|
||||||
|
|
|
||||
|
|
|||||
|
Michele Saba in una foto del quotidiano La Nuova Sardegna
Aldo Borghesi - Michele
Saba, o l’elogio dell’ “inattualità”
1. Nel
ricordo dei contemporanei.
La
scomparsa di Michele Saba - il cui cinquantesimo anniversario è caduto
all’inizio dello scorso mese di ottobre - fu vissuta dal quotidiano
cittadino “La Nuova Sardegna” come un autentico lutto di famiglia: si
trattava infatti di uno degli esponenti di maggiore esperienza del mondo
giornalistico sassarese, e non solo, che aveva iniziato a scrivere appena
ragazzo sul quotidiano fondato dagli allora repubblicani Garavetti, Moro e
Berlinguer, di cui era successivamente divenuto – come corrispondente de
“Il Giornale d’Italia” e magna
pars della pagina sarda - un temibile avversario politico e
giornalistico, innescando una rivalità protrattasi non senza asprezze
sino al fascismo. Dopo
il regime e l’esperienza de ”L’Isola” antifascista, nell’ambito
de “La Nuova Sardegna” Saba era non solo una firma di prestigio, ma
anche un collaboratore attento, acuto che non disdegnava di misurarsi con
il medesimo impegno sia sul terreno della cronaca e della polemica, sia su
quello della terza pagina culturale. Ad un mese dalla morte, il giornale
dedicò al suo ricordo due intere pagine [vedi
il file pdf]: tra i contributi (che recavano le firme di stelle
di prima grandezza della politica e della cultura non solo sarda, da
Antonio Segni ad Emilio Lussu, da Randolfo Pacciardi a Giovanni Ansaldo),
spiccavano i lunghi articoli di due esponenti quanto mai rappresentativi
delle generazioni che, nel secondo dopoguerra, si sarebbero avvicendate
alla guida della “Nuova”. Arnaldo Satta – figlio di uno dei
fondatori del giornale, protagonista della svolta antifascista del 1923 e
della rinascita dopo il regime e la guerra - ripercorreva il percorso
intellettuale e politico di Michele Saba, tracciando nel contempo un
ricordo accorato dell’amico. Aldo Cesaraccio – che sarà direttore
negli anni Sessanta e Settanta - rievocava le circostanze in cui aveva
conosciuto Saba, cui era stato indirizzato agli inizi della carriera e nel
pieno del regime per cercare informazioni e riferimenti presso quello che
veniva considerato un archivio vivente del giornalismo italiano. La figura
di Saba così come veniva delineata da Cesaraccio rifletteva senz’altro
il punto di vista della generazione successiva, ponendo in risalto la
lezione giornalistica di rigore ed impegno che egli aveva impartito ai
colleghi più giovani, con atteggiamento di profondo rispetto ma anche con
la evidente consapevolezza della distanza che i nuovi tempi già
avvertivano rispetto a esperienze del genere di quella di Saba. Nello
stesso solco – fra il ricordo affettuoso e la coscienza dei mutamenti
avvenuti nella politica e nel giornalismo - si muovono i contributi
ospitati nel 1967 da “La Nuova Sardegna” per il decennale della morte,
di Aldo Berlinguer, Gonario Pinna e Giuseppe Melis Bassu
[vedi nel nostro
sito]. 2. Uomo di
un'altra epoca.
Rilette
oggi, quelle pagine del 1957 mostrano inesorabilmente tutta la loro
distanza dalla dimensione attuale e sembrano appartenere ad un mondo assai
più remoto del mezzo secolo che ce ne separa. Non solo per lo stile
giornalistico spesso ampolloso e laudativo, come d’altra parte era
allora costume per intellettuali e militanti politici chiamati a salutare
per l’ultima volta un coetaneo che li precede nel grande viaggio; ma
soprattutto per le passioni e i valori che vi vengono espressi, ancora
vivi e vitali per la generazione che aveva conosciuto la Grande Guerra ed
attraversato il fascismo dal sorgere alla caduta, mentre quella che oggi
conosce la maturità li considera alla stregua di un armamentario
culturale pressoché inservibile ad analizzare la realtà circostante e
soprattutto ad strutturare un modo individuale (e tanto meno collettivo)
di rapportarsi ad essa. Sono
passati cinquant’anni. Nel 1957 la Repubblica non aveva ancora
aggettivi, se non quello di democratica; non era la prima,
perché non era prevista l’eventualità che le succedesse una seconda.
