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Lussu con l'archeologo Giovanni Lilliu (a sinistra). Federico Francioni — Nazione, Autonomia e Federalismo in Emilio Lussu [I parte] -- II parte -- [Note .pdf] 4.
Con il trionfo del regime fascista l'idea di nazione sarda non subì una completa eclisse ma continuò a sopravvivere come appannaggio di circoli più o meno ristretti. Fra questi è da rammentare il gruppo che si raccolse intorno allo storico, scrittore, editore e libraio Raimondo Carta Raspi, animatore della fondazione «Il Nuraghe». Esso, oltre a mantenere accesa la fiaccola della «Federazione mediterranea», fu anche un centro di discussione democratica e antifascista. La
rivista «Il Nuraghe», che ne era emanazione, ospitava romanzi a puntate
-- autentici polpettoni -- la cui trama era ispirata ai clamorosi falsi
delle Carte d'Arborea; ma nei suoi fascicoli, va precisato, è
assente qualsiasi parola d'elogio nei confronti del fascismo. Questo in
fondo tollerò tale presenza dal momento che il culto delle glorie patrie
e del passato isolano, praticato dai «nuraghisti» (e mai trasformatosi
in vera opposizione politica) non doveva arrecargli eccessivo fastidio.
Tuttavia la rivista -- in cui è persistente una certa eredità del
sardismo «non allineato» -- fu quasi il contraltare oggettivo del «sardofascismo».
Ad esso diedero vita i sardisti transfughi nel Pnf anche attraverso. una
pubblicazione come «Mediterranea» che già nella testata e nei programmi
esplicitava la ripresa delle mai abbandonate e sopite tesi sergiane e che
doveva ben presto diventare -- nonostante alcune potenziali velleità «frondiste»
-- pienamente funzionale alla politica espansionistica e coloniale del
governo di Mussolini. A questa operazione le gerarchie locali affiancarono
il recupero e l'organizzazione del consenso della piccola e media
borghesia isolana per mezzo di particolari liturgie come le celebrazioni
dei «grandi sardi» del 1937 (29). Negli
anni trenta il momento politicamente più alto in cui si affacciano
nuovamente i valori nazionali sardi è dato dalla partecipazione alla
guerra civile spagnola della leggendaria batteria «Carlo Rosselli»,
contraddistinta dalla bandiera rossa con lo stemma dei quattro mori e
comandata da Dino Giacobbe. Questi, prima di trasferirsi al fronte, prese
contatti con la direzione del Pci in Francia: «Il programma che io esposi
-- ricorda Giacobbe -- metteva bene in evidenza il carattere di guerra
nazionale che io volevo dare all'intervento della mia batteria in
Spagna: la mia batteria doveva rappresentare la Sardegna; doveva essere il
simbolo della Sardegna che combatteva a fianco degli altri 51 o 52 popoli
che allora erano venuti in soccorso della Spagna repubblicana. Assieme a
queste numerose nazioni che sono già a fianco della Spagna repubblicana,
si aggiunge la Sardegna come una entità diversa dalla Brigata Garibaldi,
indipendente». Il
tentativo aveva preso le mosse da un progetto di Lussu, sottoposto poi per
varie cause a diversi drastici ridimensionamenti. Con esso si voleva
mettere in piedi -- sempre secondo Giacobbe -- una «unità militare nazionale»
sarda (30). Qui ancora una volta fa la sua comparsa l'immagine, di
derivazione giacobina, della «Sardegna armata» -- già abbozzata a suo
tempo da Bellieni, poi ridefinita con i moduli del «militarismo» e del
giellismo lussiani -- sia pure attraverso un nucleo di audaci e di «arditi»
disposti a tutto. L'iniziativa
dei volontari sardi contro il nazifascismo avrebbe dovuto consentire in
seguito l'estensione della lotta alla Sardegna e all'Italia, era vista cioè
da Lussu come un momento di riscatto, di rigenerazione, sulla base del
quale si sarebbero potuti agitare con maggior vigore gli ideali di
democrazia e libertà, socialismo e federalismo. 5.
