intenzione - avverte - allora uno si rivolge ad altre persone». A Musotto, per esempio, «destinato a diventare probabilmente il Sindaco di Palermo, che lo conosco da una vita. Sono stato in carcere con suo fratello, ammesso che valga qualche cosa. Ci posso andare anche. Ho questi rapporti diretti. Ci posso arrivare con un'altra persona, non è che è un problemaà».

MESSAGGIO A TOTÒ «Parlerò con Cuffaro», promette Miceli. Di ospedali, ma anche di altre cose che stanno a cuore al padrone di casa: dello sblocco delle pratiche per l'area da destinare a centro commerciale che interessa al boss di Brancaccio. Ma anche di concorsi banditi per una dozzina di posti di assistente medico. «Abbiamo un poco di ragazzi che ancora sono in mezzo alla strada - spiega il capomafia - Un Marcello che meschino combatte con la fame alla guardia medica e che a momenti ha 50 anni. Abbiamo anche Giacomino ... L'importante non è che (Cuffaro, ndr) lo deve mettere al primo posto. L'importante è che lui sa che la graduatoria scorrerà. Li mette in un posto, che tra un giorno o fra quattro mesi li chiamano».

MESSAGGIO RICEVUTO Nove febbraio 2001, Miceli ritorna in via De Cosmi. «I contenuti della conversazione - scrive il Ros - erano da intendersi come se il Miceli avesse incontrato Cuffaro Salvatore al quale aveva esposto le richieste che il Guttadauro gli aveva rappresentato riportandone le risposte». La pratica per il centro commerciale si può sbloccare, anche se il Comune di Palermo è retto, al momento, da un commissario straordinario: spiega nella sostanza «il tramite comunicativo» tra boss e futuro presidente della Regi one. Quanto ai candidati proposti per il concorso medico, uno solo dei due si può aiutare. Niente da fare, invece, per i primari. Totò «ha influenza per l'ospedale di Cefalù, per l'ospedale Cervello, per Villa Sofia e per la Usl 6», ma non per il Civico di Palermo e per l'ospedale di Partitico. Lì bisogna ricorrere ad altri referenti politici centrodestrini, a Lo Porto e a Nicolosi.

SUL CARRO DEL VINCITORE Entra in scena un altro medico palermitano, Salvatore Aragona. Anche lui, come Miceli, finito in manette per associazione mafiosa in relazione agli sviluppi dell'inchiesta che ha messo nei guai Totò Cuffaro. «Il Miceli e l'Aragona - spiega il rapporto de l Ros - costituivano le persone con le quali erano garantiti i rapporti con il Presidente della Regione Sicilia e costituivano i tramiti utilizzati per le richieste di »favori« provenienti dal capo mafioso di Brancaccio destinati al Cuffaro». «Ho un ascendente nei confronti del numero uno», spiega orgoglioso Aragona a Guttadauro. Il «numero uno», manco a dirlo, è Totò Cuffaro, stella destinata a brillare ancor di più nel firmamento politico siciliano. La conversazione tra il boss di Brancacc io ed Aragona risale al 9 aprile 2001. Tutti e due, scrivono i carabinieri, «erano consci» che «chi si aggregava sul carro di Cuffaro sarebbe sicuramente salito se Cuffaro avesse vinto la gara elettorale». Era opportuno, quindi, decidere la «persona fidata» su cui puntare per le prossime regionali. La scelta era a portata di mano. L'amico comune che conosceva da lunga data il futuro governatore dell'isola. Domenico Miceli, al quale successivamente anche «Totò» proporrà la candidatura.

PUNTO SU BUTTIGLIONE Si parla un po' di tutto, fino a tarda sera, in casa Guttadauro. Ad una certa ora del pomeriggio di quel 9 maggio si aggrega anche Miceli. Si discute della sua discesa in campo, dei voti da pescare da una parte e dall'altra della provincia, dei finanziamenti per la campagna elettorale. Poi Guttadauro espone le sue convinzioni politiche. «Sottolineava nuovamente la sua vicinanza ideologica a Buttiglione - sintetizza il Ros - leader politico che sentiva massimamente di appoggiare al contrario di Berlusconi , apostrofato come una persona che voleva egoisticamente passare alla storia. Il suo partito, Forza Italia, era considerato da Guttadauro una coalizione vuota, che, una volta caduto Berlusconi, si sarebbe sciolta». Mafia lungimirante, mafia che cerca di puntare sul sicuro. Dall'isola Cdu e Ccd danno la linea a livello nazionale, precorrono i tempi dell'unificazione e del futuro Udc, riannodano i fili del vecchio e sicuro contenitore democristiano. «Il boss Guttadauro ha privilegiato il rapporto con il Cdu che in Sicilia esprime il presidente della Regione», rileva il Ros dei carabinieri. Rapporti indiretti, con Cuffaro che mostrava cautela facendo capire che un incontro a quattr'occhi con il boss, per il momento, non sarebbe stato opportuno.

