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Michele Saba in una foto del quotidiano La Nuova Sardegna


 

Speciale "Michele Saba (1891-1957)"

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Aldo Borghesi - Michele Saba, o l’elogio dell’ “inattualità”

1. Nel ricordo dei contemporanei.

La scomparsa di Michele Saba - il cui cinquantesimo anniversario è caduto all’inizio dello scorso mese di ottobre - fu vissuta dal quotidiano cittadino “La Nuova Sardegna” come un autentico lutto di famiglia: si trattava infatti di uno degli esponenti di maggiore esperienza del mondo giornalistico sassarese, e non solo, che aveva iniziato a scrivere appena ragazzo sul quotidiano fondato dagli allora repubblicani Garavetti, Moro e Berlinguer, di cui era successivamente divenuto – come corrispondente de “Il Giornale d’Italia” e magna pars della pagina sarda - un temibile avversario politico e giornalistico, innescando una rivalità protrattasi non senza asprezze sino al fascismo.

Dopo il regime e l’esperienza de ”L’Isola” antifascista, nell’ambito de “La Nuova Sardegna” Saba era non solo una firma di prestigio, ma anche un collaboratore attento, acuto che non disdegnava di misurarsi con il medesimo impegno sia sul terreno della cronaca e della polemica, sia su quello della terza pagina culturale. Ad un mese dalla morte, il giornale dedicò al suo ricordo due intere pagine [vedi il file pdf]: tra i contributi (che recavano le firme di stelle di prima grandezza della politica e della cultura non solo sarda, da Antonio Segni ad Emilio Lussu, da Randolfo Pacciardi a Giovanni Ansaldo), spiccavano i lunghi articoli di due esponenti quanto mai rappresentativi delle generazioni che, nel secondo dopoguerra, si sarebbero avvicendate alla guida della “Nuova”. Arnaldo Satta – figlio di uno dei fondatori del giornale, protagonista della svolta antifascista del 1923 e della rinascita dopo il regime e la guerra - ripercorreva il percorso intellettuale e politico di Michele Saba, tracciando nel contempo un ricordo accorato dell’amico. Aldo Cesaraccio – che sarà direttore negli anni Sessanta e Settanta - rievocava le circostanze in cui aveva conosciuto Saba, cui era stato indirizzato agli inizi della carriera e nel pieno del regime per cercare informazioni e riferimenti presso quello che veniva considerato un archivio vivente del giornalismo italiano. La figura di Saba così come veniva delineata da Cesaraccio rifletteva senz’altro il punto di vista della generazione successiva, ponendo in risalto la lezione giornalistica di rigore ed impegno che egli aveva impartito ai colleghi più giovani, con atteggiamento di profondo rispetto ma anche con la evidente consapevolezza della distanza che i nuovi tempi già avvertivano rispetto a esperienze del genere di quella di Saba. Nello stesso solco – fra il ricordo affettuoso e la coscienza dei mutamenti avvenuti nella politica e nel giornalismo - si muovono i contributi ospitati nel 1967 da “La Nuova Sardegna” per il decennale della morte, di Aldo Berlinguer, Gonario Pinna e Giuseppe Melis Bassu  [vedi nel nostro sito]. 

2. Uomo di un'altra epoca.

Rilette oggi, quelle pagine del 1957 mostrano inesorabilmente tutta la loro distanza dalla dimensione attuale e sembrano appartenere ad un mondo assai più remoto del mezzo secolo che ce ne separa. Non solo per lo stile giornalistico spesso ampolloso e laudativo, come d’altra parte era allora costume per intellettuali e militanti politici chiamati a salutare per l’ultima volta un coetaneo che li precede nel grande viaggio; ma soprattutto per le passioni e i valori che vi vengono espressi, ancora vivi e vitali per la generazione che aveva conosciuto la Grande Guerra ed attraversato il fascismo dal sorgere alla caduta, mentre quella che oggi conosce la maturità li considera alla stregua di un armamentario culturale pressoché inservibile ad analizzare la realtà circostante e soprattutto ad strutturare un modo individuale (e tanto meno collettivo) di rapportarsi ad essa.

