Home page 

Biblioteca on-line

Chronology

 

 LEGGERE LA FOLLIA IN GUERRA

1915 – 1918


di Andrea Scartabellati
 

 

 

 

 

            

INDICE

 

2.3 – Testimonianze personali.

 

«… la grande guerra che giustamente, a mio parere, viene chiamata ‘guerra mondiale’, e non già perché l’ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo».

 

Joseph Roth, La Cripta dei Cappuccini.

 

Se le fonti medico-psichiatriche e giuridico-amministrative possono attirare, irritare od affascinare chi legge per le realtà controverse che descrivono, le testimonianze personali esigono attenzione per l’inconsueta vitalità con la quale ci ritrasmettono oggi, vinta la forza operosa della notte dell’oblio e lo sfregio classista, atteggiamenti ed emozioni come la paura, la solitudine, l’angoscia della morte, il senso dell’abbandono e di vulnerabilità, la resistenza contro la segregazione e la recriminazione per un destino beffardo, scaturito da una guerra da troppi non condivisa e calata come una pesante spada di Damocle sulla biografia dei militari medicalizzati a Cremona.

Certo, la qualifica di testimonianza personale non dota la documentazione in esame di una soggettività di scrittura sempre visibile o degna di considerazione a priori. Ciò si mostra bene nelle lettere inviate al direttore del manicomio dalle madri e dalle mogli dei degenti, con il ricorso tacitamente condiviso ad un canone di scrittura impaziente di far leva sia sul discorso religioso sia sulle qualità umane dello stesso medico responsabile: mentre la moglie del fante M. G. s’avventura a «domandarle una carità per amore della madre sua»[26], «sarà anche padre di famiglia»! esclama la sposa di F. A. da Catania[27],

Non di meno, il lavoro dello storico, se non vuole porsi oltre il crinale del cinismo, ha molto da apprendere al cospetto di una tale documentazione.

Senza scivolare in equivoci sentimentalismi, nessuna pretesa oggettività metodologica può restare indifferente a storie come quella di E. S., soldato del 136° Fanteria originario di Pattada (Sassari), vedovo, padre di una bambina – motivo di incessante dolore e nostalgia – più volte ferito in combattimento eppure rimandato in zona di guerra dopo il ricovero manicomiale e disperso durante la rotta di Caporetto[28]; oppure, di F. G., soldato del I° Genio da Casalmaggiore, morto in manicomio a soli 34 anni dopo 26 mesi di reclusione poiché

 

«Per l’inquietudine e per il tono melanconico della sua affettività, rifiutava per lunghi periodi il vitto, sicché è stato necessario sottoporlo, talvolta anche per più mesi di seguito, all’alimentazione forzata per mezzo della sonda gastrica, sostenendo con lui delle lotte notevoli. La costante agitazione e il rifiuto del vitto pressoché costante, ridussero man mano il soggetto a tale deperimento che morì per marasma»[29];

 

e ancora: «Io ti penso notte e giorni e non mi posso dare pace» protesta il soldato del 65° Reggimento di Fanteria, F.D., da Nola, con una lettera mai recapitata;

 

«perché io voglio la tua fotografia perché io non so se vengo più a Nola perché io ho brutti pensieri a Cremona (…) però ti prego non abbandonarmi e di volermi sempre bene, perché io ti ama e ti stima, e perdonami di questo perché tu già lo sai che non sono io sono le cervello e così facevo pure quando ero a casa, però ti prego di non abbandonarmi che tutto passa e non ritorno. (…) Tanti saluti alla mia madre e a te ricevi tanti milione di baci e sotto mi firmo e sono il tuo per sempre A….. A….. A….. Aamore A…..»[30].

 

Mostrina

del

65° Reggimento di Fanteria

 

 

 

Semplificando, le testimonianze personali sono carte intrise di quel lessico familiare, proprio a soldati colti al limite zero dei bisogni e dei disagi, spose afflitte, madri tormentate e padri in ansia, il quale, nella sua densa ma non inconsueta laconicità - a fronte di tanta e troppa retorica bellica – costringe senza remore a prendere una volta di più nota della follia della guerra e della fragilità di parole come onore e gloria. E non da ultimo, della tremenda sofferenza patita senza alcun risarcimento da migliaia di uomini e donne catapultati disarmati, culturalmente e fisicamente, nel vortice delle leggi della violenza – si valuti il numero dei soldati giudicati già alla visita medica per l’incorporazione denutriti.

