EVENTS 2005
Le mostre,
gli eventi teatrali, gli 'happenings'.... e tanto altro
ancora.
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"Events" del secondo semestre 2004 |
14.05.2005
Oggi Jan Fabre
, che
in questi giorni è giunto a Udine, incontrerà pubblicamente
coloro che amano la sua eclettica opera di artista al Teatro
Nuovo Giovanni da Udine, alle ore 12 (ingresso libero).
13,
14 maggio 2005 ore 21
Udine,
Teatro Nuovo Giovanni da Udine
JE
SUIS SANG
- prima nazionale
testo,
regia, scenografia, coreografia Jan Fabre
attori,
danzatori, musicisti Linda Adami, Tawny Andersen, Vincente
Arlandis, Dimitri Brusselmans, Katrien Bruyneel, Annabelle
Chambon, Cédric Charron, Sebastien Cneude, Anny Czupper, Stijn
Dickel, Barbara De
Coninck, Olivier Dubois, Els Deceukelier, Ivana Jozic, Marina
Kaptijn, Guillaume Marie, Dirk Roofthooft, Maria
Stamenkovic-Herranz, Geert Vaes, Helmut Van den
Meersschaut
disegno
luci Jan Dekeyser, Jan Fabre / costumi Daphne Kitschen, Jan
Fabre
produzione
Troubleyn / Jan Fabre ( Antwerp
/ Belgium )
Lo
spettacolo è consigliato ad un pubblico adulto.
Debutto
nazionale venerdì 13 e
sabato 14 maggio, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine (inizio
ore 21) – per Je suis
sang, seconda tappa dell’omaggio a Jan Fabre, una
trilogia di opere delle più recente produzione del multiforme
e prolifico artista fiammingo, che ha unito a livello
progettuale CSS
Teatro stabile di
innovazione del FVG e Fondazione Teatro Nuovo Giovanni da
Udine, con la collaborazione di Fondazione CRUP e
illycaffé.
Composto
da Jan Fabre per il prestigioso contesto della Corte d’Onore
del Festival di Avignone, Je suis
sang declina in forma imponente l’acceso
interesse di Jan Fabre per il corpo umano,
concentrandosi su uno dei suoi liquidi essenziali, il sangue.
Je
suis sang (sottotitolo: una fiaba medioevale)
si sviluppa attorno all’idea che per gli esseri umani molto
poco è cambiato dai “tempi bui” del Medioevo. Secondo Fabre,
per l’uomo non si può parlare di una reale evoluzione perché,
nei suoi istinti e impulsi, egli ancora oggi continua a farsi
dominare dall’aggressività (dimostrandosi così non molto
diverso dagli animali) e da una sistematica sete di sangue
(cosa che invece lo discosta profondamente da loro). Il tema
centrale di tutta la piéce è che, a discapito dello sviluppo
che ha subito la coscienza, l’evoluzione razionale e
scientifica, la globalizzazione, non si è ancora affermata una
nuova immagine mentale e fisica dell’uomo. Ecco perché
c’è ancora una volta il corpo, con le sue pulsioni,
fissazioni, gioie e sofferenze, al centro di uno spettacolo di
Jan Fabre. Diciannove attori, danzatori e musicisti mettono in
scena una grandiosa storia umana raccontata in una sequenza di
tableaux viventi, ora estatici ora lirici ora estremi,
attraverso passato, presente e futuro. Assieme,
come in un mantra misterioso, i protagonisti di Je suis sang fanno
risuonare la bruciante voce del corpo come fonte di stimoli e
di tabù sociali, naturalmente legati al sangue: ferite,
mestruazioni, stigmate. Perché l’uomo è votato
alla religione del proprio sangue, l’unico fluido capace di
purificarsi da solo e, privo finalmente del peso della carne e
delle ossa, aspirare a diventare l’essere del futuro: un corpo
fatto soltanto di sangue. per
ulteriori informazioni sul PROGETTO JAN
FABRE www.cssudine.it/janfabre.htm
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13.05.2005
E'
uscito il libro di Alda Merini "Sono nata il ventuno a
primavera" (Manni editore, Lecce).
Dalla
recensione di Ignazio Minerva su "La Repubblica- Bari"
del 12.05.2005:
<<La
casa di Alda Merini è come la sua poesia: "vive di accumulo,
aggiungendo immagine ad immagine, oggetto ad oggetto, con una
semplicità ed una innocenza che riscattano e sublimano
qualunque esperienza come qualunque disordine". Parole
dell'editore Pietro Manni (...). Dalle conversazioni Manni ha
tratto questa biografia intellettuale "Sono nata il ventuno a
primavera" arricchita da poesie e citazioni. Nella prima parte
del libro la Merini ricorda i suoi genitori, gli anni felici
dell'infanzia e la vocazione a una maternità speciale, "non
una madre che spolvera, che sta attenta che il bambino non
sporchi, non si faccia una macchia" ma una "madre morale,
mentale, custode dei figli". Racconta l'incontro con
Manganelli, quando avrebbe voluto scrivere per Einaudi
"Albergo a ore", alludendo "agli innumerevoli alberghi che
abbiamo visitato nelle nostre perdute scorribande amorose.
(...) Albergo a ore viene pure definito l'ospedale
psichiatrico, dal quale entrare nei momenti di crisi e uscire.
"Il manicomio - scrive la Merini - è una grande cassa/ con
atmosfere di suono/ e il delirio diventa specie,/ l'anonimità
misura,/ il manicomio è il monte Sinai/ luogo maledetto/ sopra
cui tu ricevi/ le tavole di una legge/ agli uomini
sconosciuta". Nella seconda sezione(E' stanco, il poeta)
Alda Merini parla della poesia, che in fondo, dice,
serve solo ai poeti che sono portatori di un magma che
diventerà aria, speranza per gli altri. L'ultima parte
raccoglie poesie inedite, come quella riportata in copertina"
Nuvole di pianto/ sono le mie parole/ un brivido di canto/ il
silenzio del tuo respiro".
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12.05.2005
Comunicato Stampa Vicenza, 5 maggio 2005
Il teatro del Lemming di Rovigo
presenta “Huis Clos “ (A porte chiuse) di
Sartre.
L’evento è promosso da SconfinaMenti, associazione
interdisciplinare di psichiatri e psicologi vicentini PORTE
APERTE A “PORTE CHIUSE” A Vicenza per la prima volta l’ex
ospedale psichiatrico si apre ad un evento esterno.
L’iniziativa che si terrà il 28 e 29 maggio comprende “La
scena degli addii, morte e separazione nel teatro del vivere”,
un convegno sulla morte e separazione con letture originali:
psicanalitica, sociologica, teatrale, fino all’elaborazione
del lutto nella produzione artistica di Munch. Un convegno su
un tema per molti aspetti ancora e sempre tabù: la morte, la
separazione e l’elaborazione del lutto. Una rappresentazione
teatrale per pochi spettatori nell’ex ospedale psichiatrico di
Vicenza, un convento millenario, oggi sede di strutture
riabilitative e residenziali per pazienti psichiatrici.
Un’associazione dal nome evocativo di “SconfinaMenti”,
costituita recentemente da un gruppo di psichiatri e psicologi
vicentini, non poteva che rompere i confini, cercare punti di
incontro (e di rottura) con altre discipline e linguaggi. Il
doppio evento, che si terrà a Vicenza il 28 e 29 maggio, mira
a lanciare suggestioni (e provocazioni) alla città e non solo,
agli addetti ai lavori, ma anche a chiunque si incuriosisca di
fronte alla trattazione di tematiche importanti con chiavi di
lettura nuove. Il Convegno “La scena degli addii: morte e
separazione del teatro del vivere” (Palazzo del Monte, Contrà
del Monte 13 a Vicenza) tratterà gli argomenti in chiave
clinica con aperture sociologiche e una non celata
predilezione per un approccio psicanalitico - ma anche
sociologico e antropologico - fino a quella forma particolare
di elaborazione del lutto che è la produzione artistica nelle
sue diverse forme (una delle relazioni analizzerà il percorso
di Edvard Munch). Le sera seguente, alcuni spazi dell’ex
ospedale psichiatrico, ospiteranno la compagnia Teatro del
Lemming di Rovigo in una presentazione “studio” del testo
teatrale di Jean Paul Sarte “Huis Clos” (A Porte Chiuse),
movimento della trilogia Inferno che comprende una ricerca
sulla caduta e rinascita dell’essere umano attraverso percorsi
teatrali contemporanei. La messa in scena, secondo lo stile
dell’importante gruppo teatrale veneto, sarà rivolta a un
piccolo pubblico di trenta persone coinvolte nella
rappresentazione. I locali utilizzati saranno quelli vissuti
quotidianamente dagli ospiti del Centro Diurno riabilitativo
del Dipartimento di Salute Mentale, in particolare un
attivissimo laboratorio di lavorazione della ceramica e quello
adiacente di legatoria. “Lo spazio vicentino è ricco di
significato – afferma Sandro Quadrelli del Teatro del Lemming
- ci piace stravolgere le regole del gioco, trasformare gli
spazi, anche quelli tradizionali, facendo risaltare il luogo
insieme alla rappresentazione che vi si svolge”. “Una delle
idee forti della associazione che abbiamo recentemente fondato
a Vicenza, e che riunisce psichiatri, psicologi e altre
persone interessate – spiega la dott.ssa Consolaro,
psichiatra, presidente dell’associazione Sconfinamenti - è
quella di un’azione culturale, ma anche sociale, che possa
contribuire a combattere gli stigmi, cioè tutte quelle forme
di pregiudizio e di esclusione, che riguardano le persone che
soffrono di disturbi psichici, una categoria di malati spesso
tenuta ai margini della vita sociale, per paura o ignoranza.
Nella malattia psichiatrica questa paura è ancora molto
presente e di recente i Ministri della Salute della comunità
europea hanno inserito i progetti per la Salute Mentale e la
lotta alla stigmatizzazione dei malati psichiatrici come uno
dei principali obiettivi di salute pubblica dell’Unione. Nel
nostro territorio – prosegue la psichiatra vicentina - ci
piacerebbe che, anche secondo quanto stabilito nei Progetti
Obiettivo per la Salute Mentale, in pratica i programmi
attuativi della legge 180, gli ex luoghi di cura non fossero
più vissuti come ghetti, posti dove custodire le persone e
isolarle dal mondo esterno, ma che la città vi entrasse, che
convivesse senza paure con le poche persone, molte ormai
anziane, che ancora vi sono ospitate e che ora vi abitano a
tutti gli effetti. Non a caso non si parla più di reparti
ospedalieri, ma di Comunità Alloggio e gruppi appartamento.
