«… la grande guerra che giustamente, a
mio parere, viene chiamata ‘guerra mondiale’, e non già perché l’ha
fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo
perduto un mondo, il nostro mondo».
Joseph Roth, La Cripta dei
Cappuccini.
Se le fonti medico-psichiatriche e
giuridico-amministrative possono attirare, irritare od affascinare chi
legge per le realtà controverse che descrivono, le testimonianze
personali esigono attenzione per l’inconsueta vitalità con la quale ci
ritrasmettono oggi, vinta la forza operosa della notte dell’oblio e lo
sfregio classista, atteggiamenti ed emozioni come la paura, la
solitudine, l’angoscia della morte, il senso dell’abbandono e di
vulnerabilità, la resistenza contro la segregazione e la recriminazione
per un destino beffardo, scaturito da una guerra da troppi non condivisa
e calata come una pesante spada di Damocle sulla biografia dei militari
medicalizzati a Cremona.
Certo, la qualifica di
testimonianza personale non dota la documentazione in esame di una
soggettività di scrittura sempre visibile o degna di considerazione a
priori. Ciò si mostra bene nelle lettere inviate al direttore del
manicomio dalle madri e dalle mogli dei degenti, con il ricorso
tacitamente condiviso ad un canone di scrittura impaziente di far leva
sia sul discorso religioso sia sulle qualità umane dello stesso medico
responsabile: mentre la moglie del fante M. G. s’avventura a «domandarle
una carità per amore della madre sua»[26],
«sarà anche padre di famiglia»! esclama la sposa di F. A. da Catania[27],
Non di meno, il lavoro dello storico, se
non vuole porsi oltre il crinale del cinismo, ha molto da apprendere al
cospetto di una tale documentazione.
Senza scivolare in equivoci
sentimentalismi, nessuna pretesa oggettività metodologica può restare
indifferente a storie come quella di E. S., soldato del 136° Fanteria
originario di Pattada (Sassari), vedovo, padre di una bambina – motivo
di incessante dolore e nostalgia – più volte ferito in combattimento
eppure rimandato in zona di guerra dopo il ricovero manicomiale e
disperso durante la rotta di Caporetto[28];
oppure, di F. G., soldato del I° Genio da Casalmaggiore, morto in
manicomio a soli 34 anni dopo 26 mesi di reclusione poiché
«Per l’inquietudine e per il tono melanconico
della sua affettività, rifiutava per lunghi periodi il vitto, sicché è
stato necessario sottoporlo, talvolta anche per più mesi di seguito,
all’alimentazione forzata per mezzo della sonda gastrica, sostenendo con
lui delle lotte notevoli. La costante agitazione e il rifiuto del vitto
pressoché costante, ridussero man mano il soggetto a tale deperimento
che morì per marasma»[29];
e ancora: «Io ti penso notte e giorni e
non mi posso dare pace» protesta il soldato del 65° Reggimento di
Fanteria, F.D., da Nola, con una lettera mai recapitata;
«perché io voglio la tua fotografia perché io non
so se vengo più a Nola perché io ho brutti pensieri a Cremona (…) però
ti prego non abbandonarmi e di volermi sempre bene, perché io ti ama e
ti stima, e perdonami di questo perché tu già lo sai che non sono io
sono le cervello e così facevo pure quando ero a casa, però ti prego di
non abbandonarmi che tutto passa e non ritorno. (…) Tanti saluti alla
mia madre e a te ricevi tanti milione di baci e sotto mi firmo e sono il
tuo per sempre A….. A….. A….. Aamore A…..»[30].
Mostrina
del
65° Reggimento di
Fanteria
|
Semplificando, le testimonianze personali
sono carte intrise di quel lessico familiare, proprio a soldati colti al
limite zero dei bisogni e dei disagi, spose afflitte, madri tormentate e
padri in ansia, il quale, nella sua densa ma non inconsueta laconicità -
a fronte di tanta e troppa retorica bellica – costringe senza remore a
prendere una volta di più nota della follia della guerra e della
fragilità di parole come onore e gloria. E non da ultimo, della tremenda
sofferenza patita senza alcun risarcimento da migliaia di uomini e donne
catapultati disarmati, culturalmente e fisicamente, nel vortice delle
leggi della violenza – si valuti il numero dei soldati giudicati già
alla visita medica per l’incorporazione denutriti.