A raggiera, ampliando la prospettiva analitica, è qualità aggiunta di queste carte illuminare, al di fuori di culturalismi stantii tanto ambiziosi quanto astratti, la triplice microfrattura intervenuta nel vissuto dell’ammalato, dalla dipartita per la caserma ed il fronte, giacché «ogni sistema militare si basa sull’obbedienza assoluta e sulla resa incondizionata dei suoi sottomessi»[31], all’approdo in manicomio, nonché svelare la vitalità di una psichiatria popolare e profana affabulata dall’icona dell’ereditarietà. Madri, padri, mogli, i folli stessi attraverso brevi incisi, ma anche sindaci e poliziotti, nessuno insomma, nell’Italia che va alla guerra – in sintonia ma ampliando un giudizio già di Renzo Villa[32] – manca di maneggiare almeno le briciole del discorso sulle degenerazioni per via ereditaria, vero e proprio passe-partout interpretativo non di rado rafforzato con striscianti valutazioni moralistiche della biografia del ricoverato e da un’accezione della malattia che si ricollega alla nozione di colpa individuale.

Non sempre, certo, il discorso popolare sull’ereditarietà malata è sufficiente a sbrogliare i dubbi. Scrive perentoriamente il padre del soldato di sanità R. G. al direttore del manicomio: «G. è nato a Massa il 27 febbraio 1888. Io non so come sia a cadere in quella malattia, non avviene né dal padre né dalla madre»[33]. Eppure, assai più frequenti sono le tracce di una psichiatria profana semplice non meno che sicura del valore dei propri assunti, efficaci, non da ultimo, nel clima di disciplinamento molecolare imposto dal conflitto, nell’attenuare il fardello dello stigma tradizionalmente associato ai folli attraverso la messa in valore dell’intangibilità ed obiettività dei destini biologici.

Sono le parole del paziente, D. A., fante da Casoria (Napoli), a permettere al compilatore della cartella clinica di registrare alla voce “Raccolta in manicomio”:

 

«la madre è morta d’etisia. Da bambino l’A.[mmalato] ebbe la tigna gravosa che gli impedì di frequentare la scuola e gli lasciò cicatrici evidenti (…) per cui alla leva venne riformato. (…) A quattro, cinque anni ebbe un trauma grave al capo. Dopo riformato andò a New York ove restò 3 – 4 anni!, facendo il muratore (aveva poi preso moglie che lasciò gravida, poi abortì) indi tornò in Italia per restare 3 anni ed ebbe un figlio con altra donna, poi tornò di nuovo a New York dove rimase 2 anni per far ritorno in Italia quando scoppiò la guerra. Ha due fratelli uno certamente sotto le armi, l’altro non sa. La madre aveva altre sorelle che morirono d’etisia, il nonno materno fu al Manicomio e morì per una caduta. Il padre dell’A. è un ubriacone, fa il muratore al paese; una volta faceva il cantoniere ferroviario ma perdette il posto per il vizio di bere»[34].

 

E’la sorella del fante del 26° Reggimento, B. A., ad informare il medico direttore che il degente

 

«Appartiene a famiglia di alcolisti, di epilettici fino alla 7ª generazione. Il nonno paterno alcolista e tabagista malato visse paralitico per 8 anni. Il padre alcolista, di professione tintore, separato dalla moglie, si avvelenò con l’acido solforico. (…) Un fratello del padre maresciallo dei carabinieri un anno prima d’andare in pensione si suicidò con un colpo di rivoltella all’orecchio (…) L’A. fin da bambino soffrì d’epilessia, di crisi di carattere cattivo perverso. Cambiava padroni di bottega ogni momento ma era [illeg.] perché ozioso, sfacciato, anche ladro. Colla moglie era geloso cattivo, la batteva, sempre prepotente per futilità. Soldato fu dichiarato disertore, processato e condannato per 4 anni di fortezza a Finestrelle. Graziato per soppressione di pena si rese nuovamente disertore e di nuovo sotto processo” – e conferma il sindaco di Soresina: B. A. “appartiene a famiglia di anormali e alcolizzati qui notoriamente conosciuti»[35].