Sarebbe bello pensare che un domani, in questi magnifici
spazi, potessero tranquillamente rientrare forme normali di
vita civica, fruibili da tutta la popolazione, come ad esempio
un parco pubblico”. Per informazioni e iscrizioni al convegno:
C.R.J.V., via Ezzelino Balbo 2, 35141, PADOVA,
info@jung-veneto.it - tel. 049.8726148, fax 049.8728448;
Associazione SconfinaMenti, tel.0444.322090, e.mail:
sconfinamenti@katamail.com Per prenotazione posti per la
rappresentazione teatrale che si svolgerà il giorno 29 maggio
in tre repliche alle ore 19, 20.30 e 22, telefonare allo
0425.422465; e.mail: infolemming@teatrodellemming.com Contatti
stampa: Isabella Sala 339.74968982 - e.mail: is.sala@libero.it
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9.05.2005
Riceviamo da Sabrina Bisceglia la
seguente segnalazione cinematografica:
Ufficio
stampa on line Cultur-e
Sabrina
Bisceglia
Tel.
06 – 44162330
Myself@cultur-e.it
DAL 6 MAGGIO NELLE SALE, “TU DEVI ESSERE IL
LUPO”
E’
in uscita il primo lungometraggio di Vittorio Moroni, “Tu devi
essere il Lupo”.
La
pellicola, che ha partecipato ai festival di Annecy,
Villerupt, Ajaccio e Lecce, è stata finanziata dal
Dipartimento per lo Spettacolo del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali. Benché sponsorizzata con soldi pubblici, è
stata tagliata fuori dalla grande distribuzione nazionale, ma
grazie alla perseveranza dei suoi autori, dal 6 Maggio sarà
nelle sale di Milano, Roma, Firenze, Lecce, Padova, Sondrio,
Torino e Morbegno (SO).
“Per
noi questo progetto - raccontano gli autori del film -
rappresenta troppo in termini di amore e impegno perché
possiamo accontentarci di tenerlo in un cassetto e lamentarci
della situazione generale. Così abbiamo deciso di fondare
l’associazione culturale MYSELF”.
Grazie
a coloro che hanno creduto nel progetto, la Myself ha
raggiunto la cifra di 50.000 Euro - il minimo indispensabile
per le spese di lancio - e si è associata alla PABLO
distribuzione di Gianluca Arcopinto.
La
storia racconta di Valentina, quindici anni, piena di paure,
dubbi e interrogativi.
Non
ha più la madre e la sua vita ruota interamente attorno alla
figura paterna, Carlo, un tassista con la passione per la
fotografia. L’equilibrio di questa relazione padre-figlia
vacilla e sembra crollare quando Carlo è costretto a fare
delle scelte che fanno crescere sempre di più nella figlia
l’immensa paura di restare sola.
Una
donna si riaffaccia nelle loro vite, chiedendo loro di
riaprire antiche ferite, rimettendo in discussione il loro
fragile mondo…
Tu
devi essere il lupo è la storia del rapporto tra un padre
e una figlia, sconvolto dal ritorno della madre dopo anni di
assenza,
una
storia di relazioni familiari fragili, di rapporti complessi
alla ricerca di un equilibrio difficile da raggiungere e
conservare.
Cultur-e
è tra i sostenitori attivi dell’iniziativa.
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8.05.2005 BOLTANSKI A MILANO
(fonte: Artplus)
CHRISTIAN BOLTANSKI AL PAC
(MILANO)
Dopo "Fitting Spaces / Spazi atti - 7 artisti
italiani alle prese con la trasformazione dei luoghi",
per il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano è ora la
volta di Christian Boltanski. L’artista francese nato a
Parigi nel 1944 e riconosciuto oggi come uno dei più grandi
artisti contemporanei, ritorna in Italia con una mostra
dedicata alla dimensione temporale, al trascorrere del tempo e
alla sua percezione. L’evento in programma allo spazio
espositivo milanese dal 18 marzo a1 12 giugno sarà curato da
Jean-Hubert Martin.
Le opere che saranno presenti al
PAC, tutte di recente produzione, sono state costruite per
permettere al visitatore di entrare in contatto con la
personale elaborazione estetica del concetto di tempo
elaborata da Boltanski durante tutta la sua attività
artistica: non sviluppo storico, ma fragile e instabile
passaggio, fine inesorabile e scorrere decadente. Il
linguaggio artistico di Boltanski è concettuale, come è
concettuale l’arte funeraria di molte culture: un sistema di
semplici segni e di suoni ripetitivi per dare forma
all’inarrestabile flusso del tempo e quindi all’improrogabile
appuntamento con la morte. Gli oggetti che Boltanski impiega
nelle sue installazioni sono trattati come marionette, non
sono usati per se stessi, per la loro forma o per ciò che
rappresentano, ma piuttosto per la loro arcana capacità di
evocare e richiamare alla mente avvenimenti passati,
strappandoli così all’oblio, alla dimenticanza. Opere che
si focalizzano sull’ultimo grande dubbio dell’uomo, che
sprofondano nella paura della fine, sempre minacciosa
all’orizzonte. E’ la sensazione del passaggio, della
precarietà effimera dell’esistenza, è la domanda insoluta sul
senso della nostra presenza.
La mostra milanese
affronta quindi due temi fondamentali per tutto il genere
umano: il trascorrere del tempo ed il tema della scomparsa. Il
tempo sarà percepibile con forza e crudezza in diversi modi,
da un’interminabile voce sintetizzata che segnalerà
costantemente l’orario alle immagini fotografiche del volto di
Boltanski nelle diverse tappe della sua vita, da un video che
proporrà ad alta velocità consequenziale i fatti accaduti ogni
6 settembre, giorno di nascita dell’artista, con possibilità
però di selezionarne uno da analizzare, da ricordare. I suoi
lavori tendono essenzialmente ad evocare il passato,
evidenziandone le tracce e l’azione sacralizzante. Il tema
della scomparsa, della morte, verrà evocato invece non solo da
fotografie, ma anche dall’inequivocabile e lapidaria opera TOT
(“morto” in tedesco) scritta a parete con l’impiego di
lampadine luminose. Il tempo – che siano pochi giorni o una
vita intera - avvalora l’intento di documentare la realtà
quale essa sia, comune, quotidiana, ripetitiva, assumendo il
sapore della Memoria. Una mostra di grande impatto, una sorta
di "memento mori" dove la verità apparente delle cose fatta di
istantaneità e transitorietà si ribalterà nel suo opposto
complementare e immergerà i visitatori nell’implacabile fluire
del tempo. Un trascorrere leggibile però solo attraverso la
lente soggettiva del Ricordo.
In occasione della
personale, si terranno inoltre la rassegna PACinConcerto, con
un programma di appuntamenti fra arte e musica contemporanea,
e Appuntamenti contemporanei, conferenze e letture legate alle
tematiche della mostra.
Sede: Padiglione d'Arte Contemporanea, Via Palestro 14 -
20121 Milano Tel 02 76009085 fax 02 783330 –
www.pac-milano.org Orari: 9.30 – 17.30 da martedì a sabato
- giovedì 9.30 - 21.00 – domenica 9.30 - 19.30 – chiuso il
lunedì e il 1° maggio
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15.03.2005
E' uscito per Einaudi "Daimon" ,
opera-rivelazione di Patrizia Bisi.
(dalla
scheda di presentazione del libro a cura dell'Ufficio Stampa
Einaudi)
Una narrazione originale, coinvolgente, di
straordinaria forza emotiva. Dove l'elemento fantastico
scivola nella dimensione reale fino a rendere sempre più
sottile il confine fra realtà e illusione, tra normalità e
follia.
Supercoralli pp. 168 €
15,00
Diletta ha tre anni. All'asilo si distingue nel lancio
di coltelli in sala mensa, ma seduta sulle gambe di suo padre
suona il piano come un angelo. Diletta ha otto anni. La sua
mente è popolata di fantasmi, e la musica sotto le sue mani
prende toni diabolici, selvaggi. Diletta ha tredici anni.
Suona deviando da ogni partitura, l'ombra di un demone
ballerino la dirige. Invece che al Conservatorio, entra in un
istituto psichiatrico. Diletta a ventun anni parte da sola per
New York. È cresciuta senza mai guarire da quella strana
malattia che si chiama anima. Perché crescere, a tutte le età,
significa imparare ad ascoltare la propria musica
interiore.
«Tutto è cominciato la notte in cui un tifone ha
spezzato un palo della luce, oscurando il quartiere intorno
all'ospedale dove mia madre stava partorendo. A Milano, il 24
gennaio, ventuno anni fa. Un parto difficile, lungo e
doloroso, per mia madre il primo e l'ultimo della sua
carriera».
Diletta è figlia del Maestro Enrico Lanzetti
e di Elizabeth O'Leary. Non è normale, dice sua madre. Suo
padre dice che è una bambina eccezionale, «speciale, ha detto
ancora per un po', e poi sulla mia specialità si è steso un
velo». Agli occhi di tutti è una piccola furia che sta
asserragliata in camera scagliando gli oggetti in una
personalissima guerra di liberazione. Che non parla e non
ascolta ma suona il piano, i tavoli, i bicchieri. Che usa le
posate come armi e chiacchiera con un nano invisibile. La
verità è che Diletta è una creatura spaventata, che sente
troppo e che nessuno sta a sentire. Colleziona incidenti. E
dottori, farmaci, istituti per la rieducazione dei bambini
difficili, tutte le forme di costrizione che gli adulti
esercitano su quello che non riescono a capire. E nel suo
mondo personale, un universo fantastico che si anima nella sua
mente, sperimenta un percorso dove la «diversità» e la
fantasia sono un modo per attraversare la paura, la violenza,
la solitudine, la morte.
Le ci vorrà del tempo per
capire che non si può guarire da se stessi. Partire da sola
per New York, a ventun anni, senza un soldo in tasca, sarà per
lei un salto nel buio non diverso dagli altri. Per ritrovare
la sua musica, e il coraggio di dire a chi vorrebbe riportarla
nel suo piccolo inferno protetto: «Se questo è amore, io ci
sputo sopra». Una narrazione originale, coinvolgente, di
straordinaria forza emotiva. Dove l'elemento fantastico
scivola nella dimensione reale fino a rendere sempre più
sottile il confine fra realtà e illusione, tra normalità e
follia.
