Quale strategia per i pazienti a rischio?

La complessità delle linee-guida, delle terapie e dei quadri clinici dei pazienti a rischio cardiovascolare obbligano a scelte guidate solo da evidenze solidissime

I dibattiti sulla applicabilità della evidence-based medicine accompagnati dallo scetticismo dei fautori dell’indirizzo clinico sempre guidato
dalla solidità dell’esperienza personale rispetto alle perplessità degli studi eseguiti su popolazioni selezionate di pazienti, si perdono nel nulla quando si parla di pravastatina. Le evidenze dei numeri e dei dati derivanti dagli studi WOSCOPS, CARE e LIPID sono state più volte confermate da innumerevoli altri trials minori e irrobustite dall’esperienza ambulatoriale di tutti i medici a livello mondiale. Ancora una pubblicazione, avvenuta recentissimamente sullo European Heart Journal, pone l’attenzione su questo principio attivo dalla vitalità eccezionale. Si tratta del Prospective Pravastatin Pooling Project che ha svolto un grande lavoro assemblando i dati dei tre maggiori studi di prevenzione primaria e secondaria eseguiti con l’impiego di pravastatina. Sono 19.768 i pazienti che, grazie alla sovrapponibilità dei protocolli degli studi WOSCOP, CARE e LIPID, in termini di trattamento, dosaggio, durata ed end-point, sono stati raccolti in uno straordinario data-base che ha reso possibile, grazie alla forza dei numeri, considerazioni importanti riguardanti gli effetti di pravastatina in diverse popolazioni di pazienti. La riduzione del colesterolo non sembra essere il risultato più importante raggiunto dalla terapia ipolipemizzante soprattutto quando messo in relazione allo straordinario effetto sulla mortalità cardiocerebro vascolare. La riduzione del 27% dei livelli di colesterolemia LDL e l’innalzamento del 5% delle HDL-c, pur rappresentando un ottimo risultato in termini di correzione dei parametri lipidici, sembrano ben poca cosa quando confrontati ai risultati sulla mortalità e morbilità cardio-cerebro vascolare. Analizzando, infatti, i benefici clinici in funzione del colesterolo LDL, si può notare come la riduzione di eventi quali infarto non fatale e morte cardiovascolare sono stati ridotti da pravastatina 40 mg/die, nei pazienti con LDL-c compreso tra 70-134 mg/dl, del 22% con significatività pari a p<0,005 rispetto a placebo. Anche nei pazienti con colesterolo più elevato, compreso tra 135 e 174 o tra 175 e 232 mg/dl si è ottenuta una notevole riduzione di eventi pari rispettivamente al 23% ed al 32% con significatività elevata (p<0,001)verso placebo ma non tra gruppi aventi colesterolemia diversa (figura 1).



Figura 1. Effetto di Pravastatina sugli eventi CV in funzione dei livelli di LDL-c.

Non è un mistero per nessuno che le statine siano proiettate verso scenari di ricerca futuri improntati all’allargamento delle indicazioni non più rivolte alla colesterolemia, bensì alla prevenzione e protezione dalle malattie cardiovascolari. Ma allora, perché rimangono livelli di colesterolo plasmatici il marker di riferimento per iniziare un trattamento anche di fronte ad una documentata aterosclerosi con bassi livelli di LDL-c? Il contrasto, che emerge in maniera sempre maggiore, è tra l’approccio endocrinologico, basato sugli studi epidemiologici ed osservazionali, che si pone l’obiettivo di raggiungere i livelli “normali” di colesterolemia e l’approccio basato sull’evidenza del danno d’organo che parte dalla evidence-based medicine e considera il beneficio delle statine un beneficio che supera il concetto della riduzione del colesterolo e si rivolge direttamente all’aterosclerosi. Anche lo studio HPS, pubblicato di recente su Lancet, ha evidenziato i vantaggi della terapia con statine in pazienti con colesterolemia normale. Tra i pazienti arruolati nello studio con diabete, evidenza di danno coronarico o aterosclerosi vascolare si è ottenuta una riduzione degli eventi cardiovascolari significativa anche nei soggetti con LDL-c sotto a 100 mg/dl (figura 2).