Era una creatura poco più che decenne, dai passi incerti e claudicanti,
tuttora costretta a fronteggiare nostalgie monarchiche in grado di
raccogliere consensi nell’ordine del 5 per cento dell’elettorato,
ancora superiori in Sardegna, più che triplicati a Sassari. Aveva
senz’altro in parte deluso le aspettative di quanti (Michele Saba tra
gli altri) la avevano pensata e auspicata quale storica rottura in senso
democratico in una storia d’Italia segnata da pesanti continuità negli
assetti di potere e nelle sperequazioni sociali e territoriali Ma
costituiva ancora agli occhi di una grande maggioranza di cittadini - si
collocassero essi in campo laico o cattolico, moderato o avanzato - una
prospettiva di cambiamento in larga misura intatta e vitale,
un’istituzione dai sani fondamenti (la Costituzione) che era necessario
realizzare con scelte politiche coraggiose e incisive. Altrettanto
si poteva dire in Sardegna per l’autonomia regionale; agli albori della
terza legislatura consiliare, la Regione mostrava già i segni di quei
mali di burocratizzazione, clientelismo e scarsa efficienza che avrebbero
sortito più tardi i noti effetti devastanti; ma era pur sempre
considerata dai sardi di buona volontà uno strumento fondamentale per
governare il processo di crescita e di cambiamento: per costruire quella
“rinascita” nella quale speravano e per la quale studiavano ed
operavano con approcci e modalità diverse, donne e uomini di diversa
estrazione culturale, ideale, professionale. 3. Sulle
rovine della Repubblica e dell’autonomia.
Quale
campo di macerie abbia lasciato, di lì a un paio di decenni, il crollo di
queste speranze, quanto sia difficile - nella confusione delle idee e
delle lingue - ricominciare a tracciare percorsi che ce ne portino fuori,
come piccola comunità sarda e grande italiana, è desolatamente sotto gli
occhi di tutti. A rileggere quegli scritti, e persino il necrologio assai
meno di circostanza con cui, per mano di Antonio Pigliaru, la nuova
generazione di intellettuali dava nella pagine di “Ichnusa” il suo
saluto a Saba [vedi
nel nostro sito], si deve constatare che nemmeno i termini e i
loro significati possono più essere assunti come punti fermi. A parte il
richiamo che vi si fa ad un nome oggi sconosciuto ai più, come quello di
Gaetano Salvemini (irriducibile non alla realtà quotidiana del confronto
politico odierno, ma persino ai suoi presupposti morali; e come tale
efficacissimo antidoto, nei suoi scritti, contro di essi); a parte il
richiamo al valore - in Saba così pervasivo - di un impegno politico
vissuto anzitutto come disinteressato impegno ideale, e che tale è
rimasto oggi per minoranze esigue, ininfluenti e persino sbeffeggiate,
quale che sia il campo nel quale hanno deciso di collocarsi; gli stessi
nomi con cui queste passioni, questi valori, questo impegno vengono
designati – “repubblicano”, “socialista”, “liberale”,
“mazziniano”, persino “antifascista”
– appartengono ad un lessico che per generazioni di italiani
ormai da tempo approdate all’età adulta non ha valore corrente, e
rappresentano tutt’al più reperti culturali da andare ad investigare su
un dizionario specializzato o un libro di storia (i pochi che abbiano la
pazienza e le basi culturali per farlo). Non
solo sono sostanzialmente finite le realtà associative – culturali,
politiche o di altra natura – che di essi si servivano per designare ed
affermare una propria identità, per dire agli altri “io sono questo, ritengo questo
giusto e valido e lavoro per affermarlo, sbagliato quest’altro e mi batto per impedire che si realizzi”; ma i
termini stessi hanno perso il loro senso, sono divenuti significanti a cui
non corrispondono più gli stessi significati, o talvolta vi corrispondono
capovolti. È persino troppo semplice, un tiro al piccione ormai scontato,
discettare su cosa nell’arco della storia della Repubblica significasse
