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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

Mind Sciences, Philosophy, Psychotherapy and Creativeness

     EVENTS 2005

Le mostre, gli eventi teatrali, gli 'happenings'.... e tanto altro ancora. 

 

Vai agli "Events" del secondo semestre 2004 

14.05.2005

Oggi Jan Fabre , che in questi giorni è giunto a Udine, incontrerà pubblicamente coloro che amano la sua eclettica opera di artista al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, alle ore 12 (ingresso libero).

13, 14 maggio 2005 ore 21

Udine, Teatro Nuovo Giovanni da Udine

JE SUIS SANG  - prima nazionale

testo, regia, scenografia, coreografia Jan Fabre

attori, danzatori, musicisti Linda Adami, Tawny Andersen, Vincente Arlandis, Dimitri Brusselmans, Katrien Bruyneel, Annabelle Chambon, Cédric Charron, Sebastien Cneude, Anny Czupper, Stijn Dickel, Barbara De Coninck, Olivier Dubois, Els Deceukelier, Ivana Jozic, Marina Kaptijn, Guillaume Marie, Dirk Roofthooft, Maria Stamenkovic-Herranz, Geert Vaes, Helmut Van den Meersschaut

disegno luci Jan Dekeyser, Jan Fabre / costumi Daphne Kitschen, Jan Fabre

produzione  Troubleyn / Jan Fabre ( Antwerp / Belgium )

Lo spettacolo è consigliato ad un pubblico adulto.

 

Debutto nazionale venerdì 13 e sabato 14 maggio, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine (inizio ore 21) – per  Je suis sang, seconda tappa dell’omaggio a Jan Fabre, una trilogia di opere delle più recente produzione del multiforme e prolifico artista fiammingo, che ha unito a livello progettuale CSS Teatro stabile di innovazione del FVG e Fondazione Teatro Nuovo Giovanni da Udine, con la collaborazione di Fondazione CRUP e illycaffé.

Composto da Jan Fabre per il prestigioso contesto della Corte d’Onore del Festival di Avignone, Je suis sang declina in forma imponente l’acceso interesse di Jan Fabre per il corpo umano, concentrandosi su uno dei suoi liquidi essenziali, il sangue. Je suis sang (sottotitolo: una fiaba medioevale) si sviluppa attorno all’idea che per gli esseri umani molto poco è cambiato dai “tempi bui” del Medioevo. Secondo Fabre, per l’uomo non si può parlare di una reale evoluzione perché, nei suoi istinti e impulsi, egli ancora oggi continua a farsi dominare dall’aggressività  (dimostrandosi così non molto diverso dagli animali) e da una sistematica sete di sangue (cosa che invece lo discosta profondamente da loro). Il tema centrale di tutta la piéce è che, a discapito dello sviluppo che ha subito la coscienza, l’evoluzione razionale e scientifica, la globalizzazione, non si è ancora affermata una nuova immagine mentale e fisica dell’uomo.  Ecco perché c’è ancora una volta il corpo, con le sue pulsioni, fissazioni, gioie e sofferenze, al centro di uno spettacolo di Jan Fabre. Diciannove attori, danzatori e musicisti mettono in scena una grandiosa storia umana raccontata in una sequenza di tableaux viventi, ora estatici ora lirici ora estremi, attraverso passato, presente e futuro.   Assieme, come in un mantra misterioso, i protagonisti di Je suis sang fanno risuonare la bruciante voce del corpo come fonte di stimoli e di tabù sociali, naturalmente legati al sangue: ferite, mestruazioni, stigmate.   Perché l’uomo è votato alla religione del proprio sangue, l’unico fluido capace di purificarsi da solo e, privo finalmente del peso della carne e delle ossa, aspirare a diventare l’essere del futuro: un corpo fatto soltanto di sangue.  per ulteriori informazioni sul PROGETTO JAN FABRE     www.cssudine.it/janfabre.htm


13.05.2005

E' uscito il libro di Alda Merini "Sono nata il ventuno a primavera" (Manni editore, Lecce).

Dalla recensione di Ignazio Minerva su "La Repubblica- Bari" del 12.05.2005:

<<La casa di Alda Merini è come la sua poesia: "vive di accumulo, aggiungendo immagine ad immagine, oggetto ad oggetto, con una semplicità ed una innocenza che riscattano e sublimano qualunque esperienza come qualunque disordine". Parole dell'editore Pietro Manni (...). Dalle conversazioni Manni ha tratto questa biografia intellettuale "Sono nata il ventuno a primavera" arricchita da poesie e citazioni. Nella prima parte del libro la Merini ricorda i suoi genitori, gli anni felici dell'infanzia e la vocazione a una maternità speciale, "non una madre che spolvera, che sta attenta che il bambino non sporchi, non si faccia una macchia" ma una "madre morale, mentale, custode dei figli". Racconta l'incontro con Manganelli, quando avrebbe voluto scrivere per Einaudi "Albergo a ore", alludendo "agli innumerevoli alberghi che abbiamo visitato nelle nostre perdute scorribande amorose. (...) Albergo a ore viene pure definito l'ospedale psichiatrico, dal quale entrare nei momenti di crisi e uscire. "Il manicomio - scrive la Merini - è una grande cassa/ con atmosfere di suono/ e il delirio diventa specie,/ l'anonimità misura,/ il manicomio è il monte Sinai/ luogo maledetto/ sopra cui tu ricevi/ le tavole di una legge/ agli uomini sconosciuta".  Nella seconda sezione(E' stanco, il poeta) Alda  Merini parla della poesia, che in fondo, dice, serve solo ai poeti che sono portatori di un magma che diventerà aria, speranza per gli altri. L'ultima parte raccoglie poesie inedite, come quella riportata in copertina" Nuvole di pianto/ sono le mie parole/ un brivido di canto/ il silenzio del tuo respiro".

 

12.05.2005

Comunicato Stampa Vicenza, 5 maggio 2005

 Il teatro del Lemming di Rovigo presenta “Huis Clos “ (A porte chiuse) di Sartre.

 L’evento è promosso da SconfinaMenti, associazione interdisciplinare di psichiatri e psicologi vicentini PORTE APERTE A “PORTE CHIUSE” A Vicenza per la prima volta l’ex ospedale psichiatrico si apre ad un evento esterno. L’iniziativa che si terrà il 28 e 29 maggio comprende “La scena degli addii, morte e separazione nel teatro del vivere”, un convegno sulla morte e separazione con letture originali: psicanalitica, sociologica, teatrale, fino all’elaborazione del lutto nella produzione artistica di Munch. Un convegno su un tema per molti aspetti ancora e sempre tabù: la morte, la separazione e l’elaborazione del lutto. Una rappresentazione teatrale per pochi spettatori nell’ex ospedale psichiatrico di Vicenza, un convento millenario, oggi sede di strutture riabilitative e residenziali per pazienti psichiatrici. Un’associazione dal nome evocativo di “SconfinaMenti”, costituita recentemente da un gruppo di psichiatri e psicologi vicentini, non poteva che rompere i confini, cercare punti di incontro (e di rottura) con altre discipline e linguaggi. Il doppio evento, che si terrà a Vicenza il 28 e 29 maggio, mira a lanciare suggestioni (e provocazioni) alla città e non solo, agli addetti ai lavori, ma anche a chiunque si incuriosisca di fronte alla trattazione di tematiche importanti con chiavi di lettura nuove. Il Convegno “La scena degli addii: morte e separazione del teatro del vivere” (Palazzo del Monte, Contrà del Monte 13 a Vicenza) tratterà gli argomenti in chiave clinica con aperture sociologiche e una non celata predilezione per un approccio psicanalitico - ma anche sociologico e antropologico - fino a quella forma particolare di elaborazione del lutto che è la produzione artistica nelle sue diverse forme (una delle relazioni analizzerà il percorso di Edvard Munch). Le sera seguente, alcuni spazi dell’ex ospedale psichiatrico, ospiteranno la compagnia Teatro del Lemming di Rovigo in una presentazione “studio” del testo teatrale di Jean Paul Sarte “Huis Clos” (A Porte Chiuse), movimento della trilogia Inferno che comprende una ricerca sulla caduta e rinascita dell’essere umano attraverso percorsi teatrali contemporanei. La messa in scena, secondo lo stile dell’importante gruppo teatrale veneto, sarà rivolta a un piccolo pubblico di trenta persone coinvolte nella rappresentazione. I locali utilizzati saranno quelli vissuti quotidianamente dagli ospiti del Centro Diurno riabilitativo del Dipartimento di Salute Mentale, in particolare un attivissimo laboratorio di lavorazione della ceramica e quello adiacente di legatoria. “Lo spazio vicentino è ricco di significato – afferma Sandro Quadrelli del Teatro del Lemming - ci piace stravolgere le regole del gioco, trasformare gli spazi, anche quelli tradizionali, facendo risaltare il luogo insieme alla rappresentazione che vi si svolge”. “Una delle idee forti della associazione che abbiamo recentemente fondato a Vicenza, e che riunisce psichiatri, psicologi e altre persone interessate – spiega la dott.ssa Consolaro, psichiatra, presidente dell’associazione Sconfinamenti - è quella di un’azione culturale, ma anche sociale, che possa contribuire a combattere gli stigmi, cioè tutte quelle forme di pregiudizio e di esclusione, che riguardano le persone che soffrono di disturbi psichici, una categoria di malati spesso tenuta ai margini della vita sociale, per paura o ignoranza. Nella malattia psichiatrica questa paura è ancora molto presente e di recente i Ministri della Salute della comunità europea hanno inserito i progetti per la Salute Mentale e la lotta alla stigmatizzazione dei malati psichiatrici come uno dei principali obiettivi di salute pubblica dell’Unione. Nel nostro territorio – prosegue la psichiatra vicentina - ci piacerebbe che, anche secondo quanto stabilito nei Progetti Obiettivo per la Salute Mentale, in pratica i programmi attuativi della legge 180, gli ex luoghi di cura non fossero più vissuti come ghetti, posti dove custodire le persone e isolarle dal mondo esterno, ma che la città vi entrasse, che convivesse senza paure con le poche persone, molte ormai anziane, che ancora vi sono ospitate e che ora vi abitano a tutti gli effetti. Non a caso non si parla più di reparti ospedalieri, ma di Comunità Alloggio e gruppi appartamento. Sarebbe bello pensare che un domani, in questi magnifici spazi, potessero tranquillamente rientrare forme normali di vita civica, fruibili da tutta la popolazione, come ad esempio un parco pubblico”. Per informazioni e iscrizioni al convegno: C.R.J.V., via Ezzelino Balbo 2, 35141, PADOVA, info@jung-veneto.it - tel. 049.8726148, fax 049.8728448; Associazione SconfinaMenti, tel.0444.322090, e.mail: sconfinamenti@katamail.com Per prenotazione posti per la rappresentazione teatrale che si svolgerà il giorno 29 maggio in tre repliche alle ore 19, 20.30 e 22, telefonare allo 0425.422465; e.mail: infolemming@teatrodellemming.com Contatti stampa: Isabella Sala 339.74968982 - e.mail: is.sala@libero.it

 

9.05.2005 

Riceviamo da Sabrina Bisceglia la seguente segnalazione cinematografica:

Ufficio stampa on line Cultur-e

Sabrina Bisceglia

Tel. 06 – 44162330

Myself@cultur-e.it

 

 

 

 

 

DAL 6 MAGGIO NELLE SALE, “TU DEVI ESSERE IL LUPO”

 

 

E’ in uscita il primo lungometraggio di Vittorio Moroni, “Tu devi essere il Lupo”.

