Tanto più caratterizza l’Io
narrante psichiatrico un preteso ed illusorio atteggiamento non
dogmatico di fronte alla follia[22],
tanto più il tratto dominate delle fonti giudiziarie ed amministrative
può essere rintracciato nell’eterogeneità delle scritture e delle
argomentazioni sottoscritte.
Certo, si tratta di una eterogeneità
parziale, emancipata finché si muove entro uno spazio teorico comunque
tracciato dalle invalicabili coordinate della scuola giuridica e medica
positivista. Tra i casi possibili, unificando temi cari al lombrosismo
come il suicidio, la fuga ed il vagabondaggio, la tara atavica, la
simulazione della pazzia e la non imputabilità dei degenerati, il
riepilogo letto dall’Avvocato militare al Tribunale di Guerra di
Cremona, chiamato a giudicare il 13 agosto 1917 il caso di M. E., è in
questo senso una testimonianza valida. «Letti gli atti del processo»
ammoniva l’avvocatura militare, e
«Ritenuto che l’imputato lasciando la
caserma del Deposito del 72° Fanteria a Mantova fuggiva a casa sua a
Curtarolo e che, ricondotto dal padre, si rendeva poi al suo Corpo (…)
[che] M. era sempre stato uno squilibrato, che il fratello della madre,
tale A. Giuseppe si era suicidato gettandosi dalla finestra e che un
altro fratello A. Francesco si era gettato nel fiume Brenta a scopo
suicida, e che, salvato, si era poi ucciso con un colpo di rivoltella a
Piacenza (…) [che] Tradotto nelle carceri militari ed interrogato
dall’Ufficiale Istruttore non fu possibile ottenere da lui nessuna
risposta, essendosi ripetutamente abbandonato a crisi di pianto [che]
Avendo dato segni di alienazione mentale questo ufficio stimò opportuno
ordinarne il ricovero al manicomio di Cremona, ove trovasi tuttora
degente e sottoporlo ad osservazione psichiatrica, delegando per la
perizia il Prof. Rebizzi (…). Il responso del perito, riassunto in una
accuratissima relazione (…) conclude la sua diagnosi affermando che
l’imputato è affetto da frenosi depressiva. Esso esclude completamente
la simulazione perché nel lungo periodo di osservazione (dal 9 luglio al
6 agosto 1917) ogni espediente suggerito dalla tecnica psichiatrica ed
ogni esperimento hanno confermato la giustezza del diagnostico. (…)
Venendo al giudizio prognostico, il perito osserva che il M. è affetto
da malattia mentale acuta, guaribile, che generalmente dura fino a circa
otto mesi, ma che, essendo egli, un soggetto frenastenico, la malattia
stessa è destinata a non breve a rinnovarsi (…)P[er] Q[uesti] M[otivi] e
Visti gli art.56, 544, C.P. Es. e 26 Regolamento sulla Giustizia
Militare in Zona di Guerra» l’avvocato militare «Chiede al Comando del
Presidio di dichiarare non doversi dare ulteriore corso all’esercizio
dell’azione penale nei riguardi di M. E.».
L’eterogeneità sub conditione
della documentazione, del resto, è comprensibile anche e soprattutto
considerando materialmente il tipo di carte che la compongono. Il
secondo versante del bagaglio archivistico presentato al lettore si
modella, infatti, assemblando insieme:
I – comunicazioni e lettere
dalle galere militari e civili di mezza Italia (Milano, Cremona,
Agrigento, ecc.), a riprova di una intercambiabilità funzionale di
carcere e manicomio non solo frutto della fantasia ideologizzata di
alcuni storici. D’altro canto, non è eloquente che anche nelle parole di
Renato Rebizzi, alieno per convinzione dall’ortodossia lombrosiana e
orgoglioso allievo della scuola fiorentina, carcere e manicomio possano
assumere valenza di sinonimo mentre stila diagnosi dove sono scorte nei
pazienti «tutte le stigme fisiche e psichiche del soggetto criminale»?[23]
II – Missive dei sindaci dei comuni di
Gadesco, Genivolta, Calcinato, Motta Baluffi, ecc.;
III – ordinanze, mandati a comparire,
atti dibattimentali e sentenze della macchina giudiziari civile ed in
grigioverde: Tribunale Civile e Penale di Cremona, R. Prefettura del
mandamento di Imola; Tribunale Militare Territoriale di Milano,
tribunali di guerra di Cremona, Piacenza, Padule (Salerno) e Lonigo
(Vicenza); Avvocatura generale militare presso il Comando Supremo del
Regio Esercito;
IV - richieste alla direzione
manicomiale di delucidazioni dalla Questura di Milano e dalle stazioni
dei Carabinieri di Pontevico, Cremona (nel 1960) e Brescia, quando, con
un’informativa spedita nell’aprile 1973, cioè a più di mezzo secolo
dalla conclusione del conflitto, dalle sabbie mobili di una memoria
simile, in tutto, e per tutto ad un marchio d’infamia, il plateale
riflesso di un giudizio psichiatrico scientificamente dubbio sui
discendenti del ricoverato, rischierà ancora di far mostra della propria
forza negativa[24];
V – infine, lettere di parroci e dei
commissari della beneficenza civile, segnalazioni da parte di deputatial
Parlamento ed imprenditori, la voce stessa, storpiata dallo idioma
burocratico, di un ex ricoverato che nel 1962 richiederà al direttore
dell’O.P. cremonese la compilazione di un certificato comprovante la
propria degenza nel 1916-17 da utilizzare a fini pensionistici, nonché
la cronaca giornalistica di un processo a carico di un militare
internato dalla conclusione drammatica non meno che efficace nell’aprire
uno squarcio sulla quotidianità della follia nell’Italia in
guerra. Sotto la dicitura: “Una scena pietosa”, ragguagliava venerdì 09
agosto 1918 il giornalista del periodico locale “La Provincia” alla
discoperta à rebours dell’evidenza patologica nello squilibrato a
giudizio:
«il B. vedendo nel pubblico la propria moglie che
piangeva a dirotto fu preso da un violento accesso e si gettava con
tutta forza contro le sbarre della gabbia ove era rinchiuso,
producendosi ferita al capo. Per il pronto intervento della forza
pubblica che allontanava la moglie che nel frattempo era presa da
violenta convulsione, e di un medico che curò il ferito, si esaurì
l’incidente che comprovò maggiormente essere il B. un ammalato di mente»[25].
La fugace apparizione della moglie,
giunta a Cremona da Milano per essere al fianco del marito nel difficile
momento, non deve sorprendere. Come rivela l’ultimo dei baluardi
archivistici che possiamo trarre dall’archivio della follia, nonostante
le limitazioni e la cappa di sospetti e timori vigenti nel Paese in
guerra, e la fatica nonché ed il prezzo degli spostamenti, proprio il
legame familiare ed il ricordo di casa – con i suoi valori non simbolici
di protezione e sicurezza – fornirono ai ricoverati un fragile e nello
stesso tempo indispensabile scudo da opporre all’impersonale violenza
dell’agire psichiatrico e dei meccanismi giudiziari. |