A raggiera, ampliando la
prospettiva analitica, è qualità aggiunta di queste carte illuminare, al
di fuori di culturalismi stantii tanto ambiziosi quanto astratti, la
triplice microfrattura intervenuta nel vissuto dell’ammalato, dalla
dipartita per la caserma ed il fronte, giacché «ogni sistema militare si
basa sull’obbedienza assoluta e sulla resa incondizionata dei suoi
sottomessi»[31],
all’approdo in manicomio, nonché svelare la vitalità di una psichiatria
popolare e profana affabulata dall’icona dell’ereditarietà. Madri,
padri, mogli, i folli stessi attraverso brevi incisi, ma anche sindaci e
poliziotti, nessuno insomma, nell’Italia che va alla guerra – in
sintonia ma ampliando un giudizio già di Renzo Villa[32]
– manca di maneggiare almeno le briciole del discorso sulle
degenerazioni per via ereditaria, vero e proprio passe-partout
interpretativo non di rado rafforzato con striscianti valutazioni
moralistiche della biografia del ricoverato e da un’accezione della
malattia che si ricollega alla nozione di colpa individuale.
Non sempre, certo, il discorso
popolare sull’ereditarietà malata è sufficiente a sbrogliare i dubbi.
Scrive perentoriamente il padre del soldato di sanità R. G. al direttore
del manicomio: «G. è nato a Massa il 27 febbraio 1888. Io non so come
sia a cadere in quella malattia, non avviene né dal padre né dalla
madre»[33].
Eppure, assai più frequenti sono le tracce di una psichiatria profana
semplice non meno che sicura del valore dei propri assunti, efficaci,
non da ultimo, nel clima di disciplinamento molecolare imposto dal
conflitto, nell’attenuare il fardello dello stigma tradizionalmente
associato ai folli attraverso la messa in valore dell’intangibilità ed
obiettività dei destini biologici.
Sono le parole del paziente, D. A., fante
da Casoria (Napoli), a permettere al compilatore della cartella clinica
di registrare alla voce “Raccolta in manicomio”:
«la madre è morta d’etisia. Da bambino l’A.[mmalato]
ebbe la tigna gravosa che gli impedì di frequentare la scuola e gli
lasciò cicatrici evidenti (…) per cui alla leva venne riformato. (…) A
quattro, cinque anni ebbe un trauma grave al capo. Dopo riformato andò a
New York ove restò 3 – 4 anni!, facendo il muratore (aveva poi preso
moglie che lasciò gravida, poi abortì) indi tornò in Italia per restare
3 anni ed ebbe un figlio con altra donna, poi tornò di nuovo a New York
dove rimase 2 anni per far ritorno in Italia quando scoppiò la guerra.
Ha due fratelli uno certamente sotto le armi, l’altro non sa. La madre
aveva altre sorelle che morirono d’etisia, il nonno materno fu al
Manicomio e morì per una caduta. Il padre dell’A. è un ubriacone, fa il
muratore al paese; una volta faceva il cantoniere ferroviario ma
perdette il posto per il vizio di bere»[34].
E’la sorella del fante del 26°
Reggimento, B. A., ad informare il medico direttore che il degente
«Appartiene a famiglia di alcolisti, di epilettici
fino alla 7ª generazione. Il nonno paterno alcolista e tabagista malato
visse paralitico per 8 anni. Il padre alcolista, di professione tintore,
separato dalla moglie, si avvelenò con l’acido solforico. (…) Un
fratello del padre maresciallo dei carabinieri un anno prima d’andare in
pensione si suicidò con un colpo di rivoltella all’orecchio (…) L’A. fin
da bambino soffrì d’epilessia, di crisi di carattere cattivo perverso.