La pellicola, che ha partecipato ai festival di Annecy, Villerupt, Ajaccio e Lecce, è stata finanziata dal Dipartimento per lo Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Benché sponsorizzata con soldi pubblici, è stata tagliata fuori dalla grande distribuzione nazionale, ma grazie alla perseveranza dei suoi autori,  dal 6 Maggio sarà nelle sale di Milano, Roma, Firenze, Lecce, Padova, Sondrio, Torino e Morbegno (SO).

 

“Per noi questo progetto - raccontano gli autori del film - rappresenta troppo in termini di amore e impegno perché possiamo accontentarci di tenerlo in un cassetto e lamentarci della situazione generale. Così abbiamo deciso di fondare l’associazione culturale MYSELF”.

Grazie a coloro che hanno creduto nel progetto, la Myself ha raggiunto la cifra di 50.000 Euro - il minimo indispensabile per le spese di lancio - e si è associata alla PABLO distribuzione di Gianluca Arcopinto.

 

La storia racconta di Valentina, quindici anni, piena di paure, dubbi e interrogativi.

Non ha più la madre e la sua vita ruota interamente attorno alla figura paterna, Carlo, un tassista con la passione per la fotografia. L’equilibrio di questa relazione padre-figlia vacilla e sembra crollare quando Carlo è costretto a fare delle scelte che fanno crescere sempre di più nella figlia l’immensa paura di restare sola.

Una donna si riaffaccia nelle loro vite, chiedendo loro di riaprire antiche ferite, rimettendo in discussione il loro fragile mondo…

 

 

Tu devi essere il lupo è la storia del rapporto tra un padre e una figlia, sconvolto dal ritorno della madre dopo anni di assenza, una storia di relazioni familiari fragili, di rapporti complessi alla ricerca di un equilibrio difficile da raggiungere e conservare.

Cultur-e è tra i sostenitori attivi dell’iniziativa.

 

8.05.2005 BOLTANSKI A MILANO

(fonte: Artplus)

CHRISTIAN BOLTANSKI AL PAC (MILANO)

Dopo "Fitting Spaces / Spazi atti - 7 artisti italiani alle prese con la trasformazione dei luoghi",  per il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano è ora la volta di Christian Boltanski. L’artista francese nato a Parigi nel 1944 e riconosciuto oggi come uno dei più grandi artisti contemporanei, ritorna in Italia con una mostra dedicata alla dimensione temporale, al trascorrere del tempo e alla sua percezione. L’evento in programma allo spazio espositivo milanese dal 18 marzo a1 12 giugno sarà curato da Jean-Hubert Martin.

Le opere che saranno presenti al PAC, tutte di recente produzione, sono state costruite per permettere al visitatore di entrare in contatto con la personale elaborazione estetica del concetto di tempo elaborata da Boltanski durante tutta la sua attività artistica: non sviluppo storico, ma fragile e instabile passaggio, fine inesorabile e scorrere decadente. Il linguaggio artistico di Boltanski è concettuale, come è concettuale l’arte funeraria di molte culture: un sistema di semplici segni e di suoni ripetitivi per dare forma all’inarrestabile flusso del tempo e quindi all’improrogabile appuntamento con la morte. Gli oggetti che Boltanski impiega nelle sue installazioni sono trattati come marionette, non sono usati per se stessi, per la loro forma o per ciò che rappresentano, ma piuttosto per la loro arcana capacità di evocare e richiamare alla mente avvenimenti passati, strappandoli così all’oblio, alla dimenticanza.
Opere che si focalizzano sull’ultimo grande dubbio dell’uomo, che sprofondano nella paura della fine, sempre minacciosa all’orizzonte. E’ la sensazione del passaggio, della precarietà effimera dell’esistenza, è la domanda insoluta sul senso della nostra presenza.

La mostra milanese affronta quindi due temi fondamentali per tutto il genere umano: il trascorrere del tempo ed il tema della scomparsa. Il tempo sarà percepibile con forza e crudezza in diversi modi, da un’interminabile voce sintetizzata che segnalerà costantemente l’orario alle immagini fotografiche del volto di Boltanski nelle diverse tappe della sua vita, da un video che proporrà ad alta velocità consequenziale i fatti accaduti ogni 6 settembre, giorno di nascita dell’artista, con possibilità però di selezionarne uno da analizzare, da ricordare. I suoi lavori tendono essenzialmente ad evocare il passato, evidenziandone le tracce e l’azione sacralizzante. Il tema della scomparsa, della morte, verrà evocato invece non solo da fotografie, ma anche dall’inequivocabile e lapidaria opera TOT (“morto” in tedesco) scritta a parete con l’impiego di lampadine luminose. Il tempo – che siano pochi giorni o una vita intera - avvalora l’intento di documentare la realtà quale essa sia, comune, quotidiana, ripetitiva, assumendo il sapore della Memoria. Una mostra di grande impatto, una sorta di "memento mori" dove la verità apparente delle cose fatta di istantaneità e transitorietà si ribalterà nel suo opposto complementare e immergerà i visitatori nell’implacabile fluire del tempo. Un trascorrere leggibile però solo attraverso la lente soggettiva del Ricordo.

In occasione della personale, si terranno inoltre la rassegna PACinConcerto, con un programma di appuntamenti fra arte e musica contemporanea, e Appuntamenti contemporanei, conferenze e letture legate alle tematiche della mostra. 

Sede: Padiglione d'Arte Contemporanea, Via Palestro 14 - 20121 Milano 
Tel 02 76009085 fax 02 783330 – www.pac-milano.org
Orari: 9.30 – 17.30 da martedì a sabato - giovedì 9.30 - 21.00 – domenica 9.30 - 19.30 – chiuso il lunedì e il 1° maggio

 

15.03.2005 

E' uscito per Einaudi "Daimon" , opera-rivelazione di Patrizia Bisi.

(dalla scheda di presentazione del libro a cura dell'Ufficio Stampa Einaudi)

Una narrazione originale, coinvolgente, di straordinaria forza emotiva. Dove l'elemento fantastico scivola nella dimensione reale fino a rendere sempre più sottile il confine fra realtà e illusione, tra normalità e follia.


Supercoralli
pp. 168 € 15,00

Diletta ha tre anni. All'asilo si distingue nel lancio di coltelli in sala mensa, ma seduta sulle gambe di suo padre suona il piano come un angelo. Diletta ha otto anni. La sua mente è popolata di fantasmi, e la musica sotto le sue mani prende toni diabolici, selvaggi. Diletta ha tredici anni. Suona deviando da ogni partitura, l'ombra di un demone ballerino la dirige. Invece che al Conservatorio, entra in un istituto psichiatrico. Diletta a ventun anni parte da sola per New York. È cresciuta senza mai guarire da quella strana malattia che si chiama anima. Perché crescere, a tutte le età, significa imparare ad ascoltare la propria musica interiore.

«Tutto è cominciato la notte in cui un tifone ha spezzato un palo della luce, oscurando il quartiere intorno all'ospedale dove mia madre stava partorendo. A Milano, il 24 gennaio, ventuno anni fa. Un parto difficile, lungo e doloroso, per mia madre il primo e l'ultimo della sua carriera».

Diletta è figlia del Maestro Enrico Lanzetti e di Elizabeth O'Leary. Non è normale, dice sua madre. Suo padre dice che è una bambina eccezionale, «speciale, ha detto ancora per un po', e poi sulla mia specialità si è steso un velo». Agli occhi di tutti è una piccola furia che sta asserragliata in camera scagliando gli oggetti in una personalissima guerra di liberazione. Che non parla e non ascolta ma suona il piano, i tavoli, i bicchieri. Che usa le posate come armi e chiacchiera con un nano invisibile.
La verità è che Diletta è una creatura spaventata, che sente troppo e che nessuno sta a sentire. Colleziona incidenti. E dottori, farmaci, istituti per la rieducazione dei bambini difficili, tutte le forme di costrizione che gli adulti esercitano su quello che non riescono a capire. E nel suo mondo personale, un universo fantastico che si anima nella sua mente, sperimenta un percorso dove la «diversità» e la fantasia sono un modo per attraversare la paura, la violenza, la solitudine, la morte.

Le ci vorrà del tempo per capire che non si può guarire da se stessi. Partire da sola per New York, a ventun anni, senza un soldo in tasca, sarà per lei un salto nel buio non diverso dagli altri. Per ritrovare la sua musica, e il coraggio di dire a chi vorrebbe riportarla nel suo piccolo inferno protetto: «Se questo è amore, io ci sputo sopra».
Una narrazione originale, coinvolgente, di straordinaria forza emotiva. Dove l'elemento fantastico scivola nella dimensione reale fino a rendere sempre più sottile il confine fra realtà e illusione, tra normalità e follia.