Sono passati cinquant’anni. Nel 1957 la Repubblica non aveva ancora aggettivi, se non quello di democratica; non era la prima, perché non era prevista l’eventualità che le succedesse una seconda. Era una creatura poco più che decenne, dai passi incerti e claudicanti, tuttora costretta a fronteggiare nostalgie monarchiche in grado di raccogliere consensi nell’ordine del 5 per cento dell’elettorato, ancora superiori in Sardegna, più che triplicati a Sassari. Aveva senz’altro in parte deluso le aspettative di quanti (Michele Saba tra gli altri) la avevano pensata e auspicata quale storica rottura in senso democratico in una storia d’Italia segnata da pesanti continuità negli assetti di potere e nelle sperequazioni sociali e territoriali Ma costituiva ancora agli occhi di una grande maggioranza di cittadini - si collocassero essi in campo laico o cattolico, moderato o avanzato - una prospettiva di cambiamento in larga misura intatta e vitale, un’istituzione dai sani fondamenti (la Costituzione) che era necessario realizzare con scelte politiche coraggiose e incisive.

Altrettanto si poteva dire in Sardegna per l’autonomia regionale; agli albori della terza legislatura consiliare, la Regione mostrava già i segni di quei mali di burocratizzazione, clientelismo e scarsa efficienza che avrebbero sortito più tardi i noti effetti devastanti; ma era pur sempre considerata dai sardi di buona volontà uno strumento fondamentale per governare il processo di crescita e di cambiamento: per costruire quella “rinascita” nella quale speravano e per la quale studiavano ed operavano con approcci e modalità diverse, donne e uomini di diversa estrazione culturale, ideale, professionale. 

3. Sulle rovine della Repubblica e dell’autonomia.

Quale campo di macerie abbia lasciato, di lì a un paio di decenni, il crollo di queste speranze, quanto sia difficile - nella confusione delle idee e delle lingue - ricominciare a tracciare percorsi che ce ne portino fuori, come piccola comunità sarda e grande italiana, è desolatamente sotto gli occhi di tutti. A rileggere quegli scritti, e persino il necrologio assai meno di circostanza con cui, per mano di Antonio Pigliaru, la nuova generazione di intellettuali dava nella pagine di “Ichnusa” il suo saluto a Saba [vedi nel nostro sito], si deve constatare che nemmeno i termini e i loro significati possono più essere assunti come punti fermi. A parte il richiamo che vi si fa ad un nome oggi sconosciuto ai più, come quello di Gaetano Salvemini (irriducibile non alla realtà quotidiana del confronto politico odierno, ma persino ai suoi presupposti morali; e come tale efficacissimo antidoto, nei suoi scritti, contro di essi); a parte il richiamo al valore - in Saba così pervasivo - di un impegno politico vissuto anzitutto come disinteressato impegno ideale, e che tale è rimasto oggi per minoranze esigue, ininfluenti e persino sbeffeggiate, quale che sia il campo nel quale hanno deciso di collocarsi; gli stessi nomi con cui queste passioni, questi valori, questo impegno vengono designati – “repubblicano”, “socialista”, “liberale”, “mazziniano”, persino “antifascista”  – appartengono ad un lessico che per generazioni di italiani ormai da tempo approdate all’età adulta non ha valore corrente, e rappresentano tutt’al più reperti culturali da andare ad investigare su un dizionario specializzato o un libro di storia (i pochi che abbiano la pazienza e le basi culturali per farlo).