Patrizia Bisi è nata a Roma e vive tra
l'Italia, gli Stati Uniti e il Nepal. Matematica,
editrice, ha lavorato a Boston presso il «Program in
Writing and Humanistic Studies» del Mit. Ha pubblicato
il suo primo libro firmandolo con un
eteronimo. |
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10.03.2005
Jenny Saville
(fonte: Electa Ufficio Stampa)
E’ la prima mostra che un Museo italiano dedica all’artista
34enne inglese. Giovane promessa della Young British School,
erede della figurazione del secondo Novecento, vicino alle
esperienze di Lucien Freud e Francis Bacon, Saville conquista
da subito il consenso del pubblico e della critica,
raggiungendo quotazioni vertiginose alle ultime aste, con una
poetica concentrata su tematiche tipicamente femminili, che
l’artista approfondisce anche attraverso la lettura di testi
legati al movimento femminista.
Le Sale Panorama del MACRO ospitano una selezione di circa
venti lavori che sottolineano la sua indagine sul corpo umano
e le varie manipolazioni che questo può subire, per esempio
attraverso la chirurgia plastica. Per la mostra, curata da
Danilo Eccher, Jenny Saville ha realizzato in esclusiva dieci
disegni e sei nuovi dipinti a olio che rappresentano carcasse
di animali, volti e corpi di donne che si sono sottoposte o
dovranno sottoporsi a chirurgia estetica.
Nata a Cambridge nel 1970, si diploma nel 1992 presso la
Glasgow School of Art. Vive e lavora tra Londra e
Palermo. La sua prima mostra fu interamente comprata dalla
Galleria Saatchi di Londra ed ottenne un successo
strepitoso. Ottiene diversi premi internazionali e
partecipa a diverse collettive e personali, tra cui ricordiamo
British Institute Prize for Painting alla Royal Academy,
Londra 1991, “Sensation: Young British Artists from the
Saatchi Collection”, Londra 1997; “Territories” presso la
Gagosian Gallery, New York 1999; “The Nude in Contemporary
Art”, presso The Aldridge Museum of Art, Connecticut, 1999;
“Ant Noises 2” Saatchi Gallery, Londra 2000, “Disparities and
Deformations. Our Grotesque” presso la Quinta Biennale
Internazionale di SantaFè, New Mexico, 2004.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo bilingue
italiano-inglese edito da Electa, che contiene, una ricca
selezione di immagini delle opere dell’artista.
scheda informativa
direttore: Danilo Eccher mostre: “Nunzio” e “Jenny
Saville”, a cura di Danilo Eccher. sede: MACRO, Via Reggio
Emilia 54 – 00198, Roma durata mostre: 21 gennaio 2005 – 1
maggio 2005 orario del MACRO: da martedì a domenica 9.00 –
19.00; festività 9.00 - 14.00; (lunedì chiuso) biglietto: 1
Euro (iniziativa valida fino al 30 settembre 2006). Gratuito
sotto i 18 e oltre i 65 anni.
info: 06-6710 70400 – Fax: 06-8554090 - macro@comune.roma.it - http://www.macro.roma.museum/
servizi didattici: Dipartimento Didattica – tel. 06
6710 70423/25
servizi al pubblico: bookshop, caffetteria,
mediateca, videoteca, postazioni multimediali
Referente del Macro per la stampa: Laura Larcan:
tel. +39 06 6710 70415 – 338 34 71 731 macro@comune.roma.it
Ufficio stampa ELECTA: Ilaria Maggi: tel:
02-21563250 imaggi@mondadori.it
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9.03.2005
(fonte: http://redazione.romaone.it/
)
Edvard Munch, al Vittoriano l'angoscia di
un'epoca
Una vasta antologica presenta gli
inquieti capolavori di uno dei maestri del
Novecento, l'artista norvegese profeta delle
paure, delle inquietudini e dei tormenti interiori
dell'uomo moderno. |
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Deborah
Marchioro
Roma, 9 marzo 2005 -
Oltre cento opere, tra dipinti a olio e stampe,
ripercorrono l'iter creativo di Edvard Munch
(1863-1944), l'artista norvegese considerato uno dei
padri dell'Espressionismo. La mostra ospitata nel
Complesso del Vittoriano, sotto l'Alto Patronato
del Presidente della Repubblica Italiana, del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, della Reale
Ambasciata di Norvegia, è promossa dal Comune e dalla
Provincia di Roma e dalla Regione Lazio. Curata da
Øivind Storm Bjercke, si avvale di un comitato
scientifico composto da Erik Mørstad, Einar Petterson,
Renato Barilli, Maria Teresa Benedetti, con Claudio
Strinati quale commissario generale. Le opere
esposte, circa sessanta oli e una cinquantina di opere
grafiche tra acquaforti, litografie, xilografie,
provengono da noti musei internazionali e dalle più
importanti sedi espositive norvegesi, tra cui il
Munch-Museet e la Nasjonalgalleriet di Oslo, il Bergen
Kunstmuseum, lo Statens Museum for Kunst di Copenaghen,
l'Ateneumin Taidemuseo di Helsinki, il
Wallraf-Richartz-Museum di Colonia, lo Sørlandets
Kunstmuseum di Kristiansand, il Lillehammer Kunstmuseum,
il Trondheim Kunstmuseum e il Rogaland Kunstmuseum di
Stavanger. L'esposizione, come ha precisato il
curatore Øivind Storm Bjercke, intende mostrare tutti
gli aspetti della produzione dell'artista e rappresenta
un'occasione unica per ammirare le sue opere, dal
momento che per vedere Munch bisogna andare in
Norvegia: non è un artista come Cezanne o Monet,
facilmente visibile in diversi musei del mondo, poiché,
ad esempio, a New York c'è solo una sua
opera. Come ha sottolineato il Sindaco di Roma,
Walter Veltroni, Munch è stato "il migliore interprete,
senza volerlo, del tempo che viviamo" e a proposito
dei furti che hanno interessato le opere dell'artista,
il Sindaco ha affermato che il "rapimento" de
L'urlo, avvenuto insieme a quello del dipinto
raffigurante la Madonna lo scorso agosto,
"meriterebbe che si impegnassero tutte le forze
possibili per recuperarlo". Melanconia,
Disperazione, Paura, Urlo, Vampiro: questi alcuni
titoli delle opere di Munch, espressioni di
un'angoscia esistenziale e di un senso di morte che
pervadono tutta la produzione dell'artista. Nato a
Löten, in Norvegia, a cinque anni perde la madre e a
quattordici vede morire la sorella: "Nella casa della
mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai
superato l'infelicità di allora. Così vissi coi
morti". Dopo aver lasciato le scuole tecniche, studia
alla Scuola Reale di Disegno di Oslo e inizia a
dipingere soggetti familiari inserendosi nel filone del
naturalismo. Compie poi fondamentali viaggi a Parigi
(1885), nel sud della Francia, in Italia, in Germania:
rimane particolarmente colpito da Manet e dagli
Impressionisti, ma ben presto abbandona la solarità e le
vibrazioni luminose di questi ultimi, guardando poi a
Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Degas e Gauguin per superare
il naturalismo ed esprimere una condizione esistenziale:
ciò che lo interessa non è più il mondo esterno ma la
realtà interiore, tema cui si rivolge anche la
letteratura scandinava da Ibsen a
Strindberg. "Non si possono più dipingere interni
con uomini che leggono e donne che lavorano a maglia -
scrive Munch - Si dipingeranno esseri viventi che
respirano e sentono, soffrono e amano". E ancora, "I
miei quadri sono i miei diari", afferma l'artista,
spiegando così in chiave autobiografica la sua intera
produzione, esperienza soggettiva e al tempo stesso
simbolica della sofferta condizione umana: la linea
sinuosa dell'Art Nouveau chiude colori irreali che
alludono al mondo interiore dell'artista, ma dopo la
grave malattia nervosa che lo colpisce nel 1908 e lo
costringe a trascorrere otto mesi in una clinica di
Copenaghen, i contorni si sfaldano senza più trattenere
il violento cromatismo. Quando torna in Norvegia
sceglie di vivere lontano dalla città, in un villaggio
sul fiordo, prima a Krageroe e poi a Ekely: la
solitudine diventa una scelta di vita, mentre i suoi
quadri - da cui non si separa - divengono le sue
"guardie del corpo". Il nuovo corso della sua vita
corrisponde a un rinnovamento nella sua pittura, che
conosce ora anche tinte radiose. A Ekely morirà di
polmonite nel 1944, lasciando tutti i suoi averi in
eredità al Comune di Oslo dove, nel 1963, è inaugurato
il Museo a lui dedicato. Catalogo
Skira
Complesso del Vittoriano Via San Pietro
in Carcere Tel. 06.6780664 Biglietto d'ingresso:
intero euro 9,00 ridotto euro 6,50 Orario: dal lunedì
al giovedì 9.30 -19.30; venerdì e sabato 9.30 - 23.30;
domenica 9.30 - 20.30 Dall'11 marzo al 19 giugno
2005
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2.03.2005
Gina
Pane e "Dionysiac" al Centre Pompidou a Parigi
(fonte: LaStampa Web)
A Gina Pane, grande protagonista della Body Art
(morta prematuramente nel 1990), il Centre Pompidou dedica una
retrospettiva che presenta fotografie, testi, oggetti e video
di performance, che documentano gli aspetti più importanti
della sua inquietante e poetica ricerca (fino al 16 maggio).
Sempre al Pompidou rimarrà aperta fino al 9 maggio una
articolata collettiva intitolata « Dionysiac » che
comprende lavori di artisti come John Bock, Jason Rhoades,
Fabrice Hyber e Paul Mc Carthy.
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1.03.2005
DETTAGLIO
NEWS |
Antologica
Il Centro per l’Arte
Contemporanea Luigi Pecci presenterà una grande mostra
dedicata a Robert Morris, uno dei massimi esponenti
della Minimal Art, che tra l’altro ha lasciato nel
territorio pratese e pistoiese opere significative come
il Labirinto della Fattoria di Celle o l’altare maggiore
e il pulpito nel Duomo di Prato.
La mostra sarà
curata da Jean-Pierre Criqui, uno dei più noti esperti a
livello internazionale dell’artista.
Per la prima
volta in Italia saranno esposti insieme un numero così
considerevole di Blind Time Drawings: circa 80 disegni
scelti tra le 6 serie che formano il corpus completo di
questo lavoro a cui Morris si è dedicato per più di
trent’anni. Dai primi disegni del 1973 fino ai più
recenti Moral Drawings del 2000, con una particolare
enfasi sulla quarta serie, un gruppo di opere ispirate
dagli scritti del filosofo Donald Davidson (Drawing with
Davidson, 1991), oltre ad alcuni disegni che non
appartengono a nessuna delle sei serie, come i Crisis
Drawings.