 

Patrizia Bisi è nata a Roma e vive tra l'Italia, gli Stati Uniti e il Nepal. Matematica, editrice, ha lavorato a Boston presso il «Program in Writing and Humanistic Studies» del Mit. Ha pubblicato il suo primo libro firmandolo con un eteronimo.

 

 

10.03.2005

Jenny Saville

Jenny Saville, Reverse, 2002-2003 (fonte: Electa Ufficio Stampa)

E’ la prima mostra che un Museo italiano dedica all’artista 34enne inglese. Giovane promessa della Young British School, erede della figurazione del secondo Novecento, vicino alle esperienze di Lucien Freud e Francis Bacon, Saville conquista da subito il consenso del pubblico e della critica, raggiungendo quotazioni vertiginose alle ultime aste, con una poetica concentrata su tematiche tipicamente femminili, che l’artista approfondisce anche attraverso la lettura di testi legati al movimento femminista.

Le Sale Panorama del MACRO ospitano una selezione di circa venti lavori che sottolineano la sua indagine sul corpo umano e le varie manipolazioni che questo può subire, per esempio attraverso la chirurgia plastica. Per la mostra, curata da Danilo Eccher, Jenny Saville ha realizzato in esclusiva dieci disegni e sei nuovi dipinti a olio che rappresentano carcasse di animali, volti e corpi di donne che si sono sottoposte o dovranno sottoporsi a chirurgia estetica.

Nata a Cambridge nel 1970, si diploma nel 1992 presso la Glasgow School of Art. Vive e lavora tra Londra e Palermo.
La sua prima mostra fu interamente comprata dalla Galleria Saatchi di Londra ed ottenne un successo strepitoso.
Ottiene diversi premi internazionali e partecipa a diverse collettive e personali, tra cui ricordiamo British Institute Prize for Painting alla Royal Academy, Londra 1991, “Sensation: Young British Artists from the Saatchi Collection”, Londra 1997; “Territories” presso la Gagosian Gallery, New York 1999; “The Nude in Contemporary Art”, presso The Aldridge Museum of Art, Connecticut, 1999; “Ant Noises 2” Saatchi Gallery, Londra 2000, “Disparities and Deformations. Our Grotesque” presso la Quinta Biennale Internazionale di SantaFè, New Mexico, 2004.

La mostra sarà accompagnata da un catalogo bilingue italiano-inglese edito da Electa, che contiene, una ricca selezione di immagini delle opere dell’artista.


scheda informativa

direttore: Danilo Eccher
mostre: “Nunzio” e “Jenny Saville”, a cura di Danilo Eccher.
sede: MACRO, Via Reggio Emilia 54 – 00198, Roma
durata mostre: 21 gennaio 2005 – 1 maggio 2005
orario del MACRO: da martedì a domenica 9.00 – 19.00; festività 9.00 - 14.00; (lunedì chiuso)
biglietto: 1 Euro (iniziativa valida fino al 30 settembre 2006). Gratuito sotto i 18 e oltre i 65 anni.

info:
06-6710 70400 – Fax: 06-8554090 - macro@comune.roma.it - http://www.macro.roma.museum/

servizi didattici: Dipartimento Didattica – tel. 06 6710 70423/25

servizi al pubblico: bookshop, caffetteria, mediateca, videoteca, postazioni multimediali


Referente del Macro per la stampa:
Laura Larcan: tel. +39 06 6710 70415 – 338 34 71 731
macro@comune.roma.it

Ufficio stampa ELECTA:
Ilaria Maggi: tel: 02-21563250
imaggi@mondadori.it

 

9.03.2005 

(fonte:  http://redazione.romaone.it/ )

 

Edvard Munch, al Vittoriano l'angoscia di un'epoca

Una vasta antologica presenta gli inquieti capolavori di uno dei maestri del Novecento, l'artista norvegese profeta delle paure, delle inquietudini e dei tormenti interiori dell'uomo moderno.

 
 

 

 

Deborah Marchioro



Roma, 9 marzo 2005 - Oltre cento opere, tra dipinti a olio e stampe, ripercorrono l'iter creativo di Edvard Munch (1863-1944), l'artista norvegese considerato uno dei padri dell'Espressionismo.
La mostra ospitata nel Complesso del Vittoriano, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Reale Ambasciata di Norvegia, è promossa dal Comune e dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio. Curata da Øivind Storm Bjercke, si avvale di un comitato scientifico composto da Erik Mørstad, Einar Petterson, Renato Barilli, Maria Teresa Benedetti, con Claudio Strinati quale commissario generale.
Le opere esposte, circa sessanta oli e una cinquantina di opere grafiche tra acquaforti, litografie, xilografie, provengono da noti musei internazionali e dalle più importanti sedi espositive norvegesi, tra cui il Munch-Museet e la Nasjonalgalleriet di Oslo, il Bergen Kunstmuseum, lo Statens Museum for Kunst di Copenaghen, l'Ateneumin Taidemuseo di Helsinki, il Wallraf-Richartz-Museum di Colonia, lo Sørlandets Kunstmuseum di Kristiansand, il Lillehammer Kunstmuseum, il Trondheim Kunstmuseum e il Rogaland Kunstmuseum di Stavanger.
L'esposizione, come ha precisato il curatore Øivind Storm Bjercke, intende mostrare tutti gli aspetti della produzione dell'artista e rappresenta un'occasione unica per ammirare le sue opere, dal momento che per vedere Munch bisogna andare in Norvegia: non è un artista come Cezanne o Monet, facilmente visibile in diversi musei del mondo, poiché, ad esempio, a New York c'è solo una sua opera.
Come ha sottolineato il Sindaco di Roma, Walter Veltroni, Munch è stato "il migliore interprete, senza volerlo, del tempo che viviamo" e a proposito dei furti che hanno interessato le opere dell'artista, il Sindaco ha affermato che il "rapimento" de L'urlo, avvenuto insieme a quello del dipinto raffigurante la Madonna lo scorso agosto, "meriterebbe che si impegnassero tutte le forze possibili per recuperarlo".
Melanconia, Disperazione, Paura, Urlo, Vampiro: questi alcuni titoli delle opere di Munch, espressioni di un'angoscia esistenziale e di un senso di morte che pervadono tutta la produzione dell'artista. Nato a Löten, in Norvegia, a cinque anni perde la madre e a quattordici vede morire la sorella: "Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l'infelicità di allora. Così vissi coi morti".
Dopo aver lasciato le scuole tecniche, studia alla Scuola Reale di Disegno di Oslo e inizia a dipingere soggetti familiari inserendosi nel filone del naturalismo. Compie poi fondamentali viaggi a Parigi (1885), nel sud della Francia, in Italia, in Germania: rimane particolarmente colpito da Manet e dagli Impressionisti, ma ben presto abbandona la solarità e le vibrazioni luminose di questi ultimi, guardando poi a Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Degas e Gauguin per superare il naturalismo ed esprimere una condizione esistenziale: ciò che lo interessa non è più il mondo esterno ma la realtà interiore, tema cui si rivolge anche la letteratura scandinava da Ibsen a Strindberg.
"Non si possono più dipingere interni con uomini che leggono e donne che lavorano a maglia - scrive Munch - Si dipingeranno esseri viventi che respirano e sentono, soffrono e amano". E ancora, "I miei quadri sono i miei diari", afferma l'artista, spiegando così in chiave autobiografica la sua intera produzione, esperienza soggettiva e al tempo stesso simbolica della sofferta condizione umana: la linea sinuosa dell'Art Nouveau chiude colori irreali che alludono al mondo interiore dell'artista, ma dopo la grave malattia nervosa che lo colpisce nel 1908 e lo costringe a trascorrere otto mesi in una clinica di Copenaghen, i contorni si sfaldano senza più trattenere il violento cromatismo.
Quando torna in Norvegia sceglie di vivere lontano dalla città, in un villaggio sul fiordo, prima a Krageroe e poi a Ekely: la solitudine diventa una scelta di vita, mentre i suoi quadri - da cui non si separa - divengono le sue "guardie del corpo". Il nuovo corso della sua vita corrisponde a un rinnovamento nella sua pittura, che conosce ora anche tinte radiose. A Ekely morirà di polmonite nel 1944, lasciando tutti i suoi averi in eredità al Comune di Oslo dove, nel 1963, è inaugurato il Museo a lui dedicato.
Catalogo Skira

Complesso del Vittoriano
Via San Pietro in Carcere
Tel. 06.6780664
Biglietto d'ingresso: intero euro 9,00 ridotto euro 6,50
Orario: dal lunedì al giovedì 9.30 -19.30; venerdì e sabato 9.30 - 23.30; domenica 9.30 - 20.30
Dall'11 marzo al 19 giugno 2005

2.03.2005 

Gina Pane e "Dionysiac" al Centre Pompidou a Parigi

(fonte: LaStampa Web)

A Gina Pane, grande protagonista della Body Art (morta prematuramente nel 1990), il Centre Pompidou dedica una retrospettiva che presenta fotografie, testi, oggetti e video di performance, che documentano gli aspetti più importanti della sua inquietante e poetica ricerca (fino al 16 maggio). Sempre al Pompidou rimarrà aperta fino al 9 maggio una articolata collettiva intitolata « Dionysiac » che comprende lavori di artisti come John Bock, Jason Rhoades, Fabrice Hyber e Paul Mc Carthy.

1.03.2005 

 
ROBERT MORRIS

apre il 26.02.2005 chiude il 29.05.2005

CENTRO PECCI
Viale della Repubblica 277
Prato (Po)
pecci@centropecci.it
http://www.centropecci.it/htm/ho.htm

ARTISTI CORRELATI

Robert Morris

DETTAGLIO NEWS

Antologica

Il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci presenterà una grande mostra dedicata a Robert Morris, uno dei massimi esponenti della Minimal Art, che tra l’altro ha lasciato nel territorio pratese e pistoiese opere significative come il Labirinto della Fattoria di Celle o l’altare maggiore e il pulpito nel Duomo di Prato.

La mostra sarà curata da Jean-Pierre Criqui, uno dei più noti esperti a livello internazionale dell’artista.