Non solo sono sostanzialmente finite le realtà associative – culturali, politiche o di altra natura – che di essi si servivano per designare ed affermare una propria identità, per dire agli altri “io sono questo, ritengo questo giusto e valido e lavoro per affermarlo, sbagliato quest’altro e mi batto per impedire che si realizzi”; ma i termini stessi hanno perso il loro senso, sono divenuti significanti a cui non corrispondono più gli stessi significati, o talvolta vi corrispondono capovolti. È persino troppo semplice, un tiro al piccione ormai scontato, discettare su cosa nell’arco della storia della Repubblica significasse e sia passata a significare la parola “socialista”. Ma è lecito domandarsi in quale misura il termine “repubblicano” possa oggi accomunare un Michele Saba – mazziniano nei fondamenti ultimi della sua coscienza politica e morale, collocato a sinistra per valori comportamenti e scelte di campo, misurato negli atteggiamenti ma al tempo stesso ben lontano da qualsiasi moderatismo di marca liberale o clericale, personalmente integerrimo e del tutto lontano da obiettivi di interesse personale nel proprio comportamento politico – non solo allo spettacolo desolante del tardo repubblicanesimo successivo a Tangentopoli, ma persino al clima del PRI negli anni Ottanta, che pure affermava di volersi riconoscere in molti di quei valori e farsene portatore nel confronto politico e civile?  

Se una rivista come “Ichnusa”, all’indomani della morte, si poneva di fronte alla figura di Michele Saba interpretandola nella chiave di una già allora palese “inattualità”, si può agevolmente comprendere in quale misura questa si sia oggi moltiplicata e ingigantita. Quanti, anche fra i cittadini dotati di una preparazione culturale di livello medio e in un paese pur assai più scolarizzato di allora, sono oggi in grado di cogliere e intendere nella loro importanza i tratti caratterizzanti della personalità di un Michele Saba, il senso del suo percorso politico e culturale, i fondamenti delle sue scelte di vita civile?  E in quale (purtroppo ampia) misura questa domanda potremmo ripeterla anche per personalità assai più note nel panorama regionale, e delle più diverse estrazioni? Per un Antonio Segni o un Emilio Lussu, un Renzo Laconi o un Sebastiano Dessanay, un Francesco Cocco Ortu o un Umberto Cardia? E per un Randolfo Pacciardi, un Ugo La Malfa, un Alcide De Gasperi, un Pietro Nenni, un Palmiro Togliatti, un Riccardo Lombardi, un Ernesto Rossi? 

4. Una “inattualità” preziosa.

Eppure a volerci riflettere sopra, rileggendo con attenzione lo scritto di “Ichnusa” e adeguatamente storicizzandolo, se c’è qualcosa che oggi la figura di Michele Saba può positivamente comunicare a un giovane, qualcosa in grado di far sì che un italiano o un sardo sotto i quarant’anni riesca a trovarla una figura positiva e persino, come allora i giovani di “Ichnusa”, “affascinante”, questa è proprio la sua inattualità. Perché senz’altro non tutti, ma buona parte degli italiani e dei sardi di oggi, sia delle generazioni che hanno conosciuto l’impegno politico nei primi decenni della Repubblica e si ricordano bene il significato di quei termini – che anche per loro è stato alla base scelte di valori e di vita – sia di quelle venute più tardi al confronto civile o che ad esso si affacciano, nella attualità così come essa si presenta oggi nei termini concreti e reali della vita politica italiana, non ci si ritrovano e non ci si riconoscono. E lo manifestano, o cercano di manifestarlo, seppure con modalità spesso incerte, inconcludenti, contraddittorie: perché in quale altro senso possono essere interpretate le cicliche ondate di entusiasmo per quell’uomo o quel gruppo che appaiono essere in grado di farsi strumenti e protagonisti di cambiamento ? Le repentine ascese sulla cresta dell’onda di Segni e dei referendari durante Tangentopoli, di Forza Italia nel 1994, del primo Ulivo un paio d’anni dopo, dei Girotondi, del Soru a cavallo del 2004 e, oggi e su fronti tra loro opposti, del Partito Democratico e della leadership Brambilla, o dello stesso Grillo?