I Blind Time Drawings sono disegni
realizzati dall’artista ad occhi bendati, previa una
breve stesura delle indicazioni che seguirà
nell’esecuzione, per sottolineare lo scarto tra l’idea e
la realizzazione, tra il proposito dell’artista e il
limite del corpo. Gli scritti sono parte integrante
dell’opera e spesso si trovano ai margini del disegno
stesso. Il fatto di non vedere il foglio mentre
disegno mina tutte le idee di intenzionalità e rimette
in questione lo statuto di errore come criterio limite.
Per chi lavora ad occhi bendati la nozione di talento
perde completamente di senso. Il processo in se non mi
interessa, non è che un mezzo. (Robert
Morris).
In mostra, inoltre, saranno esposti
alcuni dei capolavori di Morris, pietre miliari del
movimento minimalista come il famoso Card File del 1962
ed ancora Box with the Sound of its Own Making (1961),
Self-Portrait (EEG) (1963), i Mirrored Cubes (1965), i
film Mirror Film e Finch College Project Film, entrambi
del 1969, la grande installazione Threadwaste with
Mirrors (1968/1998) e Portland Mirrors (1977).
In
occasione della mostra di Prato sarà pubblicato un libro
dedicato ai Blind Time Drawings, non un catalogo
ragionato, impossibile da realizzare a causa della
dispersione dei disegni, (in totale dovrebbero essere
circa 250, ma Morris non li ha catalogati), ma comunque
la pubblicazione più importante ed esaustiva dedicata a
questi straordinari lavori. I testi critici saranno di
Robert Morris, Donald Davidson e Jean-Pierre
Criqui.
Inaugurazione: 26 febbraio
Ufficio
Stampa: Ku.ra. Rosi Fontana - t. 050 9711343 - fax 050
9711317
Centro per l’Arte Contemporanea Luigi
Pecci Viale della Repubblica 277 Prato Orari: dal
lunedì al venerdì 12.00-19.00; sabato, domenica e
festivi 10.00-19.00. Chiusura: Martedì. Ingressi: intero
€ 5,00 - ridotto euro 4,00 |
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"Events" del primo semestre 2004 |
8.02.2005
Anselm
Kiefer : Die Frauen
fino all’8.III.2005 Anselm Kiefer – Die
Frauen Roma, Villa Medici – Accademia di
Francia
Da Saffo a Circe, dalle regine di Francia alle
rivoluzionarie. L'altra metà del cielo, secondo Anselm Kiefer.
Vetro, ferro, giacigli vuoti di acqua e terra. Destini
tragici, inesorabili e rievocazioni poetiche. Sotto l'ala di
piombo della Storia...
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(fonte: Exibart) |
martedì 8 febbraio 2005 Villa Medici,
sede dell’Accademia di Francia a Roma dal 1666, accoglie da
sempre protagonisti dell’arte contemporanea, tra cui
recentemente Anselm Kiefer, di origini tedesche
(Donaueschingen, 1945), ma francese d’adozione. Die
Frauen – questo il titolo della mostra – è un viaggio
affascinante nell’universo femminile, rievocato attraverso le
figure più significative della storia e della
mitologia. L’itinerario si snoda nelle sale del palazzo e
nei giardini, animandosi di presenze vive, forgiate nei
materiali più diversi che caratterizzano l’opera dell’artista,
campione del Neo-espressionismo tedesco e del conseguente
revival pittorico. Tuttavia, a differenza dei precursori della
Brücke, che esaltavano il potenziale catartico e avveniristico
della pittura –da cui la metafora neitzchiana del “ponte”–
Kiefer la considera principalmente uno strumento di analisi
retrospettiva, che spazia dalla verità dei fatti a quella,
altrettanto incrollabile, del mito. L’esposizione
corre sul doppio binario della storia e dell’immaginazione,
attingendo al ricco firmamento di stelle che illuminano
“l’altra metà del cielo”: Saffo, che al posto del
cranio regge il peso telamonico di una pila di libri,
identificandosi totalmente con la poesia; Dafne, in piena
metamorfosi, con gli arti vegetali spiegati a mo’ di ali;
Circe, prototipo dell’ammaliatrice, che trasforma le sue
vittime in animali e le rinchiude in una gabbia. E poi
Berenice, rappresentata con rigore filologico, degno della
fonte callimachea: su una parete è appuntata la mitica ciocca
da cui si dipanano schegge di vetro, che alludono alla
costellazione eponima. Alle regine di Francia, Kiefer
dedica un doppio lavoro, al confine tra la pittura e
l’installazione. Dapprima, una superficie pittorica spessa,
laccata, polimaterica, su cui spiccano i nomi delle teste
coronate, accanto a cornici di piombo vuote: probabilmente,
una genealogia invisibile, cancellata dall’oblio e ridotta ad
un vuoto elenco nominativo. Forse, un’eco dell’olocausto,
macchia nera sul fondo della coscienza tedesca, orrore
passato, sempre presente nel ricordo dei superstiti e nelle
vite spezzate delle vittime anonime. Dunque, la storia come
magistra vitae, irriducibile al puro dato cronologico, ma
input per la determinazione della coscienza
collettiva. Così, le regine di Francia non sono nomi
iscritti all’albo della storia nazionale, ma donne realmente
vissute e testimoniate da elementi evocativi come le rose, le
pere essiccate, o reliquie di altro genere. La materia
continua a pulsare della loro energia e, da questo punto di
vista, Kiefer ricalca le orme del suo grande maestro:
Joseph Beuys. Allo stesso modo, Le donne della
Rivoluzione sono immortalate in una serie di tredici letti
di piombo: qui, il materiale è lavorato come fosse una carta
leggera e facilmente modellabile; le increspature assomigliano
alle pieghe di una stoffa – un sudario – che accoglie i corpi
delle rivoluzionarie, virtualmente racchiusi nei giacigli
colmi d’acqua, terra e frammenti di pietra. Sepolcri vuoti
perché le defunte godono ormai di fama imperitura, o svuotati
dalla memoria a breve termine del terzo millennio? E l’appello
di Kiefer è proprio questo, non dimenticare.
maria
egizia fiaschetti mostra visitata il 26 gennaio
2005
Anselm Kiefer a Villa Medici. Die Frauen Villa Medici –
Accademia di Francia, (centro storico, piazza di Spagna) viale
Trinità dei Monti 1 orario: 11-19; chiuso il
martedì biglietti: 8 euro (intero); 4,50 euro
(ridotto) per informazioni: tel. 39 066761291, fax
0669921653 - http://www.villamedici.it/
, stampa@villamedici.it
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8.02.2005
Günter Brus.
Viaggio intorno all’opera. Una retrospettiva dal 1960 al
1996
A cura di: Monika Faber e Peter
Weiermair Promotori: Galleria d’Arte Moderna Bologna in
collaborazione con Albertina Vienna, Neu Galerie am Landesmuseum
Joanneum, Graz, Kunsthaus, Zug, Svizzera.Sede: Galleria
d’Arte Moderna, Piazza Costituzione 3 - Bologna Inaugurazione: 16 dicembre ore
19 Periodo: 17 dicembre 2004 - 27 febbraio
2005 Orari: 10 - 18 dal martedì alla domenica;
chiuso il lunedì
Il 16 dicembre alle ore
19 la Galleria d’Arte Moderna inaugurerà la mostra dedicata a Günter
Brus, noto protagonista dell’Azionismo Viennese. La mostra,
realizzata in collaborazione con l’Albertina di Vienna, dopo le
tappe di Vienna, Graz, Zug e Bologna approderà al MACBA di
Barcellona e alla Tate Modern di Londra nel corso del 2005 e del
2006.
Günter Brus (nato nel
1938) è uno di quei grandi artisti europei, attivi intorno agli anni
’60, che attraverso il superamento dei confini fra i generi e la
disinvoltura nell’uso di mezzi espressivi diversi tra loro, giunge a
creare delle soluzioni estetiche assolutamente innovative.
Brus esordisce nel 1960 all’insegna della pittura
Informale trasferendo l’energia fisica e psichica dal quadro al suo
corpo, usandolo come se fosse una tela tradizionale e trattandolo
alla stregua di materiale pittorico. Il ruolo centrale di Brus,
protagonista di spicco del movimento denominato Azionismo Viennese,
è testimoniato dalla sue performances al limite
dell’autodistruzione, l’ultima delle quali “Zerreissprobe” del 1970
fu una delle cause per le quali Brus dovette lasciare
l’Austria.
Sono questi gli anni delle famosi azioni nelle quali il
corpo diviene il punto di partenza per attuare una sovversione,
anche in chiave politica, dei valori dominanti. Un corpo, il suo, al
quale Brus infligge ogni genere di tortura fino quasi ad arrivare al
limite estremo del suicidio. Brus si dedica poi al disegno e alla
pittura, raggiungendo in anni più recenti una ricca sintesi
iconografica Anche in queste poesie illustrate Brus agisce in
maniera aggressiva e sovversiva contro le mentalità troppo chiuse
per poi immergersi in un universo fiabesco e fantastico, Brus come
erede di Füssli, Redon, Schiele o Kubin. Il suo desiderio di
addivenire a soluzioni sempre nuove emerge chiaramente nelle sue
illustrazioni e nelle sue opere per il teatro e la
letteratura.
La retrospettiva include numerosi lavori su carta, studi per
le azioni, documentazioni e film a partire dagli anni ‘50 prestate
da numerose collezioni sia pubbliche che private.
UFFICIO STAMPA Galleria d’Arte Moderna Simona Di Giovannantonio Tel. + 39 051 502859 Fax. + 39 051 371032 Ufficiostampagam@comune.bologna.it http://www.italyguide.com/mostre/emiliaro/bologna/www.galleriadartemoderna.bo.it
DOVE GALLERIA D'ARTE MODERNA Piazza Costituzione,
3
ORGANIZZAZIONE Galleria d'Arte Moderna Bologna in
collaborazione con Albertina Vienna, Neu Galerie am Landesmuseum
Joanneum, Graz, Kunsthaus, Zug, Svizzera
A CURA
DI Monika Faber e Peter Weiermair
QUANDO DAL
17 DICEMBRE 2004 AL 27 FEBBRAIO
2005
INAUGURAZIONE 16 dicembre - ore
19.00
DESCRIZIONE Mostra dedicata a Günter Brus,
noto protagonista dell'Azionismo Viennese. La mostra, realizzata in
collaborazione con l'Albertina di Vienna, dopo le tappe di Vienna,
Graz, Zug e Bologna approderà al MACBA di Barcellona e alla Tate
Modern di Londra nel corso del 2005 e del 2006. Günter Brus (nato
nel 1938) è uno di quei grandi artisti europei, attivi intorno agli
anni '60, che attraverso il superamento dei confini fra i generi e
la disinvoltura nell'uso di mezzi espressivi diversi tra loro,
giunge a creare delle soluzioni estetiche assolutamente
innovative.
