The experimental cinema   Cinema of the new ...

 

 

A CALL FOR A NEW GENERATION OF FILM-MAKERS

 

La creazione dell’ Indipendent Film Awards fu accompagnata da un articolo intitolato “A Call for a New Generation of Film-makers”, nel quale si festeggiava la nascita di “una nuova generazione di film-makers  capace di far risorgere lo spirito libero del cinema americano e,  di proclamare la morte di Hollywood:

“The establishment of the Indipendent Film Award marks the entrance of a new generation of film-makers into American cinema.

The time has long been ripe for it. We had expected it to happen with the breaking up of the Hollywood monolith into small, indipendent film companies. But our hopes proved to be only whishful thinking. Most indipendent companies soon became small Hollywoods in themselves.”[1]

Mekas sottolinea  il fatto che le uniche produzioni libere erano state fino a quel momento “the short experimental film”, ma che anche queste erano degenerate in un genere. Essi aveva tenuto vivo lo spirito di un cinema libero ma, per superare il dominio dei film hollywoodiani, c’era bisogno di un movimento più grande di quello dei film-makers sperimentali.

 

“We think that such a movement is about to begin.

The first signs of a larger stir up are visible. Several dramamatic films, some already completed, some about to be finished in coming months _film such as John Cassavetes’s Shadows, Morris Engel’s Wedding and Babies, Alfred Leslie and Robert Frank’s  Pull my Daisy, (...)_ clearly point up a new spirit in American  cinema: a spirit that is akin to that which guides the young British film-makers centred around Free Cinema, a spirit that is being felt among the French film newcomers such as Claud Chabrol, Alexander Astruc, Francois Truffaut (...), and a spirit which is chaging the face of the young Polish cinema.”[2]

  Fondamentalmente tutti questi generi possedevano caratteristiche comuni: essi diffidavano e detestavano il cinema ufficiale e cercavano di liberarsi dal troppo professionismo, facendosi guidare dall’intuizione e dall’improvvisazione. Ovviamente tutto questo andava contro le regole ufficiali e quindi questi film-makers verranno sempre più criticati, “however, they come closer to the truth with their nakedness than the “professionals” with their pretentious expensiveness”.[3]

“It is wrong to belive (Cocteau said it long ago) that good films can be made in 35mm only, as it is wrong to believe that only the 16mm experimental film-makers can be really free.

John Cassavetes’s film Shadows proves that a feature film can be made with only $15,000. And a film that doesn’t betray life or cinema. What does it prove? It proves that we can make our films now and by ourselves. Hollywood and miniature Hollywoods of our “indipendents” will never make our films.”[4]

E’ dunque tempo secondo Mekas “to bring our film up to date”[5]. L’unica speranza per un cinema veramente libero sta nelle mani della nuova generazione di film-maker.

In questo articolo Mekas attribuisce al cinema indipendente della scuola di New York un posto eminente nel piano di elaborazione e creazione del New American Cinema. I componenti di questo gruppo, alla stregua dei colleghi inglesi e francesi, si erano impegnati, sin dall’inizio degli anni cinquanta, nel testimoniare il nascente spirito cinematografico attraverso la produzione di opere che stavano tra il documentario e il cinema a soggetto e, che venivano prodotte e distribuite al di fuori del circuito hollywoodiano.

Il primo film indipendente che ricordiamo è The Quite One (1949) di Sidney Meyers, in cui attraverso la documentarizzazione romanzata  della storia di un giovane di colore disadattato, l’autore cercava di mostrare con autenticità un aspetto della vita ad Harlem.

Quest’opera si rifà sostanzialmente a due matrici artistiche ed ideologiche ben precise: da un lato c’è la tradizione democratica del New Deal (Sidney Meyers aveva fatto parte della Frontier Film, che negli anni 30-40, aveva realizzato una serie di documentari impegnati sia in campo politico che sociale), dall’altro lato c’è il neorealismo italiano, la cui uscita sugli schermi americani incise profondamente sull’esperienza culturale ed artistica dei film-maker indipendenti.

Queste due componenti si esaurirono progressivamente durante gli anni d’involuzione ideologica dell’epoca di Eisenauer.