e sia passata a significare la parola “socialista”. Ma è lecito
domandarsi in quale misura il termine “repubblicano” possa oggi
accomunare un Michele Saba – mazziniano nei fondamenti ultimi della sua
coscienza politica e morale, collocato a sinistra per valori comportamenti
e scelte di campo, misurato negli atteggiamenti ma al tempo stesso ben
lontano da qualsiasi moderatismo di marca liberale o clericale,
personalmente integerrimo e del tutto lontano da obiettivi di interesse
personale nel proprio comportamento politico – non solo allo spettacolo
desolante del tardo repubblicanesimo successivo a Tangentopoli, ma persino
al clima del PRI negli anni Ottanta, che pure affermava di volersi
riconoscere in molti di quei valori e farsene portatore nel confronto
politico e civile? Se
una rivista come “Ichnusa”, all’indomani della morte, si poneva di
fronte alla figura di Michele Saba interpretandola nella chiave di una già
allora palese “inattualità”, si può agevolmente comprendere in quale
misura questa si sia oggi moltiplicata e ingigantita. Quanti, anche fra i
cittadini dotati di una preparazione culturale di livello medio e in un
paese pur assai più scolarizzato di allora, sono oggi in grado di
cogliere e intendere nella loro importanza i tratti caratterizzanti della
personalità di un Michele Saba, il senso del suo percorso politico e
culturale, i fondamenti delle sue scelte di vita civile?
E in quale (purtroppo ampia) misura questa domanda potremmo
ripeterla anche per personalità assai più note nel panorama regionale, e
delle più diverse estrazioni? Per un Antonio Segni o un Emilio Lussu, un
Renzo Laconi o un Sebastiano Dessanay, un Francesco Cocco Ortu o un
Umberto Cardia? E per un Randolfo Pacciardi, un Ugo La Malfa, un Alcide De
Gasperi, un Pietro Nenni, un Palmiro Togliatti, un Riccardo Lombardi, un
Ernesto Rossi? 4. Una
“inattualità” preziosa.
Eppure
a volerci riflettere sopra, rileggendo con attenzione lo scritto di
“Ichnusa” e adeguatamente storicizzandolo, se c’è qualcosa che oggi
la figura di Michele Saba può positivamente comunicare a un giovane,
qualcosa in grado di far sì che un italiano o un sardo sotto i
quarant’anni riesca a trovarla una figura positiva e persino, come
allora i giovani di “Ichnusa”, “affascinante”, questa è proprio la sua inattualità. Perché senz’altro non tutti, ma buona parte
degli italiani e dei sardi di oggi, sia delle generazioni che hanno
conosciuto l’impegno politico nei primi decenni della Repubblica e si
ricordano bene il significato di quei
termini – che anche per loro è stato alla base scelte di valori e
di vita – sia di quelle venute più tardi al confronto civile o che ad
esso si affacciano, nella attualità
così come essa si presenta oggi nei termini concreti e reali della vita
politica italiana, non ci si ritrovano e non ci si riconoscono. E lo
manifestano, o cercano di manifestarlo, seppure con modalità spesso
incerte, inconcludenti, contraddittorie: perché in quale altro senso
possono essere interpretate le cicliche ondate di entusiasmo per
quell’uomo o quel gruppo che appaiono essere in grado di farsi strumenti
e protagonisti di cambiamento ? Le repentine ascese sulla cresta
dell’onda di Segni e dei referendari durante Tangentopoli, di Forza
Italia nel 1994, del primo Ulivo un paio d’anni dopo, dei Girotondi, del
Soru a cavallo del 2004 e, oggi e su fronti tra loro opposti, del Partito
Democratico e della leadership Brambilla, o dello stesso Grillo? Certo,
oggi quei termini non ci sono più
e soprattutto hanno perso nitidezza i valori che essi incarnavano; non può
d’altra parte che presentare serie difficoltà il voler far conseguire
scelte di vita caratterizzanti e immediatamente riconoscibili dallo
schierarsi con ciò che oggi prende il nome di “destra” o ciò che