Brus esordisce nel 1960 all'insegna della pittura
Informale trasferendo l'energia fisica e psichica dal quadro al suo
corpo, usandolo come se fosse una tela tradizionale e trattandolo
alla stregua di materiale pittorico. Il ruolo centrale di Brus,
protagonista di spicco del movimento denominato Azionismo Viennese,
è testimoniato dalla sue performances al limite
dell'autodistruzione, l'ultima delle quali "Zerreissprobe" del 1970
fu una delle cause per le quali Brus dovette lasciare
l'Austria.
Sono questi gli anni delle famosi azioni nelle
quali il corpo diviene il punto di partenza per attuare una
sovversione, anche in chiave politica, dei valori dominanti. Un
corpo, il suo, al quale Brus infligge ogni genere di tortura fino
quasi ad arrivare al limite estremo del suicidio. Brus si dedica poi
al disegno e alla pittura, raggiungendo in anni più recenti una
ricca sintesi iconografica Anche in queste poesie illustrate Brus
agisce in maniera aggressiva e sovversiva contro le mentalità troppo
chiuse per poi immergersi in un universo fiabesco e fantastico, Brus
come erede di Füssli, Redon, Schiele o Kubin. Il suo desiderio di
addivenire a soluzioni sempre nuove emerge chiaramente nelle sue
illustrazioni e nelle sue opere per il teatro e la
letteratura.
La retrospettiva include numerosi lavori su
carta, studi per le azioni, documentazioni e film a partire dagli
anni '50 prestate da numerose collezioni sia pubbliche che
private.
ORARIO Da mar. a dom. dalle 10.00 alle
18.00
INGRESSO 4 euro Ridotto: 2
euro
INFORMAZIONI Galleria d'Arte Moderna Tel.
051/502859 - fax 051/371032 mailto:infogam@comune.bologna.it mailto:ufficiostampaGAM@comune.bologna.it http://www.galleriadartemoderna.bo.it/
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"Events" del 2003 |
7.02.2005
Il Male. Esercizi di pittura
crudele |
La Palazzina di Caccia di Stupinigi di Torino
è sede di un grande evento culturale,
un'esposizione spettacolare e inedita.
Per diverse ragioni, si tratta di un evento
unico: sono esposte 180 opere -
da Beato Angelico a grandi nomi del Novecento
come Balthus e Schiele fino ai contemporanei
come Music e Kokocinski - che
testimoniano la presenza nell'arte europea del
Male in tutte le sue diverse
manifestazioni: come dolore fisico,
quotidiano o straordinario qual è quello dei
martirii e delle uccisioni sadiche; come
mistero, nelle sue manifestazioni mostruose o
legate a un destino di morte; come peccato, in
una religiosa prospettiva di punizione ed
espiazione. Una sezione particolare è destinata
al concetto del Male come tratto fisiognomico in
una galleria di ritratti di personaggi malvagi,
sfigurati, deformi, condannati a morte o dalla
damnatio memoriae.
La mostra e il catalogo
che l'accompagna individuano negli anni di
Antonello da Messina il punto
di partenza della rappresentazione del Male
nell'uomo, quando nell'arte, al principio del
Quattrocento, irrompe l'individuo con le sue
debolezze: proprio sul ritratto di Antonello da
Messina del Museo Mandralisca di Cefalù, come
per uno sfogo irrazionale e incontrollabile, si
è scaricata l'ira di un nemico misterioso che lo
ha insistentemente sfregiato. A luce radente, il
dipinto appare attraversato da impietosi graffi,
che ne hanno lacerato la superficie. L'autore
dell'aggressione è più che un vandalo: un
duellante, un antagonista forse un esorcista,
che vedeva in quel volto il Male. Anche
nell'altro anonimo ma individuatissimo ritratto
di Antonello in Palazzo Madama, a Torino, si
legge la furbizia, l'inganno, l'inclinazione
alla frode, che ne fanno, ancor più, un modello
negativo.
Il Male dell'epoca precedente ad Antonello si
manifestava ancora in uno scenario medievale, in
un immaginario infernale popolato da mostri,
demoni, dannati e peccatori, ma dove l'uomo
reale è assente. Hieronymus Bosch e Antonello,
ciascuno a suo modo, trasportano il Male nella
vita quotidiana.
Tra le testimonianze di questo spirito
spiccano, nel Quattrocento, dipinti di
Antonello da Messina, Giovanni Bellini,
Beato Angelico e Taddeo di Bartolo; nel
Cinquecento le opere di Tiziano, Lorenzo
Lotto, Annibale e Agostino Carracci, Bartolomeo
Passerotti; nel Seicento i capolavori
di Caravaggio, Artemisia Gentileschi,
Jusepe de Ribera, Paolini, Domenico Fetti,
Bernardo Strozzi, Giuseppe Vermiglio, Tanzio da
Varallo, Salvator Rosa, Mattia Preti e
la straordinaria
Medusa di
Rubens; nel Settecento i
dipinti di Ghezzi, Magnasco, Ricci,
Gandolfi, Füssli, Bonomini, Fra'
Galgario. Tra le opere che
rappresentano il Male nell'arte dell'Ottocento
emergono i capolavori di William
Blake. Il Novecento, secolo di Freud,
età della proiezione di incubi e sogni, era
dell'interpretazione di ansie ed inquietudini, è
rispecchiato in opere di grandi maestri come
Wildt, Viani, Sironi, Pirandello, Bacon,
Munch, Balthus ed Andy Warhol, ma anche
di maestri meno conosciuti, come
Baccarini, Boncinelli e
Ferrazzi. Dal Novecento giungiamo ai
contemporanei con Music, Ferroni,
Kokocinski, Sughi, Bottoni, Schmidlin,
Martinelli e Margherita Manzelli.
Per l'occhio contemporaneo, però, il concetto
del Male e le sue inquietanti manifestazioni
evocano altri strumenti di comunicazione che non
siano solo la pittura. Una seconda parte
della mostra, complementare alla
sezione pittorica, si svolge presso il
Museo Nazionale del Cinema della Mole
Antonelliana di Torino, istituzione unica nel
suo genere in Italia e tra le più importanti in
Europa. Questa seconda sezione propone esempi
della cinematografia legata agli stessi concetti
del Male, considerando che l'immaginario
popolare del Novecento è passato attraverso il
cinema ancor più che sulla tela. In
questa prospettiva Vittorio Sgarbi ha progettato
una prosecuzione della mostra che contempla la
fotografia e il fumetto, oltre al
cinema, prendendo in considerazione le forme
d'arte più vicine alla sensibilità e alla
percezione dell'uomo contemporaneo.
La mostra vuole dunque proporsi come una
grande retrospettiva sul Male, ponendoci
dinnanzi, da un lato, alle eterne paure
inconsce; dall'altro, alle efferatezze, alle
ambiguità e alle dicotomie del nostro passato di
uomini. Un intenso viaggio nella parte oscura
dell'animo umano.
NOTIZIE UTILI
Il Male. Esercizi di pittura
crudele Dal 19 febbraio al 26 giugno
2005 Palazzina di Caccia di Stupinigi,
Torino
|
TORINO,
La nuova, spettacolare mostra di Vittorio Sgarbi
alla Palazzina di Caccia di Stupinigi a
Torino
La Palazzina di Caccia di
Stupinigi di Torino è ancora una volta sede di
un grande evento culturale, un’esposizione
spettacolare e inedita, dal titolo “Il Male.
Esercizi di pittura crudele”.
La
mostra aprirà al pubblico il 26 febbraio 2005,
promossa dalla Regione Piemonte, dal Comune di
Torino e dalla Fondazione Torino Musei, ideata e
curata da Vittorio Sgarbi e dal coordinatore
generale Gilberto Algranti. La produzione e
la realizzazione é a cura di Tekne Associazione
Culturale.
Per diverse ragioni, si tratta
di un evento notevole e unico: sono esposte 180
opere - da Beato Angelico a grandi nomi del
Novecento come Balthus e Schiele sino ai
contemporanei come Music e Kokocinski - che
testimoniano la presenza nell’arte europea del
Male in tutte le sue diverse manifestazioni:
come dolore fisico, quotidiano o straordinario
qual è quello dei martirii e delle uccisioni
sadiche; come mistero, nelle sue manifestazioni
mostruose o legate a un destino di morte; come
peccato, in una religiosa prospettiva di
punizione ed espiazione. Una sezione particolare
è destinata al concetto del Male come tratto
fisiognomico in una galleria di ritratti di
personaggi malvagi, sfigurati, deformi,
condannati a morte o dalla damnatio
memoriae.
La rappresentazione del male è
sempre inquietante. Ne fanno prova i graffi
sulle predelle scorticate dalle mani dei fedeli
nelle chiese, che in epoche più oscure e
istintive tentavano di cancellare la presenza
del maligno e l’elemento demoniaco. È da questo
sentimento che muove l’idea della mostra che
attraverso i secoli cerca nella pittura il lato
negativo e devastato dell’animo umano, le tracce
esplicite o inconsce lasciate da crudeltà,
sadismo, paura, invidia, vendetta,
angoscia.