 

E’ la madre ad avvertire gli psichiatri che il fante F. G., da Genova,

 

«l’anno scorso il 28 Settembre ebbe un forte accesso nevrastenico e fu trasportato nella Clinica di Buccelli [?], ove vi stesse otto giorni, uscendo poi ne risenti sempre, attualmente trovasi alla Clinica di Buccelli un suo zio fratello di suo Padre, perciò sono a farle noto con mio dispiacere che viene proprio da famiglia»[36].

 

Sono ancora parole di una madre, quelle di B. A., fante da San Daniele, a riferire che lo stesso

 

«Appartiene a famiglia d’esaltati e d’ammalati [illeg.]. Il padre, uno zio, il nonno paterno erano alcolizzati, il padre dopo circa 30 anni di [illeg.] rimase paralizzato. Una cugina paterna (B. E.) era epilettica, dopo 4 anni di degenza in questo manicomio vi morì nel febbraio 1906 (…). Da 19 mesi soldato alla sussistenza con condotta regolare tanto da essere mandato in licenza premio. A casa tornò alla compagnia dei soliti mestieranti, ebbe una rissa in un caffè (…)»[37].

 

«Signor Tenente, sono molto dispiaciuto di quanto è successo – si rammarica abbozzando i passi incerti di una timida difesa il 17 agosto 1916 il fante R. A. da Voghera, dopo esser stato rinchiuso in cella per aver dato in escandescenze contro i commilitoni –

ma creda non è colpa mia, sono malato, e spesso, fin dalla nascita vado soggetto, anche per un nonnulla  a questi accessi di furore. Mi assale un forte dolore di testa, mi si oscura la vista tanto da non vederci più; mi sento smarrire la ragione e in quei momenti divento bestiale, avessi davanti anche mio padre, se nessuno mi trattenesse lo ucciderei. Per questo non ho mai potuto essere impiegato, ho dovuto sempre aggiustarmi da solo, non potendo assolutamente tollerare la sottomissione. Tengo al Manicomio un fratello e una sorella Signor Tenente; non è che non voglia fare il soldato, soltanto che prima voglio essere curato, o meglio che continuino a darmi la medicina che mi faceva prendere il farmacista Arcangeli prima di venire sotto alle armi, la quale sentivo che mi faceva molto bene e che ora, soldato, non ho più la possibilità di comperare»[38].

 

Abbiamo detto dei valori non simbolici di protezione e sicurezza associati alla casa da parte di familiari e degenti. Ma in questa psichiatria profana la casa possiede un ulteriore attributo. Una sicura operatività terapeutica che, se da un lato, consente alle famiglie di legittimare le pressoché continue richieste rivolte alla direzione manicomiale affinché s’affretti a dimettere e trasferire gli ammalati alle proprie abitazioni, dall’altro, su un piano più elevato, coincide cronologicamente col maturare anche in ambito psichiatrico italiano delle più solide sperimentazioni a favore dell’assistenza domiciliare.

 «Signor Direttore – scrive la moglie del fante M. G. da Lucca - mi faccia la carità di mandarlo quanto prima. Sono sicura che l’aria nativa potrà recarle vantaggio»[39]. E sempre dalla provincia di Lucca fa eco la madre di D. G., milite della 62a Compagnia presidiaria:

 

«Preg.mo Signor Direttore (…), la prego perdonarmi se torno a scrivere, perché sa pure [?] l’affetto d’una madre non ha limiti. Da quando mio figlio G. D. fu ricoverato in cotesto manicomio, non ha mai scritto un rigo alla famiglia. Questo silenzio mi fa ritenere che le sue condizioni di salute non siano punto migliorate, e perciò vengo a pregarla di volermi usare la cortesia di darmene un sunto. Di più debbo significarle che noi siamo povera gente, ma se lei riconosce che mio figlio non sia in grado di prestare un utile servizio, sarei a pregarla di proporre la riforma con quell’assegno che può meritare, ed io sono contenta di tenerlo presso di me anche curarlo coi mezzi domestici di cui si può disporre. Del resto quale utile servizio può prestare un uomo affetto dalla sua infermità? Che fu riconosciuto inabile al servizio militare fino dalla prima visita della sua leva al distretto? Che è stato sempre gracile ed impressionabile per ogni minima cosa? In ogni modo mi rimetto, alla coscenza dei superiori e per tanto a pregarla d’un riscontro, per poter passare le Feste Pasquali un poco più contenti»[40].