Per la prima volta in Italia saranno esposti insieme un numero così considerevole di Blind Time Drawings: circa 80 disegni scelti tra le 6 serie che formano il corpus completo di questo lavoro a cui Morris si è dedicato per più di trent’anni. Dai primi disegni del 1973 fino ai più recenti Moral Drawings del 2000, con una particolare enfasi sulla quarta serie, un gruppo di opere ispirate dagli scritti del filosofo Donald Davidson (Drawing with Davidson, 1991), oltre ad alcuni disegni che non appartengono a nessuna delle sei serie, come i Crisis Drawings.

I Blind Time Drawings sono disegni realizzati dall’artista ad occhi bendati, previa una breve stesura delle indicazioni che seguirà nell’esecuzione, per sottolineare lo scarto tra l’idea e la realizzazione, tra il proposito dell’artista e il limite del corpo. Gli scritti sono parte integrante dell’opera e spesso si trovano ai margini del disegno stesso.
Il fatto di non vedere il foglio mentre disegno mina tutte le idee di intenzionalità e rimette in questione lo statuto di errore come criterio limite. Per chi lavora ad occhi bendati la nozione di talento perde completamente di senso. Il processo in se non mi interessa, non è che un mezzo. (Robert Morris).

In mostra, inoltre, saranno esposti alcuni dei capolavori di Morris, pietre miliari del movimento minimalista come il famoso Card File del 1962 ed ancora Box with the Sound of its Own Making (1961), Self-Portrait (EEG) (1963), i Mirrored Cubes (1965), i film Mirror Film e Finch College Project Film, entrambi del 1969, la grande installazione Threadwaste with Mirrors (1968/1998) e Portland Mirrors (1977).

In occasione della mostra di Prato sarà pubblicato un libro dedicato ai Blind Time Drawings, non un catalogo ragionato, impossibile da realizzare a causa della dispersione dei disegni, (in totale dovrebbero essere circa 250, ma Morris non li ha catalogati), ma comunque la pubblicazione più importante ed esaustiva dedicata a questi straordinari lavori. I testi critici saranno di Robert Morris, Donald Davidson e Jean-Pierre Criqui.

Inaugurazione: 26 febbraio

Ufficio Stampa: Ku.ra. Rosi Fontana - t. 050 9711343 - fax 050 9711317

Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci
Viale della Repubblica 277 Prato
Orari: dal lunedì al venerdì 12.00-19.00; sabato, domenica e festivi 10.00-19.00. Chiusura: Martedì. Ingressi: intero € 5,00 - ridotto euro 4,00

 

Vai agli "Events" del primo semestre 2004 8.02.2005 

Anselm Kiefer : Die Frauen

 

fino all’8.III.2005
Anselm Kiefer – Die Frauen
Roma, Villa Medici – Accademia di Francia

Da Saffo a Circe, dalle regine di Francia alle rivoluzionarie. L'altra metà del cielo, secondo Anselm Kiefer. Vetro, ferro, giacigli vuoti di acqua e terra. Destini tragici, inesorabili e rievocazioni poetiche. Sotto l'ala di piombo della Storia...

 

(fonte: Exibart)
 

martedì 8 febbraio 2005
Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma dal 1666, accoglie da sempre protagonisti dell’arte contemporanea, tra cui recentemente Anselm Kiefer, di origini tedesche (Donaueschingen, 1945), ma francese d’adozione. Die Frauen – questo il titolo della mostra – è un viaggio affascinante nell’universo femminile, rievocato attraverso le figure più significative della storia e della mitologia.
L’itinerario si snoda nelle sale del palazzo e nei giardini, animandosi di presenze vive, forgiate nei materiali più diversi che caratterizzano l’opera dell’artista, campione del Neo-espressionismo tedesco e del conseguente revival pittorico. Tuttavia, a differenza dei precursori della Brücke, che esaltavano il potenziale catartico e avveniristico della pittura –da cui la metafora neitzchiana del “ponte”– Kiefer la considera principalmente uno strumento di analisi retrospettiva, che spazia dalla verità dei fatti a quella, altrettanto incrollabile, del mito. 
L’esposizione corre sul doppio binario della storia e dell’immaginazione, attingendo al ricco firmamento di stelle che illuminano “l’altra metà del cielo”: Saffo, che al posto del cranio regge il peso telamonico di una pila di libri, identificandosi totalmente con la poesia; Dafne, in piena metamorfosi, con gli arti vegetali spiegati a mo’ di ali; Circe, prototipo dell’ammaliatrice, che trasforma le sue vittime in animali e le rinchiude in una gabbia. E poi Berenice, rappresentata con rigore filologico, degno della fonte callimachea: su una parete è appuntata la mitica ciocca da cui si dipanano schegge di vetro, che alludono alla costellazione eponima.
Alle regine di Francia, Kiefer dedica un doppio lavoro, al confine tra la pittura e l’installazione. Dapprima, una superficie pittorica spessa, laccata, polimaterica, su cui spiccano i nomi delle teste coronate, accanto a cornici di piombo vuote: probabilmente, una genealogia invisibile, cancellata dall’oblio e ridotta ad un vuoto elenco nominativo. Forse, un’eco dell’olocausto, macchia nera sul fondo della coscienza tedesca, orrore passato, sempre presente nel ricordo dei superstiti e nelle vite spezzate delle vittime anonime. Dunque, la storia come magistra vitae, irriducibile al puro dato cronologico, ma input per la determinazione della coscienza collettiva.
Così, le regine di Francia non sono nomi iscritti all’albo della storia nazionale, ma donne realmente vissute e testimoniate da elementi evocativi come le rose, le pere essiccate, o reliquie di altro genere. La materia continua a pulsare della loro energia e, da questo punto di vista, Kiefer ricalca le orme del suo grande maestro: Joseph Beuys. Allo stesso modo, Le donne della Rivoluzione sono immortalate in una serie di tredici letti di piombo: qui, il materiale è lavorato come fosse una carta leggera e facilmente modellabile; le increspature assomigliano alle pieghe di una stoffa – un sudario – che accoglie i corpi delle rivoluzionarie, virtualmente racchiusi nei giacigli colmi d’acqua, terra e frammenti di pietra. Sepolcri vuoti perché le defunte godono ormai di fama imperitura, o svuotati dalla memoria a breve termine del terzo millennio? E l’appello di Kiefer è proprio questo, non dimenticare.

maria egizia fiaschetti
mostra visitata il 26 gennaio 2005


Anselm Kiefer a Villa Medici. Die Frauen
Villa Medici – Accademia di Francia, (centro storico, piazza di Spagna) viale Trinità dei Monti 1
orario: 11-19; chiuso il martedì
biglietti: 8 euro (intero); 4,50 euro (ridotto)
per informazioni: tel. 39 066761291, fax 0669921653 - http://www.villamedici.it/ , stampa@villamedici.it


 

8.02.2005 

Günter Brus. Viaggio intorno all’opera.
Una retrospettiva dal 1960 al 1996
 

A cura di: Monika Faber e Peter Weiermair
Promotori: Galleria d’Arte Moderna Bologna in collaborazione con Albertina Vienna, Neu Galerie am Landesmuseum Joanneum, Graz, Kunsthaus, Zug, Svizzera.Sede: Galleria d’Arte Moderna, Piazza Costituzione 3 - Bologna
Inaugurazione: 16 dicembre ore 19
Periodo: 17 dicembre 2004 - 27 febbraio 2005
Orari: 10 - 18 dal martedì alla domenica; chiuso il lunedì 

Il 16 dicembre alle ore 19 la Galleria d’Arte Moderna inaugurerà la mostra dedicata a Günter Brus, noto protagonista dell’Azionismo Viennese. La mostra, realizzata in collaborazione con l’Albertina di Vienna, dopo le tappe di Vienna, Graz, Zug e Bologna approderà al MACBA di Barcellona e alla Tate Modern di Londra nel corso del 2005 e del 2006.

Günter Brus (nato nel 1938) è uno di quei grandi artisti europei, attivi intorno agli anni ’60, che attraverso il superamento dei confini fra i generi e la disinvoltura nell’uso di mezzi espressivi diversi tra loro, giunge a creare delle soluzioni estetiche assolutamente innovative.

Brus esordisce  nel 1960 all’insegna della pittura Informale trasferendo l’energia fisica e psichica dal quadro al suo corpo, usandolo come se fosse una tela tradizionale e trattandolo alla stregua di materiale pittorico. Il ruolo centrale di Brus, protagonista di spicco del movimento denominato Azionismo Viennese, è testimoniato dalla sue performances al limite dell’autodistruzione, l’ultima delle quali “Zerreissprobe” del 1970 fu una delle cause per le quali Brus dovette lasciare l’Austria.

Sono questi gli anni delle famosi azioni nelle quali il corpo diviene il punto di partenza per attuare una sovversione, anche in chiave politica, dei valori dominanti. Un corpo, il suo, al quale Brus infligge ogni genere di tortura fino quasi ad arrivare al limite estremo del suicidio. Brus si dedica poi al disegno e alla pittura, raggiungendo in anni più recenti una ricca sintesi iconografica Anche in queste poesie illustrate Brus agisce in maniera aggressiva e sovversiva contro le mentalità troppo chiuse per poi immergersi in un universo fiabesco e fantastico, Brus come erede di Füssli, Redon, Schiele o Kubin. Il suo desiderio di addivenire a soluzioni sempre nuove emerge chiaramente nelle sue illustrazioni e nelle sue opere per il teatro e la letteratura.  

La retrospettiva include numerosi lavori su carta, studi per le azioni, documentazioni e film a partire dagli anni ‘50 prestate da numerose collezioni sia pubbliche che private.