Il
nodo dell'esistenza o meno di una questione nazionale sarda ritorna nel
Carteggio Gramsci-Lussu dell'estate 1926. Mi pare che finora non si sia
sufficientemente evidenziato che fu Gramsci per primo a formulare
nettamente il quesito, nel senso che Lussu e il Psd'a, a parte le
considerazioni peraltro scarse e frammentarie di Bellieni, non incalzarono
mai gli altri partiti al riguardo. Nel questionario spedito a Lussu,
Gramsci chiedeva fra l'altro se la politica uniformistica del fascismo
avesse esasperato l'autonomismo al punto da situarlo «su un terreno più
radicale di rivendicazione a tipo nazionale» (31). La risposta di
Lussu è negativa. Egli definisce la Sardegna una «nazione fallita»,
concetto mutuato da quello di «nazione abortiva» già enucleato da
Bellieni. Gramsci dunque, più di Lussu, avvertì l'esigenza di un lavoro
di scavo per vedere al fondo del dilemma. La
riflessione gramsciana sul Risorgimento giunge alla conclusione che in
Sardegna sussistono solo alcuni aspetti di una questione nazionale: non
tutti cioè sono individuabili e neppure quelli più essenziali. Gramsci
riteneva indispensabili: una serie di fattori oggettivi (territorio e
lingua innanzitutto) e, in più, come caratteristica decisiva, quella
rappresentata dalla soggettività, cioè dalla volontà di essere nazione:
ma per arrivare a tanto il sentimento nazionale deve essere diffuso in
seno a tutto il popolo o nella parte prevalente di esso, cosi da agire
come forza «creativa». Infine è necessario che un gruppo egemonico di
tipo «urbano» si ponga alla testa delle masse per unificarle in nazione.
Proprio questo era mancato alla Sardegna a causa della preponderanza della
campagna sulla città. Ma Gramsci specifica altresì che queste sue
argomentazioni vanno estese a tutte e tre le «sezioni» del Meridione.
Napoletano, Sicilia e Sardegna si configurano pertanto come tre questioni
nazionali irrisolte, mai completamente dispiegatesi (32). Di
conseguenza l'appello dell'Internazionale contadina al V Congresso del
Psd'a del 1925, redatto da Ruggero Grieco dietro indicazioni, informazioni
e suggerimenti di Gramsci -- il quale si chiudeva inneggiando alla
Repubblica federale sarda degli operai e dei contadini nella Repubblica soviettista
italiana -- non è in contraddizione con la più tarda e più matura
meditazione del carcere (33). Invece
la soluzione federalista che Lussu andò esponendo negli anni dell'esilio
non poggia sulla constatazione di questioni nazionali o seminazionali
sottese allo Stato. ma parte dal concetto di «regione» come «unità
morale, etnica, linguistica e sociale, la più adatta a diventare unità
politica»'(34). In Italia ci sarebbero cioè solo regioni e la Sardegna
figurerebbe, sia pure con una sua precisa fisionomia, fra di esse. Su
questo punto vi è pertanto continuità fra il pensiero politico di Lussu
e quello di Giorgio Asproni e Giovan Battista Tuveri i quali non
affacciarono mai l'ipotesi federalista in relazione all'idea di nazione
sarda che del resto non trovò mai cittadinanza nei loro scritti. Ma
oltre alla matrice risorgimentale (e, più precisamente, cattaneana)
dell'elaborazione federalistica lussiana, c'è anche un altro filo,
sottile, ma non per questo meno rilevante, che sotterraneamente unisce
l'opera di Lussu a questi due esponenti delle correnti di sinistra e
democratiche del!' 800: un ineliminabile pessimismo di fondo. Per