 

Come anticipa l’ultimo scorcio della citazione, spesso la ritrovata unità di individuo e ambiente potrà avere effetti benefici anche sul resto della famiglia. Ma nella prosa confusa del padre di C. E., artigliere da Torre del Greco, si va oltre, poiché non si tratta solo d’essere tutti «un poco più contenti», anche se bisogna ammettere che nell’Italia dell’epoca già questo poteva per alcuni sembrare un miraggio. Il ritorno a casa del malato assume, in questo caso, un vero e proprio ruolo salvifico in senso economico e morale:

 

«Un suo figlio soldato a nome C. E. ricoverato in codesto Ospedale, affetto da malore, ho diverse volte scritto e Telegrafato a V. S. circa la sua malattia, e Lui diverse volte si è degnato rispondermi. Ora da molto tempo che non ho più notizia e l’animo mio trovasi in istato di sconforto non sapendo la sorte del suo amato figlio quale sarà. Signore l’esponente Vidira di [illeg.] che con mi figlio giovane sulle spalle, altro figlio anche grande dalla età di anni 27 anni cieco da molti anni senza mezzi come, tirare avanti la misera vita il povero figlio E. era l’unico sostegno di questa infelice madre, con i suoi affanni [?] e sudori portava avanti la sconsolata famiglia, ed è perciò che caldamente prego la S. V. Illma perché voglia essere tanto buona e generosa di darmi precisa notizia sulla salute dell’amalato figlio e fare in modo che dopo rigorosa visita mandarlo definitivamente in famiglia o pure qualche lunga licenza, stando sotto la sorveglianza della affettuosa madre con qualche cura, potere guarirsi dalla malattia di cui è affetto»[41].

 

Ciononostante, se il rientro in famiglia dopo il ricovero manicomiale potrà essere rivendicato come un mezzo per por fine alle sofferenze dei militari impazziti, è un’amara ironia della vita riconoscere come proprio il ritorno a casa in licenza, il ritrovare lontano dalla guerra e dalle sue carneficine i volti ed i luoghi del proprio essere nel mondo sarà l’occasione che, nella maggioranza dei casi e con la fisicità del non luogo delle stazioni ferroviarie, incornicerà l’esplosione dell’accesso patologico. Al riguardo, gli esempi si sprecherebbero[42]. Ricorderemo il caso del caporale del 6° Reggimento alpini G. G., da Santorso (Vicenza). Dimesso dal manicomio di Cremona e tornato alla propria abitazione, egli – scriverà la moglie a Renato Rebizzi - «ora è quasi ristabilito, e non da più segno della minima alienazione. Come si vede fu più che altro la passione di casa e le disgrazie che colà in poco tempo accaddero»[43].

 

 

 

 

 

NOTE:

 

[

[26] Cartella clinica n. 17.

[27] Cartella clinica n.49, comunicazione del 23 luglio 1917.

[28] Cartella clinica n.5.

[29] Cartella clinica n.118, comunicazione del 07 giugno 1920.

[30] Cartella clinica, n. 6, lettera del 10 ottobre 1915.

[31] R. Rocker, Sindrome da filo spinato. Rapporto di un tedesco internato a Londra (1914-1918), a cura di P. Di Paola, Santa Maria Capua Vetere 2006, p. 39. 

[32] R. Villa, Scienza medica e criminalità nell’Italia unita, in Storia d’Italia, Annali, Malattia e medicina, vol.7, Torino 1984, p. 1168.

[33] Cartella clinica n. 19, lettera del 12 settembre 1916.

[34] Cartella clinica n. 40.

[35] Cartella clinica n. 29.

[36] Cartella clinica n. 117, comunicazione del 14 agosto 1918.

[37] Cartella clinica n. 24.

[38] Cartella clinica n. 74.

[39] Cartella clinica n. 17.

[40] Cartella clinica n. 111.

[41] Cartella clinica n. 108.

[42] Cfr. in prima battuta le cartelle cliniche n. 79 e 108.

[43] Cartella clinica n. 56, lettera del 12 luglio 1917.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

    

 

 

 
                 Rivista Frenis Zero  
 
                  Maitres à dispenser