SCHIAFFI AI PM Guttadauro non se ne doleva più di tanto, mostrava realismo e guardava alle rendite future. «Rifletteva sui procedimenti giudiziari cui erano incorsi alcuni politici quali Musotto e Dell'Utri ritenendo che in conclusione avevano sortito un effetto politi co che andava in senso contrario rispetto agli scopi processuali della Procura - scrivono i carabinieri - Sembrava capirsi che il Guttadauro collocava proprio nel predetto effetto la ragione che poteva aver convinto il Cuffaro ad accettare una relazione, seppure indiretta con il mafioso». «Penso che l'umore stia un tantino cambiando - spiega il capomafia conversando con Miceli - Non è che significa che sono finite tutte le cose, no!! Non è finito niente, anzi loro vogliono essere peggio di prima. Parlo per la procura. Può essere che, arrestato Musotto, esce e prende altri trecento o quattrocento mila voti. Questo è stato uno schiaffo alla procura. Se Dell'Utri si porta prenderà altri quattrocentomila voti. E loro possono inquisire quanto vogliono». Insomma, Guttadauro appoggerà Miceli. Ma il patto è chiaro: si attendono contropartite da Cuffaro e «Mimmo» non dovrà accampare pretese in vista delle prossime comunali. «Avrebbero dovuto appoggiare tale Amato, altro medico, sempre della coalizione di Cuffaro», spiega il Ros. Effettivamente, scrivono ancora i carabinieri, «lo stesso si è presentato alle elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Palermo, venendo eletto nelle liste del Cdu».

(Aggiornato il 20 Luglio 2003 ore 11:00)

 

Il Padrino abita sempre lì

Palermo 20 Lug - Adesso, l’unica cosa che non si capisce è perché il telefono del «governatore di Sicilia» non sia stato messo sotto controllo dai magistrati. E dire che lui aveva voluto tranquillizzare l’opinione pubblica dicendo che era sereno, che aveva chiarito, che si trattava di pinzillacchere, che così fan tutti, che le ali della politica, le ali del governo, le ali della cosa pubblica, volano troppo alte per essere zavorrate dal piombo giudiziario.
Era uscito beato e sorridente dalla stanza dove per oltre sei ore i vertici della Procura di Palermo lo avevano sottoposto a interrogatorio. E sorridevano anche i suoi avvocati, perché se a Palermo non ti chiamano in causa per strage o per avere fatto strangolare qualcuno, puoi sempre dire che si tratta d’acqua fresca. «Minchiate», le chiamano i penalisti del Foro più smagato e più cinico del mondo. «Cose ca si sbunciano», cose destinate a sgonfiarsi.

E poi, vuoi mettere? Il governatore eletto con un milione e mezzo di preferenze. E come credete che si convincano, in un milione mezzo, a dare la preferenza allo stesso, medesimo, identico candidato?
Totò Cuffaro: un Faraone con un esercito di vasa vasa come lui alle sue dipendenze, un Faraone col viso da bambino, ed è proprio con lui che il rapporto mafia e politica sta diventando in Sicilia una piramide gigantesca che viene messa a fuoco persino dai satelliti tanto sta diventando visibile e ingombrante. Il Faraone col viso da bambino si era detto sorpreso da quella comunicazione di garanzia che lo aveva raggiunto all’acme del suo potere, proprio ora che alle ultime amministrative era riuscito a portare il suo «centro» a tallonare i Faraoni della dinastia rivale, quelli di Forza Italia.
Per fare scena, si era immediatamente giocato la carta delle possibili dimissioni, annunciate e prontamente rientrate, da presidente della Regione Sicilia.

I novanta deputati di Palazzo dei Normanni, ricevendolo a Palazzo dei Normanni, lo avevano stretto in un braccio soffocante e dal significato chiaro persino alle pietre: che fai tu? ti dimetti? Ma dove vai? Se te ne vai tu siamo costretti a dimetterci tutti, e si torna a votare. Il Faraone col viso da bambino aveva ringraziato commosso. Ieri si era concesso il lusso di fare una capatina a qualche commemorazione per via D’Amelio.

Ora potete leggere quelle intercettazioni ambientali del Ros che recentemente culminarono nell’arresto di politici esemplari per il loro spirito di servizio, come il giovane Domenico Miceli, o medici dalla professione adamantina, come tal Salvatore Aragona, o come il «dominus» dell’intero affaire, l’ormai proverbiale Giuseppe Guttadauro (che per la verità in galera già ci stava) con casa, studio e bottega in quel di Brancaccio.
E esistono persino i filmati del Faraone dal viso da bambino che incontra questi satrapi che, però, a voler essere un tantino lombrosiani, tutto hanno tranne cha il viso da bambini.

È la mafia che si fa politica. È la mafia che fa politica. È, in una parola, la politica mafiosa. Sono gli appalti inquinati. Sono i finanziamenti pubblici divorati da bande portatrici di interessi privatissimi. Sono gli «uomini giusti» nei «posti giusti», per commettere il massimo possibile delle illegalità e delle ingiustizie. È appunto la piramide, nell’éra della Casa delle libertà. E l’improntitudine viene anche dal fatto che in Sicilia, in termini di rappresentanza parlamentare, non esiste più un’opposizione.
L’immediato dopoguerra aveva prodotto l’affaire del banditismo, quella figura ambigua, delinquenziale, e sia pur non priva di un suo alone leggendario, che rispondeva al nome di Salvatore Giuliano. Anche lì c’era l’intreccio torbido fra affari e politica, affari e nobiltà, affari e mafia e istituzioni. Ma eravamo ancora al «bianco e nero», ai patti scellerati ammantati di valori autonomistici o separatisti che fossero. Ci volle il film di Rosi perché quell’intreccio entrasse prepotentemente nelle case di tutti gli italiani... perché si sapesse che nel cortile di Castelvetrano, dove fu posizionato il corpo del bandito ucciso, non era avvenuto alcun conflitto a fuoco...
Ora si ricomincia, ammesso che sia mai finita.

(Aggiornato il 20 Luglio 2003 ore 10:00)

Da L' Unità

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Ultimo aggiornamento: 25-07-03.

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