«Guardi! per mia sfortuna, nella
visita medica (…) fui fatto inabile al servizio di guerra, almeno se mi
avevano fatto abile, ero più contento, perché almeno andavo (…) a
trovare la morte da me, per dar termine ai miei dolori, e così quando
che sarei stato morto, non avrei pensato più a nulla».
Ettore Pecci, lettera al direttore
dott. Giuseppe Amadei, 19 febbraio 1912.
Quanto
fin qui scritto, credo oramai convincerà il lettore della straordinaria
ricchezza dell’archivio della follia e delle multiformi piste euristiche
che si aprono ad una indagine storica sinceramente intenzionata ad
aprirsi alla comprensione del fenomeno-guerra da plurime prospettive.
In quest’ottica,
il manicomio come istituzione, strumento ed espressione di richieste
tipiche di un’epoca e di una cultura della storia d’Europa, può
proficuamente essere assunto, e nel medesimo tempo, per un triplice
scopo. Discosto dalle mene di certa storiografia affascinata solo dalle
funzioni esercitate dalle élites del potere e del denaro[i],
sia come luogo privilegiato per osservare la quotidianità delle società
in guerra, sia come motore attivo di quel vissuto collettivo e della
comprensione che di esso se ne volle dare attraverso gli enunciati della
scienza, sia come cartina di tornasole di una modalità storicamente
determinata di gestione ordinaria delle esperienze
borderline.
Resterà
probabilmente deluso chi, con spirito deamicisiano, attende di scovare
nella documentazione raccolta la narrazione d’imprese guerresche o gesta
fuori dall’ordinario.
In queste
carte, i limiti della cosiddetta normalità sono sì oltrepassati, ma
lungo percorsi traumatici che non ci raccontano né storie di eroi abili
e sfortunati, né, alla rovescia, storie di paladini coraggiosi e ribelli
alla guerra. Anomala, nella sua rarità, è la vicenda del soldato
mantovano di 26 anni C. A., come rammenta la sentenza del Tribunale di
Guerra di Cremona:
«il 1° Febbraio 1917, nella sala del Consiglio di
Leva di Mantova nel momento in cui, essendo stato dichiarato abile al
servizio militare, gli veniva consegnato il foglio di congedo illimitato
emetteva il grido di “abbasso la guerra” chiamando i membri del
Consiglio “vigliacchi e lazzaroni”. Arrestato dal carabiniere P. U., si
ribellava passando a vie di fatto. Indi rivolto agli altri carabinieri
presenti aggiungeva: “sono anarchico, abbasso la guerra” e lanciava loro
nuove contumelie. Chiuso in camera di sicurezza staccava e rendeva in
frantumi il telaio della finestra vibrando con una parte del telaio
stesso colpi all’impazzata. Staccava pure il tavolaccio dal pavimento.
Visti dietro i finestrini i carabinieri ed il Maresciallo M. V. li
ingiuriava ancora con i titoli di “carne venduta, sbirri, vigliacchi” e
sputava loro addosso. Non potendo i militi ridurlo all’impotenza ed
ammanettarlo, intervennero i pompieri, i quali somministrarono al C. una
forte doccia di acqua fredda, che riuscì finalmente a calmarlo»[ii].
E nemmeno
ancora, la documentazione apre il discorso – se non per improvvisi flash
– ad una storia dal basso dell’età bellica abitata dai fantasmi
intimiditi e muti delle vittime del potere. Molto più prosaicamente,
invece, a smentita di compiaciute interpretazioni affascinate dalle
presunte e radicali trasformazioni in guerra del sapere psichiatrico
italiano[iii],
queste carte ci riportano con la vivacità della presa diretta e del
primo piano il senso di una quotidianità umile e complessa che la
lacerazione imposta dal conflitto rivelò a tutto tondo nei suoi tratti
di discontinuità col tempo prebellico. Fatiche, ingiustizie, rimpianti,
sofferenze, un passato prossimo doloroso[iv],
biografie e convivenze familiari spezzate e solo in parte alleviate
dalle licenze: ecco quel che narrano le carte dell’archivio della follia
in guerra.
Come è
stato osservato dalla più aggiornata storiografia, la narrazione di
singoli casi rappresenta il passaggio migliore per comunicare ai non
addetti ai lavori l’esperienza individuale della malattia e
dell’internamento, e dare visibilità, per mezzo di un ventaglio di voci
variegato, alle attitudini e alla complessità dei diversi punti di vista
espressi sulla malattia, la terapia, la custodia e la guerra dagli
attori sociali chiamati ad interloquire. Che questo dialogo sia
approdato ad una monotona polifonia volta a variare solo le sfumature
sopra un medesimo cantus firmus psichiatrico dedito
all’organicismo e all’antropologia, e catturato nelle maglie dei
paradigmi della degenerazione e dell’ereditarietà patologica, è motivo
di ulteriore sfida per l’indagine analitica.
Mentre
consegno al giudizio del lettore il materiale archivistico, vorrei
ritagliare un ultimo spazio per un augurio. Oltre la comprensione dei
fenomeni storici, spero che la ricchezza delle esperienze proposte possa
finalmente dare una letterale dimensione al terribile destino toccato in
sorte a più d’una generazione di italiani, a pieno titolo vittime del
fenomeno-guerra e, nonostante questo, testardamente ignorati nelle pur
numerose occasioni ieri reducistiche e oggi commemorative. Nemmeno
l’impegno patriottico in guerra, par di capire, ha saputo vincere il
graduale vortice di esclusione dalla vita e dalla memoria di cui sono
stati oggetti i militari impazziti dal momento che sono stati
etichettati come ammalati.
Il
soldato Z. A., da Gadesco (Cremona), che
« Partecipò ai primi combattimenti dell’attuale
guerra e fu ferito e mutilato della gamba e coscia destra. (…) Ha
delirio, idee strane come quella che abbia a ricrescere la sua gamba. E’
esaltato, non dorme. Si giudica pericoloso a sé e agli altri e
necessario il ricovero (…)»[v];
il
mitragliere del 77° Reggimento di Fanteria, «il giovane soldato F. P. fu
Angelo di Gussola, affetto da mania spaventosa incontrata al fronte,
dove fece 30 mesi di trincea»[vi];
il geniere F. G., da Casalmaggiore, il quale
«Chiamato alle armi col 1° Genio Zappatori, e,
andato al fronte, vi si portò bene per oltre un anno, poi cadde in una
sindrome depressiva con idee deliranti e, mentre era al campo, tentò
seriamente di suicidarsi, ferendosi con un coltello all’addome e alla
gola. Nell’Ospedale ove fu curato dalle ferite, venne anche accertata
l’infermità psichica. Trasferito il 23 Luglio all’Ospedale n.234, fu
giudicato infermo di mente e così pure a Reggio Emilia. Fu riformato
pertanto dal servizio militare (…) in data 20 Settembre 1916. Nel
Manicomio di Cremona ha presentato una frenosi depressiva ansiosa
gravissima. Dal 20 Settembre 1916, data d’ingresso, al 28 Ottobre 1918,
data della morte, fu sempre agitatissimo, afflitto da allucinazioni
terrifiche e idee deliranti persecutorie, tutte di contenuto
schiettamente bellico, sicché sembrava sempre sul campo di battaglia»[vii],
non sono forse vittime di un
conflitto che è opportuno vedere anche attraverso le loro allucinazioni
terrifiche a contenuto guerresco e giudicare recuperando in pieno il
senso del loro peculiare sacrificio?
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