UFFICIO STAMPA
Galleria d’Arte Moderna
Simona Di Giovannantonio
Tel. + 39 051 502859
Fax. + 39 051 371032
Ufficiostampagam@comune.bologna.it

http://www.italyguide.com/mostre/emiliaro/bologna/www.galleriadartemoderna.bo.it

DOVE
GALLERIA D'ARTE MODERNA
Piazza Costituzione, 3

ORGANIZZAZIONE
Galleria d'Arte Moderna Bologna in collaborazione con Albertina Vienna, Neu Galerie am Landesmuseum Joanneum, Graz, Kunsthaus, Zug, Svizzera

A CURA DI
Monika Faber e Peter Weiermair

QUANDO
DAL 17 DICEMBRE 2004 AL 27 FEBBRAIO 2005

INAUGURAZIONE
16 dicembre - ore 19.00

DESCRIZIONE
Mostra dedicata a Günter Brus, noto protagonista dell'Azionismo Viennese. La mostra, realizzata in collaborazione con l'Albertina di Vienna, dopo le tappe di Vienna, Graz, Zug e Bologna approderà al MACBA di Barcellona e alla Tate Modern di Londra nel corso del 2005 e del 2006.
Günter Brus (nato nel 1938) è uno di quei grandi artisti europei, attivi intorno agli anni '60, che attraverso il superamento dei confini fra i generi e la disinvoltura nell'uso di mezzi espressivi diversi tra loro, giunge a creare delle soluzioni estetiche assolutamente innovative.

Brus esordisce nel 1960 all'insegna della pittura Informale trasferendo l'energia fisica e psichica dal quadro al suo corpo, usandolo come se fosse una tela tradizionale e trattandolo alla stregua di materiale pittorico. Il ruolo centrale di Brus, protagonista di spicco del movimento denominato Azionismo Viennese, è testimoniato dalla sue performances al limite dell'autodistruzione, l'ultima delle quali "Zerreissprobe" del 1970 fu una delle cause per le quali Brus dovette lasciare l'Austria.

Sono questi gli anni delle famosi azioni nelle quali il corpo diviene il punto di partenza per attuare una sovversione, anche in chiave politica, dei valori dominanti. Un corpo, il suo, al quale Brus infligge ogni genere di tortura fino quasi ad arrivare al limite estremo del suicidio. Brus si dedica poi al disegno e alla pittura, raggiungendo in anni più recenti una ricca sintesi iconografica Anche in queste poesie illustrate Brus agisce in maniera aggressiva e sovversiva contro le mentalità troppo chiuse per poi immergersi in un universo fiabesco e fantastico, Brus come erede di Füssli, Redon, Schiele o Kubin. Il suo desiderio di addivenire a soluzioni sempre nuove emerge chiaramente nelle sue illustrazioni e nelle sue opere per il teatro e la letteratura.

La retrospettiva include numerosi lavori su carta, studi per le azioni, documentazioni e film a partire dagli anni '50 prestate da numerose collezioni sia pubbliche che private.

ORARIO
Da mar. a dom. dalle 10.00 alle 18.00

INGRESSO
4 euro
Ridotto: 2 euro

INFORMAZIONI
Galleria d'Arte Moderna
Tel. 051/502859 - fax 051/371032
mailto:infogam@comune.bologna.it
mailto:ufficiostampaGAM@comune.bologna.it
http://www.galleriadartemoderna.bo.it/

Vai agli "Events" del 2003 7.02.2005
Il Male. Esercizi di pittura crudele

La Palazzina di Caccia di Stupinigi di Torino è sede di un grande evento culturale, un'esposizione spettacolare e inedita.

Per diverse ragioni, si tratta di un evento unico: sono esposte 180 opere - da Beato Angelico a grandi nomi del Novecento come Balthus e Schiele fino ai contemporanei come Music e Kokocinski - che testimoniano la presenza nell'arte europea del Male in tutte le sue diverse manifestazioni: come dolore fisico, quotidiano o straordinario qual è quello dei martirii e delle uccisioni sadiche; come mistero, nelle sue manifestazioni mostruose o legate a un destino di morte; come peccato, in una religiosa prospettiva di punizione ed espiazione. Una sezione particolare è destinata al concetto del Male come tratto fisiognomico in una galleria di ritratti di personaggi malvagi, sfigurati, deformi, condannati a morte o dalla damnatio memoriae.

La mostra e il catalogo che l'accompagna individuano negli anni di Antonello da Messina il punto di partenza della rappresentazione del Male nell'uomo, quando nell'arte, al principio del Quattrocento, irrompe l'individuo con le sue debolezze: proprio sul ritratto di Antonello da Messina del Museo Mandralisca di Cefalù, come per uno sfogo irrazionale e incontrollabile, si è scaricata l'ira di un nemico misterioso che lo ha insistentemente sfregiato. A luce radente, il dipinto appare attraversato da impietosi graffi, che ne hanno lacerato la superficie. L'autore dell'aggressione è più che un vandalo: un duellante, un antagonista forse un esorcista, che vedeva in quel volto il Male. Anche nell'altro anonimo ma individuatissimo ritratto di Antonello in Palazzo Madama, a Torino, si legge la furbizia, l'inganno, l'inclinazione alla frode, che ne fanno, ancor più, un modello negativo.

Il Male dell'epoca precedente ad Antonello si manifestava ancora in uno scenario medievale, in un immaginario infernale popolato da mostri, demoni, dannati e peccatori, ma dove l'uomo reale è assente. Hieronymus Bosch e Antonello, ciascuno a suo modo, trasportano il Male nella vita quotidiana.

Tra le testimonianze di questo spirito spiccano, nel Quattrocento, dipinti di Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Beato Angelico e Taddeo di Bartolo; nel Cinquecento le opere di Tiziano, Lorenzo Lotto, Annibale e Agostino Carracci, Bartolomeo Passerotti; nel Seicento i capolavori di Caravaggio, Artemisia Gentileschi, Jusepe de Ribera, Paolini, Domenico Fetti, Bernardo Strozzi, Giuseppe Vermiglio, Tanzio da Varallo, Salvator Rosa, Mattia Preti e la straordinaria Medusa di Rubens; nel Settecento i dipinti di Ghezzi, Magnasco, Ricci, Gandolfi, Füssli, Bonomini, Fra' Galgario. Tra le opere che rappresentano il Male nell'arte dell'Ottocento emergono i capolavori di William Blake. Il Novecento, secolo di Freud, età della proiezione di incubi e sogni, era dell'interpretazione di ansie ed inquietudini, è rispecchiato in opere di grandi maestri come Wildt, Viani, Sironi, Pirandello, Bacon, Munch, Balthus ed Andy Warhol, ma anche di maestri meno conosciuti, come Baccarini, Boncinelli e Ferrazzi. Dal Novecento giungiamo ai contemporanei con Music, Ferroni, Kokocinski, Sughi, Bottoni, Schmidlin, Martinelli e Margherita Manzelli.

Per l'occhio contemporaneo, però, il concetto del Male e le sue inquietanti manifestazioni evocano altri strumenti di comunicazione che non siano solo la pittura. Una seconda parte della mostra, complementare alla sezione pittorica, si svolge presso il Museo Nazionale del Cinema della Mole Antonelliana di Torino, istituzione unica nel suo genere in Italia e tra le più importanti in Europa. Questa seconda sezione propone esempi della cinematografia legata agli stessi concetti del Male, considerando che l'immaginario popolare del Novecento è passato attraverso il cinema ancor più che sulla tela. In questa prospettiva Vittorio Sgarbi ha progettato una prosecuzione della mostra che contempla la fotografia e il fumetto, oltre al cinema, prendendo in considerazione le forme d'arte più vicine alla sensibilità e alla percezione dell'uomo contemporaneo.

La mostra vuole dunque proporsi come una grande retrospettiva sul Male, ponendoci dinnanzi, da un lato, alle eterne paure inconsce; dall'altro, alle efferatezze, alle ambiguità e alle dicotomie del nostro passato di uomini. Un intenso viaggio nella parte oscura dell'animo umano.

NOTIZIE UTILI

Il Male. Esercizi di pittura crudele
Dal 19 febbraio al 26 giugno 2005
Palazzina di Caccia di Stupinigi, Torino

 
TORINO, La nuova, spettacolare mostra di Vittorio Sgarbi alla Palazzina di Caccia di Stupinigi a Torino

La Palazzina di Caccia di Stupinigi di Torino è ancora una volta sede di un grande evento culturale, un’esposizione spettacolare e inedita, dal titolo “Il Male. Esercizi di pittura crudele”.

La mostra aprirà al pubblico il 26 febbraio 2005, promossa dalla Regione Piemonte, dal Comune di Torino e dalla Fondazione Torino Musei, ideata e curata da Vittorio Sgarbi e dal coordinatore generale Gilberto Algranti.
La produzione e la realizzazione é a cura di Tekne Associazione Culturale.

Per diverse ragioni, si tratta di un evento notevole e unico: sono esposte 180 opere - da Beato Angelico a grandi nomi del Novecento come Balthus e Schiele sino ai contemporanei come Music e Kokocinski - che testimoniano la presenza nell’arte europea del Male in tutte le sue diverse manifestazioni: come dolore fisico, quotidiano o straordinario qual è quello dei martirii e delle uccisioni sadiche; come mistero, nelle sue manifestazioni mostruose o legate a un destino di morte; come peccato, in una religiosa prospettiva di punizione ed espiazione. Una sezione particolare è destinata al concetto del Male come tratto fisiognomico in una galleria di ritratti di personaggi malvagi, sfigurati, deformi, condannati a morte o dalla damnatio memoriae.

La rappresentazione del male è sempre inquietante. Ne fanno prova i graffi sulle predelle scorticate dalle mani dei fedeli nelle chiese, che in epoche più oscure e istintive tentavano di cancellare la presenza del maligno e l’elemento demoniaco. È da questo sentimento che muove l’idea della mostra che attraverso i secoli cerca nella pittura il lato negativo e devastato dell’animo umano, le tracce esplicite o inconsce lasciate da crudeltà, sadismo, paura, invidia, vendetta, angoscia.

