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Chronology

 

 LEGGERE LA FOLLIA IN GUERRA

1915 – 1918


di Andrea Scartabellati
 

 

 

 

 

            

INDICE

 

3 – La concretezza del potere, la straordinarietà del quotidiano.

 

 

 

 

«Guardi! per mia sfortuna, nella visita medica (…) fui fatto inabile al servizio di guerra, almeno se mi avevano fatto abile, ero più contento, perché almeno andavo (…) a trovare la morte da me, per dar termine ai miei dolori, e così quando che sarei stato morto, non avrei pensato più a nulla».

 

Ettore Pecci, lettera al direttore dott. Giuseppe Amadei, 19 febbraio 1912.

 

Quanto fin qui scritto, credo oramai convincerà il lettore della straordinaria ricchezza dell’archivio della follia e delle multiformi piste euristiche che si aprono ad una indagine storica sinceramente intenzionata ad aprirsi alla comprensione del fenomeno-guerra da plurime prospettive.

In quest’ottica, il manicomio come istituzione, strumento ed espressione di richieste tipiche di un’epoca e di una cultura della storia d’Europa, può proficuamente essere assunto, e nel medesimo tempo, per un triplice scopo. Discosto dalle mene di certa storiografia affascinata solo dalle funzioni esercitate dalle élites del potere e del denaro[i], sia come luogo privilegiato per osservare la quotidianità delle società in guerra, sia come motore attivo di quel vissuto collettivo e della comprensione che di esso se ne volle dare attraverso gli enunciati della scienza, sia come cartina di tornasole di una modalità storicamente determinata di gestione ordinaria delle esperienze borderline.

Resterà probabilmente deluso chi, con spirito deamicisiano, attende di scovare nella documentazione raccolta la narrazione d’imprese guerresche o gesta fuori dall’ordinario.

In queste carte, i limiti della cosiddetta normalità sono sì oltrepassati, ma lungo percorsi traumatici che non ci raccontano né storie di eroi abili e sfortunati, né, alla rovescia, storie di paladini coraggiosi e ribelli alla guerra. Anomala, nella sua rarità, è la vicenda del soldato mantovano di 26 anni C. A., come rammenta la sentenza del Tribunale di Guerra di Cremona:

 

«il 1° Febbraio 1917, nella sala del Consiglio di Leva di Mantova nel momento in cui, essendo stato dichiarato abile al servizio militare, gli veniva consegnato il foglio di congedo illimitato emetteva il grido di “abbasso la guerra” chiamando i membri del Consiglio “vigliacchi e lazzaroni”. Arrestato dal carabiniere P. U., si ribellava passando a vie di fatto. Indi rivolto agli altri carabinieri presenti aggiungeva: “sono anarchico, abbasso la guerra” e lanciava loro nuove contumelie. Chiuso in camera di sicurezza staccava e rendeva in frantumi il telaio della finestra vibrando con una parte del telaio stesso colpi all’impazzata. Staccava pure il tavolaccio dal pavimento. Visti dietro i finestrini i carabinieri ed il Maresciallo M. V. li ingiuriava ancora con i titoli di “carne venduta, sbirri, vigliacchi” e sputava loro addosso. Non potendo i militi ridurlo all’impotenza ed ammanettarlo, intervennero i pompieri, i quali somministrarono al C. una forte doccia di acqua fredda, che riuscì finalmente a calmarlo»[ii].

 

E nemmeno ancora, la documentazione apre il discorso – se non per improvvisi flash – ad una storia dal basso dell’età bellica abitata dai fantasmi intimiditi e muti delle vittime del potere. Molto più prosaicamente, invece, a smentita di compiaciute interpretazioni affascinate dalle presunte e radicali trasformazioni in guerra del sapere psichiatrico italiano[iii], queste carte ci riportano con la vivacità della presa diretta e del primo piano il senso di una quotidianità umile e complessa che la lacerazione imposta dal conflitto rivelò a tutto tondo nei suoi tratti di discontinuità col tempo prebellico. Fatiche, ingiustizie, rimpianti, sofferenze, un passato prossimo doloroso[iv], biografie e convivenze familiari spezzate e solo in parte alleviate dalle licenze: ecco quel che narrano le carte dell’archivio della follia in guerra.