Certo, oggi quei termini non ci sono più e soprattutto hanno perso nitidezza i valori che essi incarnavano; non può d’altra parte che presentare serie difficoltà il voler far conseguire scelte di vita caratterizzanti e immediatamente riconoscibili dallo schierarsi con ciò che oggi prende il nome di “destra” o ciò che prende il nome di “sinistra”, impegnati a quanto pare soprattutto nel cercare di rassomigliarsi il più possibile. E con le parole sono finiti anche gli strumenti che ad esse corrispondevano: quei partiti politici e quelle associazioni che erano senza dubbio, già all’epoca di Saba, apparati di potere e carrozzoni burocratici, ma rappresentavano in pari tempo scuole di vita in cui attraverso il contatto con gli altri e l’azione civile si maturava un’identità, si imparava ad essere, e ad essere diversi dagli altri; a conviverci ma ad avere caratteristiche proprie, io socialista, tu democristiano, altri comunista, o repubblicano, liberale, e finanche missino. Molto più che essere scuola di impegno, la lotta politica sembra oggi insegnare ad assistere passivamente ai discorsi altrui, a scegliersi un leader di qualsivoglia colore a cui comunque obbedire, a schierarsi ringhiosamente sul niente, o su una sigla qualsiasi, come in una grande ed inquietante Curva nord.

Ed allora, in un momento storico e in una dimensione civile attuali, nei quali si deve stare ma non ci si sta bene, l’inattualità di Michele Saba diventa una scoperta preziosa: che in Italia ci siano stati uomini e donne diversi; che ci siano stati a Sassari, e siano stati capaci di resistere all’ “ironia” di una “città «divertita»” (oggi anche nel senso di priva di indirizzo e in montante crisi di identità), al richiamo a un disimpegno o a un impegno interessato cui spinge, oggi come allora, il “mondo delle politiche provinciali, cosi spesso morbidamente corrotto e senza ispirazioni effettive, cosi spesso accomodante e di facile contentatura” in cui il grado di conformismo e mediocrità nel confronto civile è piuttosto cresciuto che diminuito; e nel resto della Sardegna – e dell’Italia - purtroppo le cose non stanno altrimenti. 

5. Michele Saba e il rinnovamento della politica.

Ripercorriamo la biografia di Saba, riprendiamo i termini chiave della sua figura così come ce li consegna “Ichnusa”: “interiore fedeltà politica”; “rigore”; “impegno”; sacrificio di “ogni interesse ed ogni ambizione personale”; “politica dominata più da ragioni del cuore che da quelle fredde e lucide dell'intelligenza” (o dell’interesse, ci permettiamo di aggiungere); “volontà totale di partecipazione”. Pensiamoci bene, al di là di ogni vana logica di etichette o mode culturali: ma non è questa la politica che vogliamo? E scopriamo che c’è chi l’ha fatta, nella nostra terra e nella nostra città: minoritario e sconfitto certo: ma quelli che hanno vinto, quelli che sono sempre così numerosi, sono gli stessi il cui potere ha creato la situazione attuale e malgrado tutto non molla di un pollice nel pretendere di riprodurre se stesso.

E allora non resta che armarsi di buona volontà e cercare di capire chi era, cosa voleva, cosa  è riuscito a fare, questo Michele Saba; e con lui i molti altri che come lui ci furono, nel suo piccolo partito e ancora più fuori di esso, in Sardegna e in Italia. Non solo e non tanto per seguire l’indirizzo di ricerca indicato da “Ichnusa”, e costruire “uno dei documenti più interessanti e importanti sulla classe dirigente meridionale, sulla classe dirigente sarda della prima «levata» del secolo”: che è un obiettivo affascinante, certo, ed anche socialmente utile, ed è tuttavia compito specifico di intellettuali e di studiosi; ma soprattutto per riflettere su cosa questo paese, questa terra, questa città sono stati, su cosa sono, su cosa potrebbero essere. E riprendere, dopo tanti giri a vuoto tanti scivoloni, una strada di riflessione, di educazione politica, di impegno e di battaglia civile a percorrere la quale, malgrado tutto, non si riesce mai a sentirsi soli: visto che prima di noi, lontani solo nel tempo, vi hanno camminato tanti uomini come Michele Saba.

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