Dal Male come categoria religiosa legata al concetto del peccato e della punizione, dalle figurazioni medioevali che suggestionavano e impaurivano il devoto, fino alle angosce dell’uomo contemporaneo, la via percorsa è lunghissima e l’obiettivo di questa mostra è di darne una vasta rappresentazione. Il percorso si snoda attraverso le figure di demoni e mostri dell’immaginario carnale medioevale, percorre le strade delle contraddizioni dell’individuo e del senso della morte e della caducità della vita espressa nelle teste mozze delle Vanitas; racconta le efferatezze dei carnefici che strappano pelle, denti, occhi e seni a sante e martiri della fede, espone il tormento interiore del dolore psicologico.
La mostra individua negli anni di Antonello da Messina il punto di partenza della rappresentazione del Male nell’uomo, quando nell’arte, al principio del Quattrocento, irrompe l’individuo con le sue debolezze: proprio sul ritratto di Antonello da Messina del Museo Mandralisca di Cefalù, come per uno sfogo irrazionale e incontrollabile, si è scaricata l’ira di un nemico misterioso che lo ha insistentemente sfregiato. A luce radente, il dipinto appare attraversato da impietosi graffi, che ne hanno lacerato la superficie. L’autore dell’aggressione è più che un vandalo: un duellante, un antagonista forse un esorcista, che vedeva in quel volto il Male. Anche nell’altro anonimo ma individuatissimo ritratto di Antonello in Palazzo Madama, a Torino, si legge la furbizia, l’inganno, l’inclinazione alla frode, che ne fanno, ancor più, un modello negativo.

Il Male dell’epoca precedente ad Antonello si manifestava ancora in uno scenario medievale, in un immaginario infernale popolato da mostri, demoni, dannati e peccatori, ma dove l’uomo reale è assente. Hieronymus Bosch e Antonello, ciascuno a suo modo, trasportano il Male nella vita quotidiana.
L’esposizione torinese intende far affiorare i sintomi e le manifestazioni di questa atmosfera stregata e affascinante, spesso rimossa, fatta di turbamenti e peccati, in una rassegna di opere pertinenti e di straordinari capolavori. Tra le testimonianze di questo spirito spiccano, nel Quattrocento, dipinti di Giovanni Bellini, Beato Angelico e Taddeo di Bartolo; nel Cinquecento le opere di Tiziano, Lorenzo Lotto, Annibale e Agostino Carracci, Bartolomeo Passerotti; nel Seicento i capolavori di Caravaggio, Artemisia Gentileschi, Jusepe de Ribera, Pietro Paolini, Domenico Fetti, Bernardo Strozzi, Giuseppe Vermiglio, Tanzio da Varallo, Salvator Rosa, Mattia Preti e la straordinaria Medusa di Rubens; nel Settecento i dipinti di Ghezzi, Magnasco, Ricci, Gandolfi, Füssli, Bonomini, Fra’ Galgario. Tra le opere che rappresentano il Male nell’arte dell’Ottocento emergono i capolavori di William Blake. Il Novecento, secolo di Freud, età della proiezione di incubi e sogni, era dell’interpretazione di ansie ed inquietudini, è rispecchiato in opere di grandi maestri come Wildt, Viani, Sironi, Pirandello, Bacon, Munch, Balthus ed Andy Warhol, ma anche di maestri meno conosciuti, come Baccarini, Boncinelli e Ferrazzi. Dal Novecento giungiamo ai contemporanei con Music, Ferroni, Kokocinski, Sughi, Bottoni, Schmidlin, Martinelli e Margherita Manzelli.

Per l’occhio contemporaneo, però, il concetto del Male e le sue inquietanti manifestazioni evocano altri strumenti di comunicazione che non siano solo la pittura. Una seconda parte della mostra, complementare alla sezione pittorica, si svolge presso il Museo Nazionale del Cinema della Mole Antonelliana di Torino, istituzione unica nel suo genere in Italia e tra le più importanti in Europa. Questa seconda sezione propone esempi della cinematografia legata agli stessi concetti del Male, considerando che l’immaginario popolare del Novecento è passato attraverso il cinema ancor più che sulla tela. In questa prospettiva Vittorio Sgarbi ha progettato una prosecuzione della mostra che contempla la fotografia e il fumetto, oltre al cinema, prendendo in considerazione le forme d’arte più vicine alla sensibilità e alla percezione dell’uomo contemporaneo. Alleghiamo una scheda sulle tre sezioni collaterali.

La mostra vuole dunque proporsi come una grande retrospettiva sul Male, ponendoci dinnanzi, da un lato, alle eterne paure inconsce; dall’altro, alle efferatezze, alle ambiguità e alle dicotomie del nostro passato di uomini.

Un intenso viaggio nella parte oscura dell’animo umano. (D.K)

DOVE:
SPAZIO ESPOSITIVO MOSTRE
Palazzina di Caccia di Stupinigi
Piazza Principe Amedeo - 10040 Stupinigi (Torino)
Tel. 0113581220
Fax. 0113582580

La mostra è vietata ai minori di 14 anni non accompagnati da un adulto

Come arrivare alla Palazzina di Caccia di Stupinigi

In auto
Utilizzando la rete autostradale:
- tutte le autostrade che raggiungono Torino confluiscono nella tangenziale che cinge la città; percorrendo la tangenziale Torino Sud, esistono due svincoli: uscita Debouchè e uscita Stupinigi, che consentono di raggiungere Nichelino in breve tempo.

Percorrendo la rete stradale ordinaria:
- arrivando da nord:
arrivando dalla Francia ( Frejus o Montgenevre ), dalla Val Susa o da Rivoli, immettersi sulla tangenziale Sud uscita Debouchè o uscita Stupinigi.
- arrivando da sud:
percorrere la strada statale 23 (Torino-Pinerolo), Nichelino si trova a pochi chilometri da Stupinigi. È inoltre possibile raggiungere Nichelino attraverso la Statale 20 (Torino-Racconigi), arrivando a Moncalieri e seguendo le indicazioni per Nichelino. 
 
In bus
Dal territorio Nazionale e dalle località Europee gli arrivi confluiscono al BUS TERMINAL di C/so Inghilterra in Torino, da dove è possibile raggiungere Nichelino utilizzando gli Autobus ATM (servizio urbano di Torino
tel. 167-019152 - Linea 35 e Linea 39)
Bus n. 41: parte da Piazza Caio Maio.
  
In treno
Stazione delle FS "Porta Nuova" di Torino.
A Nichelino si trova la Stazione Ferroviaria della linea Torino-Pinerolo-Torre Pellice, che permette di raggiungere in breve tempo la Stazione Centrale di Porta Nuova o di Porta Susa
Servizio Taxi in Stazione. 

In aereo
Aeroporto "Città di Torino" a Caselle Torinese. Servizio Bus Terminal per Torino (Stazione FS "Porta Nuova"). Proseguire per Nichelino con gli Autobus ATM (servizio urbano di Torino - tel. 167-019152 - Linea 35 e Linea 39)
Aeroporto Malpensa. Servizio Bus Terminal per Torino (Stazione FS "Porta Nuova"). Proseguire per Nichelino con gli Autobus ATM (servizio urbano di Torino - tel. 167-019152 - Linea 35 e Linea 39).

 

1.02.2005

Sam Taylor Wood a Roma

fino al 12.III.2005
Sam Taylor Wood
Roma, Galleria Lorcan O’Neill

Sesso, morte e pochi alberi, nelle immagini di un’incantevole cattiva ragazza. Autoritratti estatici e light boxes molto espliciti, per raccontare l’eterna tensione tra Eros e Thanatos. Ovvero la lacerazione che sta tra vita e morte…

 

(fonte: Exibart)
 

martedì 1 febbraio 2005
La galleria Lorcan O’Neill, vetrina romana della swinging London, propone Sam Taylor Wood, un’altra reginetta della new wave britannica, dopo la bad girl Tracey Emin, seguendo il trend culminato nella recente personale di Damien Hirst al Museo Archeologico di Napoli.
La fotografia, tra i media più in voga in questo momento, torna a spopolare con la serie Self Portrait Suspended, esposta in una delle sale. Le stampe sono una variazione sul tema dell’identità, colta in uno scorcio intimo e rarefatto del proprio loft londinese. L’artista, vestita soltanto di lingerie danza nello spazio, apparentemente sospesa. In realtà, le corde che la tengono legata sono rimosse tramite un camouflage digitale; la fotografia, dunque, come strumento di una ricerca che sconfina dal semplice reportage, per involarsi –è proprio il caso di dire– nell’ultra-visibile.
La dimensione mistica delle scene –una specie di Transverberazione berniniana– è esaltata dall’arredo scarno dello spazio: pareti bianchissime, vetrate a giorno, pavimento in parquet. La luce sembra rapire nel suo alone il corpo della Wood, come in ascensione; nonostante lo sforzo muscolare, pare che le membra ricadano morbidamente, sfidando la forza di gravità. Ad attrarle è un’energia latente e insondabile, che trascende la sfera sensibile. Il corpo è metafora di una condizione terrena precaria e corruttibile, che l’artista ha sperimentato personalmente attraverso la malattia. Ciononostante, questi lavori mostrano come sia riuscita a sublimare il dolore in chiave onirica, attingendo all’infinito potenziale immaginifico dell’arte. Librata in un limbo intermedio tra il qui e l’altrove, è intangibile e ovattata: nulla sembra poter scalfire il suo oblio, liberatasi finalmente d’ogni peso corporeo.