Come è stato osservato dalla più aggiornata storiografia, la narrazione di singoli casi rappresenta il passaggio migliore per comunicare ai non addetti ai lavori l’esperienza individuale della malattia e dell’internamento, e dare visibilità, per mezzo di un ventaglio di voci variegato, alle attitudini e alla complessità dei diversi punti di vista espressi sulla malattia, la terapia, la custodia e la guerra dagli attori sociali chiamati ad interloquire. Che questo dialogo sia approdato ad una monotona polifonia volta a variare solo le sfumature sopra un medesimo cantus firmus psichiatrico dedito all’organicismo e all’antropologia, e catturato nelle maglie dei paradigmi della degenerazione e dell’ereditarietà patologica, è motivo di ulteriore sfida per l’indagine analitica.

Mentre consegno al giudizio del lettore il materiale archivistico, vorrei ritagliare un ultimo spazio per un augurio. Oltre la comprensione dei fenomeni storici, spero che la ricchezza delle esperienze proposte possa finalmente dare una letterale dimensione al terribile destino toccato in sorte a più d’una generazione di italiani, a pieno titolo vittime del fenomeno-guerra e, nonostante questo, testardamente ignorati nelle pur numerose occasioni ieri reducistiche e oggi commemorative. Nemmeno l’impegno patriottico in guerra, par di capire, ha saputo vincere il graduale vortice di esclusione dalla vita e dalla memoria di cui sono stati oggetti i militari impazziti dal momento che sono stati etichettati come ammalati.

Il soldato Z. A., da Gadesco (Cremona),  che

 

« Partecipò ai primi combattimenti dell’attuale guerra e fu ferito e mutilato della gamba e coscia destra. (…) Ha delirio, idee strane come quella che abbia a ricrescere la sua gamba. E’ esaltato, non dorme. Si giudica pericoloso a sé e agli altri e necessario il ricovero (…)»[v];

 

il mitragliere del 77° Reggimento di Fanteria, «il giovane soldato F. P. fu Angelo di Gussola, affetto da mania spaventosa incontrata al fronte, dove fece 30 mesi di trincea»[vi]; il geniere F. G., da Casalmaggiore, il quale

 

«Chiamato alle armi col 1° Genio Zappatori, e, andato al fronte, vi si portò bene per oltre un anno, poi cadde in una sindrome depressiva con idee deliranti e, mentre era al campo, tentò seriamente di suicidarsi, ferendosi con un coltello all’addome e alla gola. Nell’Ospedale ove fu curato dalle ferite, venne anche accertata l’infermità psichica. Trasferito il 23 Luglio all’Ospedale n.234, fu giudicato infermo di mente e così pure a Reggio Emilia. Fu riformato pertanto dal servizio militare (…) in data 20 Settembre 1916. Nel Manicomio di Cremona ha presentato una frenosi depressiva ansiosa gravissima. Dal 20 Settembre 1916, data d’ingresso, al 28 Ottobre 1918, data della morte, fu sempre agitatissimo, afflitto da allucinazioni terrifiche e idee deliranti persecutorie, tutte di contenuto schiettamente bellico, sicché sembrava sempre sul campo di battaglia»[vii],

 

non sono forse vittime di un conflitto che è opportuno vedere anche attraverso le loro allucinazioni terrifiche a contenuto guerresco e giudicare recuperando in pieno il senso del loro peculiare sacrificio?

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE:

 

[

[i] A distanza di 25 anni è probabilmente ancora molto utile rileggere il volume di J. Le Goff, a cura di, La nuova storia, Milano 1990 (ed. orig. 1979).

[ii] Cartella clinica n. 36, Sentenza del Tribunale di Guerra di Cremona, s.d.

[iii] Cfr. sul tema A. Scartabellati, L’esplorazione castrense della psichiatria italiana: discontinuità o continuità della Grande guerra?, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, n.2, 2005, pp.149-68.

[iv] Cartella clinica n. 9.

[v] Cartella clinica n. 150.

[vi] Cartella clinica n. 114.

[vii] Cartella clinica n. 118.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

    

 

 

 
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