Figura 2. Heart Protection Study: effetto della Statina nei pazienti affetti
da aterosclerosi documentata.

La differenza tra i due approcci dovrebbe essere completamente superata all’adozione degli algoritmi per il calcolo del rischio cardiovascolare, attraverso i quali il paziente viene valutato assemblando tutti i fattori di rischio ai dati riguardanti sesso, età, familiarità e stile di vita. Tuttavia, proprio l’impostazione del calcolo del rischio è alla ribalta della cronaca scientifica (cfr art. La via europea al calcolo del rischio cardiovascolare) in quanto il peso che viene dato nel calcolo a condizioni quali l’aterosclerosi, in pazienti senza pregressi eventi, non sempre viene valutato correttamente. In attesa che i software affinino le loro potenzialità, lo studio americano CHAMP Cardiovascular Hospitalization Atherosclerosis Management Program), svolto dalla UCLA University, ha valutato l’approccio misto, basato sulla correzione dei fattori di rischio quali pressione arteriosa e colesterolemia, secondo le più recenti linee guida NCEP-ATP III (National Cholesterol Education Program – Adult Treatment Pannel III) e sull’adozione di terapie anti-aterosclerosi nei pazienti con evidenza documentata di danno d’organo, indipendentemente dai fattori di rischio. Tutti i pazienti con aterosclerosi, documentata attraverso i diversi strumenti diagnostici disponibili, venivano avviati ad un programma terapeutico comprendente antiaggregante piastrinico, ACE-inibitore, beta-bloccante, statine, dieta alimentare ed esercizio fisico. In più, la strategia diagnostico-terapeutica, iniziata in ospedale, veniva proseguita a casa attraverso un forte collegamento tra medici
ospedalieri e medici di famiglia e mediante un programma di educazione preventiva comprendente materiali di informazione per il paziente e visite periodiche di controllo. Lo studio CHAMP ha dato risultati molto importanti dal punto di vista dell’approccio di medico e paziente alla strategia preventiva. L’utilizzo dei farmaci, ad un anno di distanza dalla dimissione, si è modificato a favore di un più largo impiego combinato di statine, ACE-inibitori e betabloccanti. È incrementato anche l’utilizzo di aspirina (figura 3).


Figura 3. Variazioni nell’impiego dei farmaci ad 1 anno dall’introduzione
del programma CHAMP.

 

Figura 4. Incidenza di mortalità e reinfarto dopo 1 anno di applicazione del programma CHAMP.

 

Quasi il 60% dei pazienti aveva raggiunto livelli di LDL-c <100 mg/dl ed un altro 20% circa aveva ottenuto importanti riduzioni della colesterolemia basale. Il dato più eclatante, però, riguarda la mortalità e il reinfarto, passati dal 14,8% pre-studio al 6,4% dopo l’applicazione del protocollo preventivo (figura 4). I dati di questo studio sono stati pubblicati sull’American Journal of Cardiology alla fine del 2001 e rappresentano un monito concreto a riconsiderare in modo molto semplice l’approccio preventivo e protettivo al paziente a rischio. Le linee guida sono spesso troppo lunghe e ricche di dettagli poco significativi per chi esercita quotidianamente la professione medica negli ambulatori e negli ospedali. Un noto opinion leader americano, commentando le nuove linee guida NCEP-ATP III ha detto: “372 pagine e 260.000 parole sono troppe per poter pretendere che siano lette e seguite”. Auguriamoci che in futuro il paziente ed il medico siano dotati di strumenti facili e semplici da attuare che consentano di ridurre il rischio di andare incontro ad eventi
cardiovascolari.

 


Andrea Colella