Sul fronte opposto, il corpo, non più anestetizzato, riemerge in tutta la sua carnalità in The Passion Cycle: un gruppo di venticinque light-boxes, che mostrano le diverse fasi di un amplesso, similmente alle stazioni della Croce. L’analogia, apparentemente blasfema, se da un lato esalta la componente vitalistica dell’amore, dall’altro ne svela l’ineluttabile sofferenza. La sessualità è vista come veicolo di trascendenza, di totale alienazione di sé, per molti aspetti vicina alla morte. Una riflessione tanto più amara, quanto più la fotografia e la memoria tecnologica dovrebbero conservare una traccia perenne della realtà. Al contrario, per sentire, occorre lasciarsi permeare dagli stimoli esterni, immergersi nel turbine dell’esistenza, perdersi nell’altro, accettare la propria vanitas. Altrimenti, l’unico stato di grazia è quello della pura immaterialità, immune da qualsiasi ebbrezza, o tempesta emotiva.
E il dramma segreto di Sam Taylor Wood sembra consumarsi in questa eterna lacerazione: tra la passione per la vita, effimera e imprevedibile, o l’imperturbabilità della trascendenza.

maria egizia fiaschetti
mostra visitata il 24 gennaio 2005

Sam Taylor Wood – Sex and Death and a Few Trees
Galleria Lorcan O’Neill, Roma, via Orti d’Alibert 1E
dal lunedì al venerdì 12:00-20:00 – sabato 14:00-20:00
per informazioni: tel. +39 06 68892980 – fax +39 066838832
mail@lorcanoneill.com


 

31.01.2005 

JENNY SAVILLE alla Macro di Roma

fino all’1.V.2005
Jenny Saville
Roma, Macro

Ibridi di identità maschile e femminile, occhi sbarrati, volti tragicamente segnati dai ferri della chirurgia. O dalle lamiere di un auto. La pittura patologica della young british artist sposa museo e visioni allucinate. Senza clamore…

 

(fonte: Exibart)
 

lunedì 31 gennaio 2005
Per la prima personale in un museo italiano Jenny Saville espone dieci tele di grande formato, alcune delle quali realizzate per l'occasione. L'odore d'olio aggredisce l'olfatto prima che il sipario si apra sulle figure e sulle scene, emana fresco dalle pennellate pesanti, dalle lingue di colore che esumano i corpi di donne e animali. In effetti, come è stato notato, a dispetto delle misure lo spettatore sembra talvolta ritrovarsi in una galleria di quadri "osceni", la più segreta e la più raffinata, come nel cuore di una collezione seicentesca.
Sono passati quasi dieci anni da Sensation, la mostra dei Young British Artists che nel 1997 consacrò Saville e altri protagonisti del panorama odierno, alimentando al contempo una riflessione sull'estremo in arte. Oggi è possibile, qui al Macro, a Napoli e in alcune gallerie del Nord, considerare gli esiti di quell'onda violenta, svolgerne in parte le storie.
Il sentimento più diffuso nella critica, se non nel mercato, è che le cariche trasgressive sprigionate dalle creazioni di Hirst e compagni si siano dissolte in una costellazione di sapienze formali, minata ai limiti da un peccato di autoreferenzialità.

Le opere di Saville non turbano questo quadro, e anzi propongono un sicuro intreccio di effetti e motivi. Il primo dato è la fortissima volontà di pittura (anche nel senso di una personale storia dell'arte), confrontata senza timidezze con altri codici novecenteschi, in primis la performance art femminista, la body art, l'oggetto fotografato e Cindy Sherman.
I corpi obesi, le teste tumefatte e le carcasse decollate, originati da una fotografia scattata dall'artista, sono insieme il risultato di una messa in scena calcolata otticamente e un'immissione potente di materia e colore. Sono percorsi a tratti quasi autonomi, e comportano da una parte una differenziazione percettiva e interpretativa a seconda della distanza con cui si guardano le tele, dall'altra una sorprendente precarietà di esistenza delle stesse figure sanguinolente. Questo doppio registro seduce e irretisce lo sguardo, lo invita alla cruda classificazione delle speci, dove il coltello ha inciso una carne già devastata o mutata dai rituali contemporanei.
Non è solo il momento lesivo dell'integrità di un corpo o di un'identità a strutturare le narrazioni di Saville; il punto finale è una pittura descrittiva e analogica, una immaginaria ricomposizione post mortem, come se ai fini dell'arte la pittrice adottasse pratiche "neutre" di osservazione scientifica.

francesca zanza
mostra visitata il 25 gennaio 2005

Jenny Saville
a cura di Danilo Eccher
fino al 1 maggio 2005, MACRO, via Reggio Emilia 54 (Piazza Fiume), tel. 06/671070400, sito web www.comune.roma.it/macro , e-mail macro@comune.roma.it
orari d’ingresso: da martedì a domenica 9-19, festività 9-14, lunedì chiuso
biglietto € 1
Catalogo ELECTA con testi di Danilo Eccher e Bary Schwabsky, € 24 in mostra


[exibart]

 

19.01.2005 

Alla GAM ed al castello di Rivoli due rassegne dedicate a Mario Merz

(fonte: http://www.gamtorino.it/ )

 

MARIO MERZ

DAL 12-01-2005 AL 27-03-2005

GAM - Via magenta, 31
Castello di Rivoli - Museo d'arte contemporanea
Orario: ma-do 9-19

 

Curatori: Pier Giovanni Castagnoli, Ida Gianelli, Beatrice Merz

Sedi espositive:
GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea


Il Castello di Rivoli, la GAM e la Fondazione Merz dedicano un’ampia retrospettiva a Mario Merz (Milano, 1925 - 2003), una delle personalità artistiche più rilevanti dell’arte italiana e internazionale. La rassegna vuol essere un omaggio al grande artista recentemente scomparso e preannunciare l’apertura della fondazione a lui dedicata che verrà ufficialmente inaugurata nel 2005.

Mario Merz esordisce nel 1953, autodidatta, con una pittura di segno astratto-espressionista e, successivamente, con un trattamento informale del dipinto. E’ presente dalle prime mostre dell’Arte povera, tendenza di cui diventerà uno dei protagonisti. L’abbandono della pittura fa spazio all’uso dell’installazione e alla sperimentazione con materiali naturali o tecnologici come i tubi di neon luminoso, tracce di energia pura, che inserisce negli oggetti più comuni. Dal 1968 indaga su strutture archetipiche come l’igloo, che realizza nei più diversi materiali. Usa e interpreta la progressione numerica di Fibonacci come emblema dell’energia insita nella materia, collocando le cifre realizzate al neon sia sulle proprie opere sia negli ambienti espositivi, come nel 1971 lungo la spirale del Guggenheim Museum di New York, nel 1984 sulla Mole Antonelliana di Torino e nel 1990 sulla Manica Lunga del Castello di Rivoli. Dal 1976 lavora alla figura simbolica della spirale che successivamente viene associata a quella, altrettanto ricorrente, del tavolo, sulle cui superfici vengono disposti frutti che, lasciati al loro decorso naturale, introducono nell’opera la dimensione del tempo reale.

Alla fine degli anni Settanta Merz recupera la figurazione, delineando grandi immagini di animali di sapore ancestrale, “preistorici” come li definiva l’artista. Il rilievo che l’opera di Merz ha raggiunto nel corso degli anni è documentato dalle prestigiose rassegne a cui ha partecipato, quali la Biennale di Venezia e Documenta a Kassel, o che gli sono state dedicate dai più importanti musei del mondo. Fra questi ricordiamo, il Walker Art Center di Minneapolis nel 1972, la Kunsthalle di Basilea nel 1981, il Moderna Museet di Stoccolma nel 1983, il Museum of Contemporary Art di Los Angeles e il Solomon R. Guggenheim Museum di New York nel 1989, la Fundació Antoni Tàpies di Barcellona nel 1993, il Castello di Rivoli e il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 1990, la Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Trento nel 1995, la Fundação de Serralves di Porto nel 1999, il Carré d’Art di Nîmes nel 2000, la Fundación Proa di Buenos Aires nel 2002. Nel 2003 gli è stato conferito il Premium Imperiale dall’Imperatore del Giappone. Muore a Milano nel novembre 2003.

La mostra alla GAM, curata da Pier Giovanni Castagnoli, intende offrire testimonianza della vasta e sfaccettata produzione artistica di Mario Merz partendo dalle opere che hanno segnato il suo esordio quando, negli anni Cinquanta, è apparso sulla scena torinese con la sua prima mostra personale alla galleria La Bussola.
Presentando esperimenti pittorici strettamente legati agli elementi naturali (in mostra: La foglia, 1952, Albero, 1953, Foglia a spirale, 1955), Mario Merz si affaccia al panorama dell’arte con una pittura nuova e imprevedibile, che prende spunto dall’immagine naturale, disgregandone le forme, in un approdo informale con cadenze espressioniste, in cui si rintracciano influenze della pittura di artisti della generazione precedente, come Pinot Gallizio, Spazzapan e Mattia Moreni. A partire dal 1965 Merz abbandona la pittura per realizzare opere oggettuali e ambientali, nelle quali ricorre l’utilizzo del tubo al neon come elemento strutturale che trapassa le forme; inizialmente la tela (Nella strada, 1967) e poi gli oggetti (Bicchiere trapassato, 1967 e Bicchiere e bottiglia trapassati, 1968), dando vita alla feconda avventura dell’Arte Povera, testimoniata in mostra da un gruppo di opere significative del triennio 1966-1968 come Ombrello del 1967, Sitin del 1968 e Igloo - Mai alzato pietra su pietra del 1968.

Al Castello di Rivoli il percorso espositivo inizia con la grande stagione creativa della fine degli anni Sessanta contraddistinta dagli igloo. Nella mostra, curata da Ida Gianelli, vengono presentati tra gli altri, Igloo di Giap, 1968; Igloo con albero, 1969; Objet cache-toi, 1968; Igloo nero, 1967-79; (Igloo) Tenda di Gheddafi, 1968-81. L'igloo è una forma archetipica nata dallo sviluppo in tre dimensioni di una spirale, forma in cui Merz riconosce l’energia "strutturale" della natura e attraverso cui crea uno "spazio esterno" che è "misura di uno spazio interno” (Mario Merz, Mazzotta, Milano, 1983) e che replica la forma del mondo a cui appartiene. Degli anni Settanta vengono presentate le installazioni che vedono la comparsa degli animali “preistorici” come Iguana del 1971 o l’utilizzo di materiali che vanno a formare strutture complesse a spirale realizzate con tubolari in ferro, cristallo, pietre, neon, fascine, ortaggi, frutta, giornali come in Tavolo a spirale in tubolare di ferro per festino di giornali datati il giorno del festino, 1976. Saranno inoltre presenti opere che testimoniano, sul finire degli anni Settanta, il rinato interesse da parte dell’artista per la pittura e la figurazione, alla base delle complesse installazioni degli anni Ottanta e Novanta. In queste opere compaiono animali primordiali come coccodrilli, zebre, tigri o chiocciole (replica dell'interesse per la forma a spirale e l'avvolgersi del tempo su se stesso) che divengono il soggetto di tele e installazioni che tendono a coinvolgere in modo sempre più vasto e potente lo spazio espositivo.