rendersene conto basta rammentare alcuni passi di un intervento
pronunciato da Lussu alla Costituente laddove si dice che quella sarda è
una storia di «plebi e baroni ugualmente servili. Dateci la possibilità
di riprendere contatto con la nostra stessa vita» -- continuava Lussu --
e di «spezzare questo incantesimo tenebroso di isolamento» (35). La
Sardegna e i sardi sono privi di storia o, peggio, essa è sempre stata
quella dei dominatori. Ecco le radici di queste amare e sconsolate
affermazioni di Lussu (così vicine e analoghe a quelle di Gramsci). Certo,
nel ricercare i precedenti storici e ideologici del sardismo egli si
ricollegò ai moti antifeudali della fine del XVIII secolo che esaltò per
la loro unicità rispetto alla situazione della penisola. Lussu amava
altresì ripetere con orgoglio le parole di Gobetti (nel Manifesto de «La
Rivoluzione Liberale») secondo le quali comunisti e sardisti erano
stati le uniche forze moderne e rivoluzionarie del primo dopoguerra. Ma il
movimento degli ex combattenti ed il sardismo sembravano a Lussu le prime
manifestazioni di risveglio e di volontà di liberazione, dopo secoli e
secoli di letargo, delle masse popolari. Di qui il suo pessimismo. Perciò nel 1952
egli entrò in polemica con Renzo Laconi per il quale occorreva piuttosto
riportare alla superficie la storia sarda sommersa attraverso una nuova
ricostruzione ed una diversa lettura (36). 6. Nel secondo dopoguerra la necessità di dare vita ad una alternativa alla componente moderata e conservatrice del Psd'a spinge Lussu ad iniziare una dura polemica contro il «nazionalismo sardo». Egli ritiene infatti che questa posizione nasconda a stento il separatismo. Invece i sardi devono riaffermare la loro lealtà nei confronti della nazione italiana della quale la Sardegna non è «che una parte, piccola parte ma viva» (37). In questo caso le urgenze, le scadenze e la logica della lotta politica interna al partito spingono Lussu a differenziarsi da quel settore ormai saldamente controllato da notabili, borghesi, agrari e grossi armentari: al punto che la terminologia degli anni venti (insieme al concetto di «nazione fallita») viene abbandonata. In un discorso tenuto dopo la scissione del Psd'a -- che porta alla creazione del Partito Sardo d'Azione Socialista -- Lussu afferma che ormai la maggioranza si è schierata su posizioni separatiste e accusa Giovanni Battista Melis di guardare con aperta simpatia all'indipendentismo siciliano di Finocchiaro Aprile. Per Lussu, siciliani, calabresi e lucani «sono tutti in uno stato di inferiorità sociale, civile e politica esattamente come noi sardi». Respingendo la mancata distinzione fra le responsabilità dello Stato, del governo e della nazione italiana verso la Sardegna, come tipica dell'ala conservatrice, egli ribadisce che è necessario e doveroso proclamare fedeltà, oltre che alla comunità nazionale, anche allo Stato che non è più quello monarchico-fascista ma è la repubblica sorta ad opera delle lotte nell'esilio e della Resistenza. L'ingresso nel nuovo Stato si configura come libera scelta sancita dalla Costituente con l'approvazione del dettato costituzionale e con l'inserimento in esso dell'ordinamento regionale. Lussu
critica il nazionalismo interno al Psd'a non solo in quanto esso è
portatore di un progetto più o meno consapevolmente separatista ma anche
perché lo considera corruttore e degradante, politicamente e moralmente.