Cambiava padroni di bottega ogni momento ma era [illeg.] perché ozioso,
sfacciato, anche ladro. Colla moglie era geloso cattivo, la batteva,
sempre prepotente per futilità. Soldato fu dichiarato disertore,
processato e condannato per 4 anni di fortezza a Finestrelle. Graziato
per soppressione di pena si rese nuovamente disertore e di nuovo sotto
processo” – e conferma il sindaco di Soresina: B. A. “appartiene a
famiglia di anormali e alcolizzati qui notoriamente conosciuti»[35].
«l’anno scorso il 28 Settembre ebbe un forte
accesso nevrastenico e fu trasportato nella Clinica di Buccelli [?], ove
vi stesse otto giorni, uscendo poi ne risenti sempre, attualmente
trovasi alla Clinica di Buccelli un suo zio fratello di suo Padre,
perciò sono a farle noto con mio dispiacere che viene proprio da
famiglia»[36].
Sono ancora parole di una madre, quelle
di B. A., fante da San Daniele, a riferire che lo stesso
«Appartiene a famiglia d’esaltati e d’ammalati [illeg.].
Il padre, uno zio, il nonno paterno erano alcolizzati, il padre dopo
circa 30 anni di [illeg.] rimase paralizzato. Una cugina paterna (B. E.)
era epilettica, dopo 4 anni di degenza in questo manicomio vi morì nel
febbraio 1906 (…). Da 19 mesi soldato alla sussistenza con condotta
regolare tanto da essere mandato in licenza premio. A casa tornò alla
compagnia dei soliti mestieranti, ebbe una rissa in un caffè (…)»[37].
«Signor Tenente, sono molto dispiaciuto
di quanto è successo – si rammarica abbozzando i passi incerti di una
timida difesa il 17 agosto 1916 il fante R. A. da Voghera, dopo esser
stato rinchiuso in cella per aver dato in escandescenze contro i
commilitoni –
ma creda non è colpa mia, sono malato, e spesso,
fin dalla nascita vado soggetto, anche per un nonnulla a questi accessi
di furore. Mi assale un forte dolore di testa, mi si oscura la vista
tanto da non vederci più; mi sento smarrire la ragione e in quei momenti
divento bestiale, avessi davanti anche mio padre, se nessuno mi
trattenesse lo ucciderei. Per questo non ho mai potuto essere impiegato,
ho dovuto sempre aggiustarmi da solo, non potendo assolutamente
tollerare la sottomissione. Tengo al Manicomio un fratello e una sorella
Signor Tenente; non è che non voglia fare il soldato, soltanto che prima
voglio essere curato, o meglio che continuino a darmi la medicina che mi
faceva prendere il farmacista Arcangeli prima di venire sotto alle armi,
la quale sentivo che mi faceva molto bene e che ora, soldato, non ho più
la possibilità di comperare»[38].
Abbiamo detto dei valori non simbolici di
protezione e sicurezza associati alla casa da parte di familiari e
degenti. Ma in questa psichiatria profana la casa possiede un ulteriore
attributo. Una sicura operatività terapeutica che, se da un lato,
consente alle famiglie di legittimare le pressoché continue richieste
rivolte alla direzione manicomiale affinché s’affretti a dimettere e
trasferire gli ammalati alle proprie abitazioni, dall’altro, su un piano
più elevato, coincide cronologicamente col maturare anche in ambito
psichiatrico italiano delle più solide sperimentazioni a favore
dell’assistenza domiciliare.
«Signor Direttore – scrive la
moglie del fante M. G. da Lucca - mi faccia la carità di mandarlo quanto
prima. Sono sicura che l’aria nativa potrà recarle vantaggio»[39].