Per informazioni sulla Fondazione Merz:
tel. 011.4358519, e-mail: info@fondazionemerz.org

Ingresso:  € 7.50 intero; € 4.00 ridotto
Informazioni: Informazioni per il pubblico Castello di Rivoli: 011 9565280
Informazioni per il pubblico GAM: 011 4429518

 

18.01.2005 
Napoli nel segno di Anna Maria Ortese
(fonte: Liberazione)
Ha debuttato al Mercadante "L'opera segreta" di Mario Martone: un trittico omaggio
a Caravaggio, a Leopardi e alla scrittrice. Ipertesto di echi rimandi e intrecci con Enzo Moscato
Quando nel 1953 Anna Maria Ortese pubblica Il mare non bagna Napoli (ed. Adelphi) la si accusa di tradimento. Di aver rotto, inopportunamente, con l'immagine di rinascita che si voleva dare della città. Ortese con la sua "lente scura", titolo della raccolta di racconti postuma di recente pubblicata sempre da Adelphi, scova il malessere, lo racconta con quel distacco amoroso che caratterizza i suoi scritti di viaggio, le sue storie di realtà vissuta. A Napoli ci arriva da Roma e la guarda senza pregiudizi, né ideologie. Ne raccolta volti, odori, puzze, personaggi, miserie con una lingua che non è più neorealismo: è scrittura dura di chi guarda il mondo con sofferenza. Da eterna straniera.

Non è un caso se un intellettuale come Mario Martone abbia deciso di fare della scrittura di Ortese, della sua visione del mondo, il cuore del suo nuovo spettacolo, L'opera segreta, che ha debuttato martedì al teatro Mercadante dove verrà replicato fino al 16 gennaio. Un trittico (prodotto dallo stesso Stabile) composto da "Caravaggio, l'ultimo tempo", "La città involontaria", "'A ginestra 'e pontone", omaggio ad altrettanti personaggi che a Napoli hanno guardato con passione e spavento: Michelangelo Merisi, la scrittrice de Il Cardillo addolorato, il filosofo oltre che poeta Giacomo Leopardi.

I rimandi però non finiscono qui. L'opera segreta è un ipertesto, complesso. Lo spettacolo inizia con un film. Il palcoscenico si apre a un altro spazio doppio, dove cinema e pittura si incontrano. Martone racconta i giorni di Caravaggio a Napoli prima di morire. Accosta i volti delle sue opere, esposte nella bellissima mostra in corso al museo Capodimonte, ai volti di oggi. Quelli dei bassi, dei vicoli, quelli disperati, antichi. Volti pasoliniani, sospesi tra il presente e un passato che a Napoli vive nel sottosuolo. Sparisce, riemerge. Un gorgo nero, lo chiama Martone, che non può essere immediatamente ricondotto alla cronaca. Alla politica. Non cerca e non vuole ricette immediate. Non si tratta di convenzione, di reazione. E' il contrario. E' guardare oltre l'ideologia, per aprire, scavare. Quei volti, quelle opere, portano direttamente al gorgo nero. Lo fanno toccare, respirare. Sono un documento raffinato di una geografia umana che la tv ignora o riduce a folklore, il cinema conosce poco a parte rari casi (tentate di vedere il bellissimo Vento di terra di Vincenzo Marra, capirete di che cosa parliamo). Martone con questo film porta a termine (o meglio, continua) il suo progetto su "Petrolio" di Pasolini che l'anno scorso aveva prodotto sempre il Mercadante, coinvolgendo numerose compagnie napoletane e non.

Finisce il film, ma la luce non si accende. Buio. Sono le ombre, i fantasmi, i cardilli di Anna Maria Ortese che iniziano a muoversi. Il testo ispirato al racconto "La città involontaria" (da Il mare non bagna Napoli) è stato riscritto da Enzo Moscato, in scena per qualche minuto per poi tornare nel monologo finale "'A ginestra 'e pontone", tratto dal suo spettacolo culto Partitura.

Il buio è trafitto solo dalla luce di un fiammifero. In scena c'è Ortese (Giovanna Giuliani). E' arrivata ai Granai, alla periferia della città. Sta cercando Antonia Lo Savio, una donna del popolo che la guida, sua "Virgilio", tra miserie, dolori, speranze. Scrive sul taccuino. Annota. Guarda. Non dimentica. La scena si popola a poco a poco di personaggi e di immagini. Martone affida le parti principali ad attori di forte tradizione napoletana. Antonia Lo Savio è Angela Pagano, c'è anche un nome noto come Gianfelice Imparato. Bravi. Ma non adatti a dare conto della scrittura distaccata de Il mare non bagna Napoli. Troppo connotati. Poco adatti a rendere una scrittura così trattenuta, di chi si sente sempre e ovunque estranea. E' una scrittura che aderisce alle cose, le tocca e le fa toccare, ma proprio perché immediata, diretta.

Il Trittico si chiude con Moscato. Si aggira recitando Leopardi, non trova pace se non nel ritmo della recitazione. La scena è nuda. Si vedono le travi. Le mura, le scale e le porte. Si vede un teatro che si mette in gioco. Come tutta la città. Napoli sta vivendo una vivacità artistica e intellettuale che va dall'arte al cinema, arrivando al palcoscenico. L'opera segreta di Martone, la sua costruzione frammentaria e ipertestuale, fanno parte di questo clima di echi, rimandi, di ritmi e versi dove la rima non sempre riesce. Ma per questo forse è ancora più interessante stare a sentire, a guardare, a partecipare.

Angela Azzaro

 

17.01.2005

dal 10 al 28 gennaio 2005 
IL CERCHIO INCANTATO
di Roberto Trifirò
da “Il monaco nero” di Anton Čechov
con (in ordine alfabetico):
Sonia Bonacina, Francesca Debri, Virna Hireche,
Franco Sangermano, Roberto Trifirò
regia Roberto Trifirò

LO SPETTACOLO
Attraverso un misterioso processo di trasformismo drammaturgico, quasi fosse anziché scrittore, un prestigiatore di parole, Čechov, da una delle sue opere teatrali che ebbe, con suo grande dispiacere, meno successo, il “Lescij”, trasse ispirazione per arrivare alla stesura definitiva di un altro capolavoro: “Zio Vanja”. Confrontando i due testi ci si può rendere conto della particolarità del suo processo creativo, di come da un testo con pregi e difetti, lo stesso autore riesca ad eliminare i difetti o a tramutarli in pregi, lasciandone i pregi trasfigurati…Di questa originale capacità elaborativa forse il primo ad esserne sorpreso fu lo stesso Čechov, che di fronte al grande successo di “Zio Vanja” rimase sempre un po’ perplesso, quasi incredulo…

Questo singolare accadimento è stato un insolito stimolo per cominciare a scrivere un testo teatrale intitolato “Il cerchio incantato”, liberamente tratto da alcuni racconti di Čechov, in particolare “Il monaco nero”, dove l’autore russo descrive un caso di sdoppiamento della personalità: il professor Kovrin trova una ragione di vita solo nei colloqui con un personaggio frutto della sua immaginazione, che assume le sembianze di un “monaco nero”. Sono dialoghi ardenti sulla vita e l’immortalità dell’anima, sulla verità e il valore della conoscenza in cui Kovrin, pur consapevole del fatto che il monaco nero non è che il prodotto della propria immaginazione, trova una serenità e una felicità che gli restituiscono la voglia di vivere e gli danno fiducia nel proprio lavoro e nelle proprie ricerche.

Quando il suo tutore, Egor Semënyč, e sua figlia Tanja, animati dalle migliori intenzioni, lo spingono a curarsi dalla sua pazzia, egli piomba, dopo un iniziale torpore, in uno stato di estrema infelicità. “Avevo delle allucinazioni, ma a chi davo fastidio?”. La rivolta di Kovrin è una ribellione contro la normalità, intesa come moderazione e convenzionalità: essa uccide qualsiasi ispirazione, sopprime il genio favorendo l’ottusità, impedisce di essere se stessi e porta alla rovina la civiltà. “Se Maometto avesse preso dei tranquillanti e avesse lavorato soltanto due ore al giorno e avesse bevuto del latte, di questo grand’uomo sarebbe rimasto tanto poco quanto del suo cane”.

La struttura portante del racconto è stato il punto di riferimento dal quale ho sviluppato o inventato situazioni e personaggi, collocandoli in un tempo presente. Forse la novità principale, oltre alla creazione di un nuovo personaggio, la giovane e ambigua cameriera francese di origine armena Marussia, con la quale Kovrin cercherà invano di costruire una “nuova vita”, sono gli incontri e i dialoghi con il monaco nero (qui un’enigmatica figura metà uomo metà donna con un nome bizzarro: Tararabumbi-ja) che risultano pervasi da un’insinuante malizia sessuale e che forse propongono all’inconscio di Kovrin la scoperta di un alter ego al femminile…

Un altro elemento di novità è la sua preveggente consapevolezza che durante e dopo la “cura” tutto, anche la sincera partecipazione delle persone al lui più vicine, Egor Semënyč e la figlia Tanja, concorrerà a un unico fine, la sua rovina.
“Sono pochi gli uomini che alla fine della loro vita non provano quel che io provo adesso. Quando ti dicono che hai qualche cosa come i reni cattivi o l’ipertrofia di cuore e tu cominci a curarti, oppure quando ti dicono che sei un pazzo o un criminale, vale a dire, in una parola, quando la gente tutt’a un tratto rivolge la sua attenzione su di te, sappi che allora sei caduto in un cerchio incantato dal quale non uscirai più. E più ti sforzerai per uscirne e più ti ci perderai. Bisogna rassegnarsi perché non ci sono più sforzi umani che ti possano salvare. Così almeno sembra a me.”

Di lì a due anni la sua salute peggiorerà irrimediabilmente, e negli ultimi istanti della sua vita, dopo uno sbocco di sangue causato dalla tubercolosi, Kovrin rivedrà per l’ultima volta la sua allucinazione, che con un sorriso gli sussurrerà: “Tu sei un genio, stai morendo solo perché il tuo fragile corpo umano ha perduto il suo equilibrio, e non basta più a contenere il tuo genio…”
E dall’espressione di Kovrin morto traspare “un sorriso di beatitudine che irrigidisce il suo volto”.

Roberto Trifirò

 

 

       

 Responsabile editoriale: Giuseppe Leo

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