Le critiche investono questo piano in quanto il separatismo per Lussu è
diretta espressione dei ceti agrari, i più retrivi, cui sono organici e
funzionali atteggiamenti antiproletari, antiresistenziali e antisocialisti
(38). La definizione lussiana di nazionalismo appare alquanto impropria
nel designare un isolazionismo gretto ed un antitalianismo becero che
avevano condizionato anche dirigenti seri come Puggioni. D'altra parte gli
avversari di Lussu fecero propria questa accusa gloriandosene e,
contemporaneamente, guardandosi bene dall'approfondirne e sviscerarne le
implicazioni (39). Questi
sono alcuni dei contenuti qualificanti l'attività di Lussu nell'immediato
secondo dopoguerra: e non si deve credere che siano stati marginali. Nel 1951 Lussu (nel saggio
apparso su «Il Ponte») parla di «danza nazionale sarda» (40).
Nel 1953, analizzando al Senato la genesi antropologica e socio logica del
banditismo, egli dice: «Ha origini lontane. Credo si possa affermare, a
somiglianza di quanto fa il grande storico Augustin Thierry nella storia
dell'Inghilterra del Medioevo, che esso rappresenti l'ultima discendenza e
la degenerazione e la corruzione di quella che è stata per tanti secoli --
si tratta di millenni -- la resistenza nazionale isolana, la
resistenza delle comunità dei pastori della montagna. lo stesso, nato in
un villaggio di montagna tra Cagliari e la costa orientale, ultime
propaggini meridionali della Barbagia, ricordo nella mia infanzia i vecchi
pastori patriarchi che rievocavano in forma omerica le leggende tramandate
da padre in figlio, sempre in famiglia, delle spedizioni lontane, le
ultime compiute nella metà del XVIII -- regno sardo piemontese --
spedizioni di preda e di rapina, considerate azioni eroiche di guerra
nazionale» (41). Qui Lussu, definendo «nazionale»
ciò che forse più correttamente si potrebbe chiamare «tribale»,
enfatizza, spinto da una trasfigurazione letteraria operata dalla sua
memoria. Alla luce di quanto s'è detto,
va sottolineato soprattutto questo: non c'è contraddizione fra il
sostenere che un sentimento nazionale è esploso in Sardegna in
determinate circostanze e concludere poi malinconicamente che la Sardegna
è una «nazione fallita». Per Lussu infatti sembra acquisito che la
Sardegna, pur avendo avuto a disposizione alcune occasioni, ha però
perduto il «treno della storia», conservando solo alcuni elementi
costitutivi specifici di una nazione. Negli
ultimi anni della sua vita Lussu si interessa a tutte le manifestazioni di
risveglio politico, linguistico e culturale che vengono promosse da quel
movimento che è stato assai impropriamente chiamato «neosardista».
Segue con senso di partecipazione i fermenti di rinascita e le battaglie
delle minoranze etnico-linguistiche. Con l'aprirsi di una fase di
polemiche e discussioni sulla lingua sarda, si preoccupa vivamente per il
destino di essa, come testimoniano le importanti lettere a Giovanni Lilliu
(42). Già dal 1946, del resto, aveva sostenuto alla Consulta regionale la
necessità di varare provvedimenti per l'insegnamento obbligatorio del
sardo nelle scuole (43). In definitiva, per Lussu la «nazione
fallita» rimase come una linea di confine invalicabile. Egli, a ben
vedere, riformulò la complessa problematica -- che d'altra parte non
aveva mai perso di vista -- in sede parlamentare, poco prima che scadesse
il suo ultimo mandato: «La Sardegna, isolata nel Mediterraneo, per le sue
dimensioni, solo apparentemente notevoli, ha avuto un popolo che non ha
potuto mai realizzarsi in Nazione. Nel legame con lo Stato italiano, il
popolo sardo ne ha fatto propria la Nazione, ha fatto sua la Nazione
italiana, con alterne vicende, ma con un costante e costoso processo di
caratterizzazione personale e di unione nazionale. Dalla prima parte del
secolo XIX ad oggi, il popolo sardo ne ha condiviso fasti e nefasti.. in
una indissolubile comunità di vita; in una comunità nazionale tale per
cui noi sardi ci sentiamo siciliani a Palermo, toscani a Firenze e
settentrionali a Genova, Torino, Milano o Venezia. Ma gli avvenimenti ci hanno
dimostrato che il popolo sardo ha fallito la sua rinascita innanzitutto
nel primo risorgimento nazionale. [...] La Sardegna ha fallito anche
quello che noi abbiamo chiamato con fede, e non solo con speranza, il
secondo risorgimento nazionale» (44). Il
punto d'approdo, come si vede, è lo stesso. Dalla desolata constatazione
dei bersagli mancati e delle battaglie perdute, trae nuovo vigore la
riproposizione del medesimo concetto. In più, c'è la tesi che la
Sardegna, in positivo, ha fatto propria la nazione italiana. Allo stesso
tempo però Lussu non cercò mai di giustificare, di articolare
ulteriormente, sia da un punto di vista teorico, che storico, queste sue
argomentazioni. Non si avvicinò mai, per
esempio, alla elaborazione marx-engelsiana sulla questione nazionale (45).