Dal Male come categoria
religiosa legata al concetto del peccato e della
punizione, dalle figurazioni medioevali che
suggestionavano e impaurivano il devoto, fino
alle angosce dell’uomo contemporaneo, la via
percorsa è lunghissima e l’obiettivo di questa
mostra è di darne una vasta rappresentazione. Il
percorso si snoda attraverso le figure di demoni
e mostri dell’immaginario carnale medioevale,
percorre le strade delle contraddizioni
dell’individuo e del senso della morte e della
caducità della vita espressa nelle teste mozze
delle Vanitas; racconta le efferatezze dei
carnefici che strappano pelle, denti, occhi e
seni a sante e martiri della fede, espone il
tormento interiore del dolore psicologico. La
mostra individua negli anni di Antonello da
Messina il punto di partenza della
rappresentazione del Male nell’uomo, quando
nell’arte, al principio del Quattrocento,
irrompe l’individuo con le sue debolezze:
proprio sul ritratto di Antonello da Messina del
Museo Mandralisca di Cefalù, come per uno sfogo
irrazionale e incontrollabile, si è scaricata
l’ira di un nemico misterioso che lo ha
insistentemente sfregiato. A luce radente, il
dipinto appare attraversato da impietosi graffi,
che ne hanno lacerato la superficie. L’autore
dell’aggressione è più che un vandalo: un
duellante, un antagonista forse un esorcista,
che vedeva in quel volto il Male. Anche
nell’altro anonimo ma individuatissimo ritratto
di Antonello in Palazzo Madama, a Torino, si
legge la furbizia, l’inganno, l’inclinazione
alla frode, che ne fanno, ancor più, un modello
negativo.
Il Male dell’epoca precedente
ad Antonello si manifestava ancora in uno
scenario medievale, in un immaginario infernale
popolato da mostri, demoni, dannati e peccatori,
ma dove l’uomo reale è assente. Hieronymus Bosch
e Antonello, ciascuno a suo modo, trasportano il
Male nella vita quotidiana. L’esposizione
torinese intende far affiorare i sintomi e le
manifestazioni di questa atmosfera stregata e
affascinante, spesso rimossa, fatta di
turbamenti e peccati, in una rassegna di opere
pertinenti e di straordinari capolavori. Tra le
testimonianze di questo spirito spiccano, nel
Quattrocento, dipinti di Giovanni Bellini, Beato
Angelico e Taddeo di Bartolo; nel Cinquecento le
opere di Tiziano, Lorenzo Lotto, Annibale e
Agostino Carracci, Bartolomeo Passerotti; nel
Seicento i capolavori di Caravaggio, Artemisia
Gentileschi, Jusepe de Ribera, Pietro Paolini,
Domenico Fetti, Bernardo Strozzi, Giuseppe
Vermiglio, Tanzio da Varallo, Salvator Rosa,
Mattia Preti e la straordinaria Medusa di
Rubens; nel Settecento i dipinti di Ghezzi,
Magnasco, Ricci, Gandolfi, Füssli, Bonomini,
Fra’ Galgario. Tra le opere che rappresentano il
Male nell’arte dell’Ottocento emergono i
capolavori di William Blake. Il Novecento,
secolo di Freud, età della proiezione di incubi
e sogni, era dell’interpretazione di ansie ed
inquietudini, è rispecchiato in opere di grandi
maestri come Wildt, Viani, Sironi, Pirandello,
Bacon, Munch, Balthus ed Andy Warhol, ma anche
di maestri meno conosciuti, come Baccarini,
Boncinelli e Ferrazzi. Dal Novecento giungiamo
ai contemporanei con Music, Ferroni, Kokocinski,
Sughi, Bottoni, Schmidlin, Martinelli e
Margherita Manzelli.
Per l’occhio
contemporaneo, però, il concetto del Male e le
sue inquietanti manifestazioni evocano altri
strumenti di comunicazione che non siano solo la
pittura. Una seconda parte della mostra,
complementare alla sezione pittorica, si svolge
presso il Museo Nazionale del Cinema della Mole
Antonelliana di Torino, istituzione unica nel
suo genere in Italia e tra le più importanti in
Europa. Questa seconda sezione propone esempi
della cinematografia legata agli stessi concetti
del Male, considerando che l’immaginario
popolare del Novecento è passato attraverso il
cinema ancor più che sulla tela. In questa
prospettiva Vittorio Sgarbi ha progettato una
prosecuzione della mostra che contempla la
fotografia e il fumetto, oltre al cinema,
prendendo in considerazione le forme d’arte più
vicine alla sensibilità e alla percezione
dell’uomo contemporaneo. Alleghiamo una scheda
sulle tre sezioni collaterali.
La mostra
vuole dunque proporsi come una grande
retrospettiva sul Male, ponendoci dinnanzi, da
un lato, alle eterne paure inconsce; dall’altro,
alle efferatezze, alle ambiguità e alle
dicotomie del nostro passato di
uomini.
Un intenso viaggio nella parte
oscura dell’animo umano.
(D.K)
DOVE: SPAZIO ESPOSITIVO
MOSTRE Palazzina di Caccia di
Stupinigi Piazza Principe Amedeo -
10040 Stupinigi (Torino) Tel.
0113581220 Fax. 0113582580
La mostra è vietata ai minori di 14 anni
non accompagnati da un adulto
Come arrivare alla Palazzina
di Caccia di Stupinigi
In
auto Utilizzando la rete
autostradale: - tutte le autostrade che
raggiungono Torino confluiscono nella
tangenziale che cinge la città; percorrendo la
tangenziale Torino Sud, esistono due svincoli:
uscita Debouchè e uscita Stupinigi, che
consentono di raggiungere Nichelino in breve
tempo.
Percorrendo la rete stradale
ordinaria: - arrivando da
nord: arrivando dalla Francia ( Frejus o
Montgenevre ), dalla Val Susa o da Rivoli,
immettersi sulla tangenziale Sud uscita Debouchè
o uscita Stupinigi. - arrivando da
sud: percorrere la strada statale 23
(Torino-Pinerolo), Nichelino si trova a pochi
chilometri da Stupinigi. È inoltre possibile
raggiungere Nichelino attraverso la Statale 20
(Torino-Racconigi), arrivando a Moncalieri e
seguendo le indicazioni per
Nichelino. In
bus Dal territorio Nazionale e dalle
località Europee gli arrivi confluiscono al BUS
TERMINAL di C/so Inghilterra in Torino, da dove
è possibile raggiungere Nichelino utilizzando
gli Autobus ATM (servizio urbano di
Torino tel. 167-019152 - Linea 35 e Linea
39) Bus n. 41: parte da Piazza Caio
Maio. In
treno Stazione delle FS "Porta Nuova" di
Torino. A Nichelino si trova la Stazione
Ferroviaria della linea Torino-Pinerolo-Torre
Pellice, che permette di raggiungere in breve
tempo la Stazione Centrale di Porta Nuova o di
Porta Susa Servizio Taxi in
Stazione.
In
aereo Aeroporto "Città di Torino" a
Caselle Torinese. Servizio Bus Terminal per
Torino (Stazione FS "Porta Nuova"). Proseguire
per Nichelino con gli Autobus ATM (servizio
urbano di Torino - tel. 167-019152 - Linea 35 e
Linea 39) Aeroporto Malpensa. Servizio Bus
Terminal per Torino (Stazione FS "Porta Nuova").
Proseguire per Nichelino con gli Autobus ATM
(servizio urbano di Torino - tel. 167-019152 -
Linea 35 e Linea
39). | |
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1.02.2005
Sam Taylor
Wood a Roma
fino al 12.III.2005 Sam Taylor
Wood Roma, Galleria Lorcan O’Neill
Sesso, morte e pochi alberi, nelle immagini di
un’incantevole cattiva ragazza. Autoritratti estatici e light
boxes molto espliciti, per raccontare l’eterna tensione tra
Eros e Thanatos. Ovvero la lacerazione che sta tra vita e
morte…
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(fonte: Exibart) |
martedì 1 febbraio 2005 La galleria
Lorcan O’Neill, vetrina romana della swinging London,
propone Sam Taylor Wood, un’altra reginetta della new
wave britannica, dopo la bad girl Tracey Emin, seguendo
il trend culminato nella recente personale di Damien
Hirst al Museo Archeologico di Napoli. La fotografia,
tra i media più in voga in questo momento, torna a spopolare
con la serie Self Portrait Suspended, esposta in una
delle sale. Le stampe sono una variazione sul tema
dell’identità, colta in uno scorcio intimo e rarefatto del
proprio loft londinese. L’artista, vestita soltanto di
lingerie danza nello spazio, apparentemente sospesa. In
realtà, le corde che la tengono legata sono rimosse tramite un
camouflage digitale; la fotografia, dunque, come strumento di
una ricerca che sconfina dal semplice reportage, per involarsi
–è proprio il caso di dire– nell’ultra-visibile. La
dimensione mistica delle scene –una specie di
Transverberazione berniniana– è esaltata dall’arredo
scarno dello spazio: pareti bianchissime, vetrate a giorno,
pavimento in parquet. La luce sembra rapire nel suo alone il
corpo della Wood, come in ascensione; nonostante lo sforzo
muscolare, pare che le membra ricadano morbidamente, sfidando
la forza di gravità. Ad attrarle è un’energia latente e
insondabile, che trascende la sfera sensibile. Il corpo è
metafora di una condizione terrena precaria e corruttibile,
che l’artista ha sperimentato personalmente attraverso la
malattia. Ciononostante, questi lavori mostrano come sia
riuscita a sublimare il dolore in chiave onirica, attingendo
all’infinito potenziale immaginifico dell’arte. Librata in un
limbo intermedio tra il qui e l’altrove, è intangibile e
ovattata: nulla sembra poter scalfire il suo oblio, liberatasi
finalmente d’ogni peso corporeo.
Sul fronte opposto, il
corpo, non più anestetizzato, riemerge in tutta la sua
carnalità in The Passion Cycle: un gruppo di
venticinque light-boxes, che mostrano le diverse fasi di un
amplesso, similmente alle stazioni della Croce. L’analogia,
apparentemente blasfema, se da un lato esalta la componente
vitalistica dell’amore, dall’altro ne svela l’ineluttabile
sofferenza. La sessualità è vista come veicolo di
trascendenza, di totale alienazione di sé, per molti aspetti
vicina alla morte. Una riflessione tanto più amara, quanto più
la fotografia e la memoria tecnologica dovrebbero conservare
una traccia perenne della realtà. Al contrario, per sentire,
occorre lasciarsi permeare dagli stimoli esterni, immergersi
nel turbine dell’esistenza, perdersi nell’altro, accettare la
propria vanitas. Altrimenti, l’unico stato di grazia è quello
della pura immaterialità, immune da qualsiasi ebbrezza, o
tempesta emotiva. E il dramma segreto di Sam Taylor Wood
sembra consumarsi in questa eterna lacerazione: tra la
passione per la vita, effimera e imprevedibile, o
l’imperturbabilità della trascendenza.
maria egizia
fiaschetti mostra visitata il 24 gennaio 2005
Sam Taylor Wood – Sex and Death and a Few
Trees Galleria Lorcan O’Neill, Roma, via Orti d’Alibert
1E dal lunedì al venerdì 12:00-20:00 – sabato
14:00-20:00 per informazioni: tel. +39 06 68892980 – fax
+39 066838832 mail@lorcanoneill.com
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31.01.2005
JENNY
SAVILLE alla Macro di Roma
fino all’1.V.2005 Jenny
Saville Roma, Macro
Ibridi di identità maschile e femminile, occhi
sbarrati, volti tragicamente segnati dai ferri della
chirurgia. O dalle lamiere di un auto. La pittura patologica
della young british artist sposa museo e visioni allucinate.