Assieme a The Quite One vengono citati anche The Little Fuggitive (1953) di Morris Engel, che racconta le rocambolesche tribolazioni di un adolescente su una spiaggia della California, e On the Bowery (1956) di Lionel Rogosin, basato sull’osservazione reale della vita di un barbone alcolizzato e in cui i critici riconoscono “un documento sconvolgente e senza precedenti nella storia del cinema”. [6]

In generale i film-maker indipendenti  “si sforzavano di cogliere la realtà nel suo divenire, una realtà priva di melodramma e di artifici, portando così il loro contributo a questo resoconto autentico della vita che è uno degli scopi più evidenti e più naturali dell’espressione filmica”. [7]

Ciò non toglie però che questo genere soffrisse enormemente del peso politico e culturale che caratterizzavano l’America a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta. Nato infatti durante il periodo ottimistico del New Deal, le storie che raccontava se pur di forte “impegno” e denuncia sociale, finivano sempre in modo positivo, circondate da quell’aurea di speranza che avvolgeva il paese. Con la fine di questo periodo e l’inizio dell’era di Eisenauer incominciò l’involuzione dovuta alla crisi dei valori, e in ogni campo artistico essa si fece sentire attraverso la contestazione, la denuncia sociale ed un forte impegno di reazione al sistema.

“Gli anni  ’50 sono gli anni dello sconforto, del malessere della sickness profonda e inafferrabile, dell’incertezza e della paura. E i Beats le sensibilissime antenne di questa realtà.” [8]

Il clima storico in cui si formò la Beat Generation era un clima di violenza, “una violenza che dalle idee si estendeva agli uomini che la professavano”. [9]

Davanti ad un mondo così, mentre le vecchie generazioni si abbandonavano allo sconforto, la nuova generazione, la beat generation, prodotto di tale mondo, decise di reagire.

“La reazione è dunque un misto di cinismo e durezza esteriore, di amarezza e volontà interiori, di combattere l’ovvietà e falsità delle generazioni adulte con una gamma di armi che vanno dalla provocazione alla negazione, dall’attacco all’autodistruzione...”.[10]

La prima espressione fu dunque di denuncia esistenziale, sofferta, urlata, un’affermazione di un complesso di non-comunicazione e non-regole, di totale abbandono di tutti i canoni e delle norme borghesi, di rifiuto di ogni controllo intellettuale.

Poi negli anni che chiudevano i cinquanta e aprivano i sessanta, “la beat generetion si riconobbe al  di fuori delle soffitte dei poeti; la poesia toccò i non-poeti, cessando finalmente d’essere un’esperienza individuale e personale, per diventare un linguaggio collettivo”.[11]

In campo cinematografico questo nuovo linguaggio si fece sentire attraverso l’abbandono della pura denuncia in nome della verità, e nel giro di dieci anni la nuova generazione di cineasti indipendenti fu pronta a mostrare senza stratagemmi la vera società americana.

Le opere fondamentali di questo gruppo, ben presto etichettato sotto il nome di Scuola di New York, perché nacque e si sviluppò in questa città, avevano mantenuto la struttura di docu-dramma dei precedenti film indipendenti; entrambi possedevano aspetti comuni, come l’improvvisazione, l’alogicità e l’incoerenza, e portavano avanti quella ricerca espressiva già inneggiava dai Beat, di rifiuto della morale borghese e dei codici formali dell’arte e dell’intreccio narrativo. I film erano creati durante le riprese e i personaggi si definivano nel corso del girato, senza una sceneggiatura prefissata, nella continua ricerca dell’improvvisazione.

Fra i film più riusciti di questo genere bisogna nominare: Pull my Daisy  (1958) di Alfred Leslie e Robert Frank e Shadow  (1958) di John Cassavetes, che vinsero entrambi l’ Indipendent Film Award e The Connection (1961) di Shirley Clarke.

Per quanto riguarda i primi due Jonas li recensisce in un articolo del 1960 ( Film Culture no. 21) dopo averli messi in una lista che contiene a suo parere i film che rappresentano maggiormente il cinema americano contemporaneo.

“Shadows è un film ad episodi senza una storia girato senza una sceneggiatura.”[12] Esso fu girato in 16mm per un costo di circa 15,000 dollari e a causa della reazione dei distributori, durante la prima proiezione, ne esistono due versioni: l’originale e una copia “ibrida, che non aveva della prima versione né la spontaneità, né l’innocenza, né la freschezza”.[13]

Secondo Mekas Shadows (prima versione) aveva espresso alcuni di quegli elementi che “sono caratteristiche essenziali del New American Cinema e che , molto spesso, corrispondono a quelle dei registi della Nouvelle Vague[14]. In particolare esso si basava sulla teoria dell’improvvisazione: ”dal momento che non esisteva  un copione scritto, gli attori dovevano improvvisare sul momento la maggior parte delle loro battute. Il linguaggio, le situazioni e gli avvenimenti avevano tutta la freschezza dell’improvvisazione”.[15]

  I punti deboli di questo film “sono quelli di ogni tentativo nuovo, di ricerca di notorietà in un terreno fertile e sconosciuto[16], d’altra parte però le imperfezioni e la mancanza di professionalità creano anche  quello stile caratteristico che  rende autentico Cassavetes.