Rimasero inoltre senza seguito le attestazioni di grande interesse verso
la socialdemocrazia austriaca (si pensi all'ammirazione di Lussu per lo Schutzbund):
all'interno di essa era andato maturando lo studio di Otto Bauer --
caratterizzato da un ricco corredo di strumenti critici, soprattutto di
carattere psicologico e di derivazione neokantiana -- sulla tematica delle
nazionalità e sul principio dell' «autonomia culturale» (46). Senza
sviluppi restarono anche la stima e la deferenza più volte professate nei
confronti di Benes che, secondo Lussu, aveva concesso, insieme a Masaryk,
un'ampia autonomia alle nazionalità del proprio Stato e che era inoltre a
conoscenza delle istanze poste dalle minoranze nello Stato italiano (47). In
conclusione, tutta l'opera di Lussu scrittore, narratore, politico, è
come l'emblema, il simbolo di uno sforzo volto al perseguimento di un più
alto livello di «sardità». Ciò risalta soprattutto dal nesso fra lotte
di emancipazione e di riscatto dalle masse sarde con quelle dei lavoratori
e dei popoli oppressi di tutto il mondo, cioè dal suo internazionalismo,
sempre ribadito con passione e coerenza e senza che ciò lo inducesse a
rinunciare alle proprie radici etniche, linguistiche e culturali (48). Per quanto riguarda l'uso del
concetto «nazione fallita» esso copre un lunghissimo arco di tempo che
va dagli anni venti agli anni sessanta. All'interno di questo, al di là
delle apparenze, vi sono una scansione temporale ed anche, in fondo, una
cesura di significato. Se nelle risposte al «questionario» gramsciano
egli mostra un senso di impotenza, di scacco regionalistico nei confronti
di ambiti nazionali come quello catalano, nel secondo dopoguerra egli si
batte affinché questo «fallimento» possa essere positivamente
riassorbito nello Stato democratico, antifascista e repubblicano che ha
dato spazio alle autonomie. In questo senso «nazione
fallita» è concetto eminentemente politico. Adottandolo su un piano e
con un'angolazione strettamente storiografici si corre il rischio di
limitarsi ad una registrazione di sconfitte. Come chiave di lettura
dell'intera storia isolana esso appare unilaterale e come tale va
senz'altro superato. Sarebbe piuttosto il caso di delineare in concreto
tutte quelle eredità e stratificazioni, tutti quei fattori,
economico-sociali, linguistici e culturali, che hanno dato un'impronta
originale alla storia della Sardegna: per designare l'insieme di essi
penso che «nazionalità sarda» sia un termine più adeguato e corretto
(49). Oggi è
indispensabile avviare nuove analisi da impostare secondo i più
aggiornati criteri della storiografia contemporanea e che siano capaci di
andare al di là di una ideologizzazione dell'arretratezza, di una visione
della storia sarda come assoluta fissità e immobilismo, insomma, come «storia
di servi» (50). Pubblicato con il consenso dell’Autore, che ringraziamo. [Note .pdf] |
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