Senza clamore…
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(fonte: Exibart) |
lunedì 31 gennaio 2005 Per la prima
personale in un museo italiano Jenny Saville espone
dieci tele di grande formato, alcune delle quali realizzate
per l'occasione. L'odore d'olio aggredisce l'olfatto prima che
il sipario si apra sulle figure e sulle scene, emana fresco
dalle pennellate pesanti, dalle lingue di colore che esumano i
corpi di donne e animali. In effetti, come è stato notato, a
dispetto delle misure lo spettatore sembra talvolta ritrovarsi
in una galleria di quadri "osceni", la più segreta e la più
raffinata, come nel cuore di una collezione
seicentesca. Sono passati quasi dieci anni da Sensation, la
mostra dei Young British Artists che nel 1997 consacrò Saville
e altri protagonisti del panorama odierno, alimentando al
contempo una riflessione sull'estremo in arte. Oggi è
possibile, qui al Macro, a Napoli e in alcune gallerie del
Nord, considerare gli esiti di quell'onda violenta, svolgerne
in parte le storie. Il sentimento più diffuso nella
critica, se non nel mercato, è che le cariche trasgressive
sprigionate dalle creazioni di Hirst e compagni si siano
dissolte in una costellazione di sapienze formali, minata ai
limiti da un peccato di autoreferenzialità.
Le opere di
Saville non turbano questo quadro, e anzi propongono un sicuro
intreccio di effetti e motivi. Il primo dato è la fortissima
volontà di pittura (anche nel senso di una personale storia
dell'arte), confrontata senza timidezze con altri codici
novecenteschi, in primis la performance art femminista, la
body art, l'oggetto fotografato e Cindy Sherman. I corpi
obesi, le teste tumefatte e le carcasse decollate, originati
da una fotografia scattata dall'artista, sono insieme il
risultato di una messa in scena calcolata otticamente e
un'immissione potente di materia e colore. Sono percorsi a
tratti quasi autonomi, e comportano da una parte una
differenziazione percettiva e interpretativa a seconda della
distanza con cui si guardano le tele, dall'altra una
sorprendente precarietà di esistenza delle stesse figure
sanguinolente. Questo doppio registro seduce e irretisce lo
sguardo, lo invita alla cruda classificazione delle speci,
dove il coltello ha inciso una carne già devastata o mutata
dai rituali contemporanei. Non è solo il momento lesivo
dell'integrità di un corpo o di un'identità a strutturare le
narrazioni di Saville; il punto finale è una pittura
descrittiva e analogica, una immaginaria ricomposizione post
mortem, come se ai fini dell'arte la pittrice adottasse
pratiche "neutre" di osservazione
scientifica.
francesca zanza mostra visitata
il 25 gennaio 2005
Jenny Saville a cura di Danilo Eccher fino al 1
maggio 2005, MACRO, via Reggio Emilia 54 (Piazza Fiume), tel.
06/671070400, sito web www.comune.roma.it/macro
, e-mail macro@comune.roma.it orari
d’ingresso: da martedì a domenica 9-19, festività 9-14, lunedì
chiuso biglietto € 1 Catalogo ELECTA con testi di Danilo
Eccher e Bary Schwabsky, € 24 in
mostra
[exibart]
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19.01.2005
Alla GAM
ed al castello di Rivoli due rassegne dedicate a Mario
Merz
(fonte: http://www.gamtorino.it/ )
MARIO
MERZ
DAL 12-01-2005 AL
27-03-2005
GAM - Via magenta, 31 Castello di Rivoli -
Museo d'arte contemporanea Orario: ma-do 9-19
Curatori: Pier Giovanni Castagnoli, Ida Gianelli,
Beatrice Merz
Sedi espositive: GAM Galleria Civica
d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino Castello di Rivoli Museo
d’Arte Contemporanea
Il Castello di Rivoli, la GAM
e la Fondazione Merz dedicano un’ampia retrospettiva a Mario
Merz (Milano, 1925 - 2003), una delle personalità artistiche più
rilevanti dell’arte italiana e internazionale. La rassegna vuol
essere un omaggio al grande artista recentemente scomparso e
preannunciare l’apertura della fondazione a lui dedicata che verrà
ufficialmente inaugurata nel 2005.
Mario Merz esordisce nel
1953, autodidatta, con una pittura di segno astratto-espressionista
e, successivamente, con un trattamento informale del dipinto. E’
presente dalle prime mostre dell’Arte povera, tendenza di cui
diventerà uno dei protagonisti. L’abbandono della pittura fa spazio
all’uso dell’installazione e alla sperimentazione con materiali
naturali o tecnologici come i tubi di neon luminoso, tracce di
energia pura, che inserisce negli oggetti più comuni. Dal 1968
indaga su strutture archetipiche come l’igloo, che realizza nei più
diversi materiali. Usa e interpreta la progressione numerica di
Fibonacci come emblema dell’energia insita nella materia, collocando
le cifre realizzate al neon sia sulle proprie opere sia negli
ambienti espositivi, come nel 1971 lungo la spirale del Guggenheim
Museum di New York, nel 1984 sulla Mole Antonelliana di Torino e nel
1990 sulla Manica Lunga del Castello di Rivoli. Dal 1976 lavora alla
figura simbolica della spirale che successivamente viene associata a
quella, altrettanto ricorrente, del tavolo, sulle cui superfici
vengono disposti frutti che, lasciati al loro decorso naturale,
introducono nell’opera la dimensione del tempo reale.
Alla
fine degli anni Settanta Merz recupera la figurazione, delineando
grandi immagini di animali di sapore ancestrale, “preistorici” come
li definiva l’artista. Il rilievo che l’opera di Merz ha raggiunto
nel corso degli anni è documentato dalle prestigiose rassegne a cui
ha partecipato, quali la Biennale di Venezia e Documenta a Kassel, o
che gli sono state dedicate dai più importanti musei del mondo. Fra
questi ricordiamo, il Walker Art Center di Minneapolis nel 1972, la
Kunsthalle di Basilea nel 1981, il Moderna Museet di Stoccolma nel
1983, il Museum of Contemporary Art di Los Angeles e il Solomon R.
Guggenheim Museum di New York nel 1989, la Fundació Antoni Tàpies di
Barcellona nel 1993, il Castello di Rivoli e il Centro per l’Arte
Contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 1990, la Galleria Civica
d’Arte Contemporanea di Trento nel 1995, la Fundação de Serralves di
Porto nel 1999, il Carré d’Art di Nîmes nel 2000, la Fundación Proa
di Buenos Aires nel 2002. Nel 2003 gli è stato conferito il Premium
Imperiale dall’Imperatore del Giappone. Muore a Milano nel novembre
2003.
La mostra alla GAM, curata da Pier Giovanni
Castagnoli, intende offrire testimonianza della vasta e sfaccettata
produzione artistica di Mario Merz partendo dalle opere che hanno
segnato il suo esordio quando, negli anni Cinquanta, è apparso sulla
scena torinese con la sua prima mostra personale alla galleria La
Bussola. Presentando esperimenti pittorici strettamente legati
agli elementi naturali (in mostra: La foglia, 1952, Albero, 1953,
Foglia a spirale, 1955), Mario Merz si affaccia al panorama
dell’arte con una pittura nuova e imprevedibile, che prende spunto
dall’immagine naturale, disgregandone le forme, in un approdo
informale con cadenze espressioniste, in cui si rintracciano
influenze della pittura di artisti della generazione precedente,
come Pinot Gallizio, Spazzapan e Mattia Moreni. A partire dal 1965
Merz abbandona la pittura per realizzare opere oggettuali e
ambientali, nelle quali ricorre l’utilizzo del tubo al neon come
elemento strutturale che trapassa le forme; inizialmente la tela
(Nella strada, 1967) e poi gli oggetti (Bicchiere trapassato, 1967 e
Bicchiere e bottiglia trapassati, 1968), dando vita alla feconda
avventura dell’Arte Povera, testimoniata in mostra da un gruppo di
opere significative del triennio 1966-1968 come Ombrello del 1967,
Sitin del 1968 e Igloo - Mai alzato pietra su pietra del
1968.
Al Castello di Rivoli il percorso espositivo
inizia con la grande stagione creativa della fine degli anni
Sessanta contraddistinta dagli igloo. Nella mostra, curata da Ida
Gianelli, vengono presentati tra gli altri, Igloo di Giap, 1968;
Igloo con albero, 1969; Objet cache-toi, 1968; Igloo nero, 1967-79;
(Igloo) Tenda di Gheddafi, 1968-81. L'igloo è una forma archetipica
nata dallo sviluppo in tre dimensioni di una spirale, forma in cui
Merz riconosce l’energia "strutturale" della natura e attraverso cui
crea uno "spazio esterno" che è "misura di uno spazio interno”
(Mario Merz, Mazzotta, Milano, 1983) e che replica la forma del
mondo a cui appartiene. Degli anni Settanta vengono presentate le
installazioni che vedono la comparsa degli animali “preistorici”
come Iguana del 1971 o l’utilizzo di materiali che vanno a formare
strutture complesse a spirale realizzate con tubolari in ferro,
cristallo, pietre, neon, fascine, ortaggi, frutta, giornali come in
Tavolo a spirale in tubolare di ferro per festino di giornali datati
il giorno del festino, 1976. Saranno inoltre presenti opere che
testimoniano, sul finire degli anni Settanta, il rinato interesse da
parte dell’artista per la pittura e la figurazione, alla base delle
complesse installazioni degli anni Ottanta e Novanta. In queste
opere compaiono animali primordiali come coccodrilli, zebre, tigri o
chiocciole (replica dell'interesse per la forma a spirale e
l'avvolgersi del tempo su se stesso) che divengono il soggetto di
tele e installazioni che tendono a coinvolgere in modo sempre più
vasto e potente lo spazio espositivo.