prende il nome di “sinistra”, impegnati a quanto pare soprattutto nel
cercare di rassomigliarsi il più possibile. E con le parole sono finiti
anche gli strumenti che ad esse corrispondevano: quei partiti politici e
quelle associazioni che erano senza dubbio, già all’epoca di Saba,
apparati di potere e carrozzoni burocratici, ma rappresentavano in pari
tempo scuole di vita in cui attraverso il contatto con gli altri e
l’azione civile si maturava un’identità, si imparava ad essere,
e ad essere diversi dagli altri; a conviverci ma ad avere caratteristiche
proprie, io socialista, tu democristiano, altri comunista, o repubblicano,
liberale, e finanche missino. Molto più che essere scuola di impegno, la
lotta politica sembra oggi insegnare ad assistere passivamente ai discorsi
altrui, a scegliersi un leader di qualsivoglia colore a cui comunque
obbedire, a schierarsi ringhiosamente sul niente, o su una sigla
qualsiasi, come in una grande ed inquietante Curva nord. Ed
allora, in un momento storico e in una dimensione civile attuali, nei quali si deve stare ma non ci si sta bene, l’inattualità
di Michele Saba diventa una scoperta preziosa: che in Italia ci siano
stati uomini e donne diversi;
che ci siano stati a Sassari, e siano stati capaci di resistere all’
“ironia” di una “città «divertita»” (oggi anche nel senso di priva
di indirizzo e in montante crisi di identità), al richiamo a un
disimpegno o a un impegno interessato cui spinge, oggi come allora, il
“mondo delle politiche provinciali, cosi spesso morbidamente corrotto e
senza ispirazioni effettive, cosi spesso accomodante e di facile
contentatura” in cui il grado di conformismo e mediocrità nel confronto
civile è piuttosto cresciuto che diminuito; e nel resto della Sardegna
– e dell’Italia - purtroppo le cose non stanno altrimenti. 5. Michele Saba e il rinnovamento della politica.
Ripercorriamo
la biografia di Saba, riprendiamo i termini chiave della sua figura così
come ce li consegna “Ichnusa”: “interiore
fedeltà politica”; “rigore”;
“impegno”; sacrificio di “ogni
interesse ed ogni ambizione personale”; “politica
dominata più da ragioni del cuore che da quelle fredde e lucide
dell'intelligenza” (o dell’interesse, ci permettiamo di
aggiungere); “volontà totale di
partecipazione”. Pensiamoci bene, al di là di ogni vana logica di
etichette o mode culturali: ma non è questa la politica che vogliamo? E
scopriamo che c’è chi l’ha fatta, nella nostra terra e nella nostra
città: minoritario e sconfitto certo: ma quelli che hanno vinto, quelli
che sono sempre così numerosi, sono gli stessi il cui potere ha creato la
situazione attuale e malgrado tutto non molla di un pollice nel pretendere
di riprodurre se stesso. E
allora non resta che armarsi di buona volontà e cercare di capire chi
era, cosa voleva, cosa è
riuscito a fare, questo Michele Saba; e con lui i molti altri che come lui
ci furono, nel suo piccolo partito e ancora più fuori di esso, in
Sardegna e in Italia. Non solo e non tanto per seguire l’indirizzo di
ricerca indicato da “Ichnusa”, e costruire “uno dei documenti più
interessanti e importanti sulla classe dirigente meridionale, sulla classe
dirigente sarda della prima «levata» del secolo”: che è un obiettivo
affascinante, certo, ed anche socialmente utile, ed è tuttavia compito
specifico di intellettuali e di studiosi; ma soprattutto per riflettere su
cosa questo paese, questa terra, questa città sono stati, su cosa sono,
su cosa potrebbero essere. E riprendere, dopo tanti giri a vuoto tanti
scivoloni, una strada di riflessione, di educazione politica, di impegno e
di battaglia civile a percorrere la quale, malgrado tutto, non si riesce
mai a sentirsi soli: visto che prima di noi, lontani solo nel tempo, vi
hanno camminato tanti uomini come Michele Saba. |
|||||
|
Questo sito e il blog collegato sono pubblicati sotto una Licenza Creative Commons
|