E sempre dalla provincia di Lucca fa eco la madre di D. G., milite della
62a Compagnia presidiaria:
«Preg.mo Signor Direttore (…), la prego perdonarmi
se torno a scrivere, perché sa pure [?] l’affetto d’una madre non ha
limiti. Da quando mio figlio G. D. fu ricoverato in cotesto manicomio,
non ha mai scritto un rigo alla famiglia. Questo silenzio mi fa ritenere
che le sue condizioni di salute non siano punto migliorate, e perciò
vengo a pregarla di volermi usare la cortesia di darmene un sunto. Di
più debbo significarle che noi siamo povera gente, ma se lei riconosce
che mio figlio non sia in grado di prestare un utile servizio, sarei a
pregarla di proporre la riforma con quell’assegno che può meritare, ed
io sono contenta di tenerlo presso di me anche curarlo coi mezzi
domestici di cui si può disporre. Del resto quale utile servizio può
prestare un uomo affetto dalla sua infermità? Che fu riconosciuto
inabile al servizio militare fino dalla prima visita della sua leva al
distretto? Che è stato sempre gracile ed impressionabile per ogni minima
cosa? In ogni modo mi rimetto, alla coscenza dei superiori e per tanto a
pregarla d’un riscontro, per poter passare le Feste Pasquali un poco più
contenti»[40].
Come anticipa l’ultimo scorcio della
citazione, spesso la ritrovata unità di individuo e ambiente potrà avere
effetti benefici anche sul resto della famiglia. Ma nella prosa confusa
del padre di C. E., artigliere da Torre del Greco, si va oltre, poiché
non si tratta solo d’essere tutti «un poco più contenti», anche se
bisogna ammettere che nell’Italia dell’epoca già questo poteva per
alcuni sembrare un miraggio. Il ritorno a casa del malato assume, in
questo caso, un vero e proprio ruolo salvifico in senso economico e
morale:
«Un suo figlio soldato a nome C. E. ricoverato in
codesto Ospedale, affetto da malore, ho diverse volte scritto e
Telegrafato a V. S. circa la sua malattia, e Lui diverse volte si è
degnato rispondermi. Ora da molto tempo che non ho più notizia e l’animo
mio trovasi in istato di sconforto non sapendo la sorte del suo amato
figlio quale sarà. Signore l’esponente Vidira di [illeg.] che con mi
figlio giovane sulle spalle, altro figlio anche grande dalla età di anni
27 anni cieco da molti anni senza mezzi come, tirare avanti la misera
vita il povero figlio E. era l’unico sostegno di questa infelice madre,
con i suoi affanni [?] e sudori portava avanti la sconsolata famiglia,
ed è perciò che caldamente prego la S. V. Illma perché voglia essere
tanto buona e generosa di darmi precisa notizia sulla salute dell’amalato
figlio e fare in modo che dopo rigorosa visita mandarlo definitivamente
in famiglia o pure qualche lunga licenza, stando sotto la sorveglianza
della affettuosa madre con qualche cura, potere guarirsi dalla malattia
di cui è affetto»[41].
Ciononostante, se il rientro in
famiglia dopo il ricovero manicomiale potrà essere rivendicato come un
mezzo per por fine alle sofferenze dei militari impazziti, è un’amara
ironia della vita riconoscere come proprio il ritorno a casa in licenza,
il ritrovare lontano dalla guerra e dalle sue carneficine i volti ed i
luoghi del proprio essere nel mondo sarà l’occasione che, nella
maggioranza dei casi e con la fisicità del non luogo delle
stazioni ferroviarie, incornicerà l’esplosione dell’accesso patologico.
Al riguardo, gli esempi si sprecherebbero[42].
Ricorderemo il caso del caporale del 6° Reggimento alpini G. G., da
Santorso (Vicenza). Dimesso dal manicomio di Cremona e tornato alla
propria abitazione, egli – scriverà la moglie a Renato Rebizzi - «ora è
quasi ristabilito, e non da più segno della minima alienazione. Come si
vede fu più che altro la passione di casa e le disgrazie che colà in
poco tempo accaddero»[43].
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