Per informazioni
sulla Fondazione Merz: tel. 011.4358519, e-mail:
info@fondazionemerz.org
Ingresso:
€ 7.50 intero; € 4.00 ridotto Informazioni:
Informazioni per il pubblico Castello di Rivoli: 011
9565280 Informazioni per il pubblico GAM: 011
4429518
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18.01.2005
Napoli nel segno di Anna Maria
Ortese |
(fonte: Liberazione) |
Ha debuttato al Mercadante
"L'opera segreta" di Mario Martone: un trittico omaggio a
Caravaggio, a Leopardi e alla scrittrice. Ipertesto di echi
rimandi e intrecci con Enzo Moscato |
Quando
nel 1953 Anna Maria Ortese pubblica Il mare non bagna Napoli
(ed. Adelphi) la si accusa di tradimento. Di aver rotto,
inopportunamente, con l'immagine di rinascita che si voleva
dare della città. Ortese con la sua "lente scura", titolo
della raccolta di racconti postuma di recente pubblicata
sempre da Adelphi, scova il malessere, lo racconta con quel
distacco amoroso che caratterizza i suoi scritti di viaggio,
le sue storie di realtà vissuta. A Napoli ci arriva da Roma e
la guarda senza pregiudizi, né ideologie. Ne raccolta volti,
odori, puzze, personaggi, miserie con una lingua che non è più
neorealismo: è scrittura dura di chi guarda il mondo con
sofferenza. Da eterna straniera.
Non è un caso se un intellettuale come Mario Martone abbia
deciso di fare della scrittura di Ortese, della sua visione
del mondo, il cuore del suo nuovo spettacolo, L'opera segreta,
che ha debuttato martedì al teatro Mercadante dove verrà
replicato fino al 16 gennaio. Un trittico (prodotto dallo
stesso Stabile) composto da "Caravaggio, l'ultimo tempo", "La
città involontaria", "'A ginestra 'e pontone", omaggio ad
altrettanti personaggi che a Napoli hanno guardato con
passione e spavento: Michelangelo Merisi, la scrittrice de Il
Cardillo addolorato, il filosofo oltre che poeta Giacomo
Leopardi.
I rimandi però non finiscono qui. L'opera segreta è un
ipertesto, complesso. Lo spettacolo inizia con un film. Il
palcoscenico si apre a un altro spazio doppio, dove cinema e
pittura si incontrano. Martone racconta i giorni di Caravaggio
a Napoli prima di morire. Accosta i volti delle sue opere,
esposte nella bellissima mostra in corso al museo Capodimonte,
ai volti di oggi. Quelli dei bassi, dei vicoli, quelli
disperati, antichi. Volti pasoliniani, sospesi tra il presente
e un passato che a Napoli vive nel sottosuolo. Sparisce,
riemerge. Un gorgo nero, lo chiama Martone, che non può essere
immediatamente ricondotto alla cronaca. Alla politica. Non
cerca e non vuole ricette immediate. Non si tratta di
convenzione, di reazione. E' il contrario. E' guardare oltre
l'ideologia, per aprire, scavare. Quei volti, quelle opere,
portano direttamente al gorgo nero. Lo fanno toccare,
respirare. Sono un documento raffinato di una geografia umana
che la tv ignora o riduce a folklore, il cinema conosce poco a
parte rari casi (tentate di vedere il bellissimo Vento di
terra di Vincenzo Marra, capirete di che cosa parliamo).
Martone con questo film porta a termine (o meglio, continua)
il suo progetto su "Petrolio" di Pasolini che l'anno scorso
aveva prodotto sempre il Mercadante, coinvolgendo numerose
compagnie napoletane e non.
Finisce il film, ma la luce non si accende. Buio. Sono le
ombre, i fantasmi, i cardilli di Anna Maria Ortese che
iniziano a muoversi. Il testo ispirato al racconto "La città
involontaria" (da Il mare non bagna Napoli) è stato riscritto
da Enzo Moscato, in scena per qualche minuto per poi tornare
nel monologo finale "'A ginestra 'e pontone", tratto dal suo
spettacolo culto Partitura.
Il buio è trafitto solo dalla luce di un fiammifero. In
scena c'è Ortese (Giovanna Giuliani). E' arrivata ai Granai,
alla periferia della città. Sta cercando Antonia Lo Savio, una
donna del popolo che la guida, sua "Virgilio", tra miserie,
dolori, speranze. Scrive sul taccuino. Annota. Guarda. Non
dimentica. La scena si popola a poco a poco di personaggi e di
immagini. Martone affida le parti principali ad attori di
forte tradizione napoletana. Antonia Lo Savio è Angela Pagano,
c'è anche un nome noto come Gianfelice Imparato. Bravi. Ma non
adatti a dare conto della scrittura distaccata de Il mare non
bagna Napoli. Troppo connotati. Poco adatti a rendere una
scrittura così trattenuta, di chi si sente sempre e ovunque
estranea. E' una scrittura che aderisce alle cose, le tocca e
le fa toccare, ma proprio perché immediata, diretta.
Il Trittico si chiude con Moscato. Si aggira recitando
Leopardi, non trova pace se non nel ritmo della recitazione.
La scena è nuda. Si vedono le travi. Le mura, le scale e le
porte. Si vede un teatro che si mette in gioco. Come tutta la
città. Napoli sta vivendo una vivacità artistica e
intellettuale che va dall'arte al cinema, arrivando al
palcoscenico. L'opera segreta di Martone, la sua costruzione
frammentaria e ipertestuale, fanno parte di questo clima di
echi, rimandi, di ritmi e versi dove la rima non sempre
riesce. Ma per questo forse è ancora più interessante stare a
sentire, a guardare, a partecipare.
Angela Azzaro
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17.01.2005
dal 10 al 28 gennaio
2005 |
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IL CERCHIO
INCANTATO di Roberto Trifirò da “Il monaco nero” di
Anton Čechov
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con (in ordine
alfabetico): Sonia Bonacina, Francesca Debri, Virna
Hireche, Franco Sangermano, Roberto Trifirò |
regia Roberto
Trifirò |
LO
SPETTACOLO Attraverso un misterioso processo di
trasformismo drammaturgico, quasi fosse anziché scrittore, un
prestigiatore di parole, Čechov, da una delle sue opere
teatrali che ebbe, con suo grande dispiacere, meno successo,
il “Lescij”, trasse ispirazione per arrivare alla stesura
definitiva di un altro capolavoro: “Zio Vanja”. Confrontando i
due testi ci si può rendere conto della particolarità del suo
processo creativo, di come da un testo con pregi e difetti, lo
stesso autore riesca ad eliminare i difetti o a tramutarli in
pregi, lasciandone i pregi trasfigurati…Di questa originale
capacità elaborativa forse il primo ad esserne sorpreso fu lo
stesso Čechov, che di fronte al grande successo di “Zio Vanja”
rimase sempre un po’ perplesso, quasi incredulo…
Questo
singolare accadimento è stato un insolito stimolo per
cominciare a scrivere un testo teatrale intitolato “Il cerchio
incantato”, liberamente tratto da alcuni racconti di Čechov,
in particolare “Il monaco nero”, dove l’autore russo descrive
un caso di sdoppiamento della personalità: il professor Kovrin
trova una ragione di vita solo nei colloqui con un personaggio
frutto della sua immaginazione, che assume le sembianze di un
“monaco nero”. Sono dialoghi ardenti sulla vita e
l’immortalità dell’anima, sulla verità e il valore della
conoscenza in cui Kovrin, pur consapevole del fatto che il
monaco nero non è che il prodotto della propria immaginazione,
trova una serenità e una felicità che gli restituiscono la
voglia di vivere e gli danno fiducia nel proprio lavoro e
nelle proprie ricerche.
Quando il suo tutore, Egor
Semënyč, e sua figlia Tanja, animati dalle migliori
intenzioni, lo spingono a curarsi dalla sua pazzia, egli
piomba, dopo un iniziale torpore, in uno stato di estrema
infelicità. “Avevo delle allucinazioni, ma a chi davo
fastidio?”. La rivolta di Kovrin è una ribellione contro la
normalità, intesa come moderazione e convenzionalità: essa
uccide qualsiasi ispirazione, sopprime il genio favorendo
l’ottusità, impedisce di essere se stessi e porta alla rovina
la civiltà. “Se Maometto avesse preso dei tranquillanti e
avesse lavorato soltanto due ore al giorno e avesse bevuto del
latte, di questo grand’uomo sarebbe rimasto tanto poco quanto
del suo cane”.
La struttura portante del racconto è
stato il punto di riferimento dal quale ho sviluppato o
inventato situazioni e personaggi, collocandoli in un tempo
presente. Forse la novità principale, oltre alla creazione di
un nuovo personaggio, la giovane e ambigua cameriera francese
di origine armena Marussia, con la quale Kovrin cercherà
invano di costruire una “nuova vita”, sono gli incontri e i
dialoghi con il monaco nero (qui un’enigmatica figura metà
uomo metà donna con un nome bizzarro: Tararabumbi-ja) che
risultano pervasi da un’insinuante malizia sessuale e che
forse propongono all’inconscio di Kovrin la scoperta di un
alter ego al femminile…
Un altro elemento di novità è
la sua preveggente consapevolezza che durante e dopo la “cura”
tutto, anche la sincera partecipazione delle persone al lui
più vicine, Egor Semënyč e la figlia Tanja, concorrerà a un
unico fine, la sua rovina. “Sono pochi gli uomini che alla
fine della loro vita non provano quel che io provo adesso.
Quando ti dicono che hai qualche cosa come i reni cattivi o
l’ipertrofia di cuore e tu cominci a curarti, oppure quando ti
dicono che sei un pazzo o un criminale, vale a dire, in una
parola, quando la gente tutt’a un tratto rivolge la sua
attenzione su di te, sappi che allora sei caduto in un cerchio
incantato dal quale non uscirai più. E più ti sforzerai per
uscirne e più ti ci perderai. Bisogna rassegnarsi perché non
ci sono più sforzi umani che ti possano salvare. Così almeno
sembra a me.”
Di lì a due anni la sua salute peggiorerà
irrimediabilmente, e negli ultimi istanti della sua vita, dopo
uno sbocco di sangue causato dalla tubercolosi, Kovrin rivedrà
per l’ultima volta la sua allucinazione, che con un sorriso
gli sussurrerà: “Tu sei un genio, stai morendo solo perché il
tuo fragile corpo umano ha perduto il suo equilibrio, e non
basta più a contenere il tuo genio…” E dall’espressione di
Kovrin morto traspare “un sorriso di beatitudine che
irrigidisce il suo volto”.
Roberto
Trifirò
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