“Pull my Daisy ( diretto da R. Frank e A. Leslie) è una libera improvvisazione su una scena tratta da una commedia mai rappresentata di J. Kerouac.”[17] Mekas sottolinea che uno degli elementi più interessanti di questo film è il sonoro, infatti esso fu girato muto, mentre la voce di Kerouac doppiava tutti i personaggi commentando liberamente anche le loro azioni. I commenti di Kerouac hanno “un’immediatezza, una poesia e una magia che sono senza precedenti nel cinema americano”.[18]

Pull my Daisy è “il ritratto della condizione più intima di un’intera generazione. Potrebbe quasi essere considerato un film beat _è l’unico vero film beat, se mai ce ne fosse uno_ intendendo per beat l’espressione del rifiuto inconscio e spontaneo della nuova generazione nei confronti della classe media, degli uomini d’affari.”[19]

Per quanto riguarda The Connection Mekas ne parla in un articolo del 1962 ; egli nota che sebbene questo film si possa criticare da un punto di vista formale, “per il suo pirandellismo che meglio si adatta al palcoscenico che non allo schermo[20], esso rimane importante per quel tentativo che porta avanti  di arrivare a un nuovo contenuto, a una nuova realtà sullo schermo. Il film è stato plasmato in una grande unità filmica con uno stile molto personale che gli fa guadagnare un posto importante negli annali del cinema indipendente”.[21]



[1] Mekas, Jonas, “A Call for a New Generation of Film Makers” , Film Culture, No. 19, 1959, pp.1-3. (Anche in P. Adams Sitney, Film Culture Reader op. cit., pp. 73-75.)

Traduzione: “La nascita dell’Indipendent Film Award segna l’entrata di una nuova generazione di film-makers nel cinema americano.

   Il tempo è ormai maturo avevamo sperato che ciò accadesse con la rottura del monopolio di Hollywood in tante piccole compagnie. Ma le nostre speranze non furono che desideri. La maggior parte delle compagnie “indipendenti” presto divennero tante piccole Hollywood.”

[2] Ibidem.

Traduzione: “Noi pensiamo che un movimento come questo stia per nascere.

  I primi segni di una più grande attivazione sono visibili. Numerosi film drammatici, alcuni già completati, alcuni che lo saranno nei mesi a venire _(...)_ chiaramente testimoniano un nuovo spirito nel cinema americano: quello stesso spirito che già rianima i giovani film-maker inglesi raggruppati intorno al Free Cinema, uno spirito che è già possibile sentire fra i nuovi arrivati del cinema francese come (...) e quello spirito che sta cambiando faccia al giovane cinema polacco.”

[3] Ibidem.

Traduzione: “Comunque essi stanno arrivando più vicini alla verità con le loro nudità dei “professionisti” con i loro pretenziosi costi elevati.”

[4] Ibidem.

Traduzione: “E’ sbagliato credere (lo disse Cocteau tempo fa) che i buoni film possono essere solo in 35mm, come è sbagliato credere che solo i film sperimentali in 16mm possono essere liberi.

  Il film di John Cassavetes Shadows prova inoltre che la realizzazione di un’opera cinematografica può essere fatta con i soli 15,000 dollari. Ed è un film che non trascende la vita o il cinema. Cosa prova ciò? Che noi possiamo finalmente fare film da noi stessi. Hollywood e le piccole Hollywood dei nostri cosiddetti “indipendenti” non potranno mai fare i nostri  film.”

[5] Ibidem.

Traduzione: “portare i nostri film all’appuntamento”.

[6] Mitry, J., La storia del cinema sperimentale op. cit., pag. 247.

[7] Ibidem, pag. 246.

[8] Maffi, Mario, La cultura underground, Vol. I, Universale Laterza, Roma-Bari, 1980, pag. 3.

[9] Ibidem, pag. 5.

[10] Ibidem, pp. 6-7.

[11] Ibidem, pag. 15.

[12] Mekas, Jonas, “Il cinema della nuova generazione”, in P. Bertetto, Il grande occhio della notte, op. cit., pp. 162-163.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem, pp. 164-165.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Mekas, Jonas, “Note sul nuovo cinema americano”, in Paolo Bertetto, Il grande occhio della notte op. cit., pag.  174.

[21] Ibidem.

 

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Aggiornato il: 03-03-2000 .