Recensioni

Il territorio della possibilità: la poesia

(a X. Spahiu, V. Zhiti, G. Hajdari)

C’è un territorio tra la parola, il concetto poetico, il darsi orale, dove si produce una sospensione fra il sentire in senso emozionale e il comprendere razionalmente, come può accadere per una lingua straniera (se non la si conosce) o straniera per ordine concettuale. Ciò è possibile perché la parola è, innanzitutto, un suono, la poesia una partitura, la bocca uno strumento, punto terminale del suono nel corpo complessivo del poeta.
Da Salvatore Quasimodo: “Il poeta non dice ma riassume la propria anima e la propria conoscenza, e fa esistere questi suoi segreti, costringendoli dall’anonimo alla persona”.
Quindi la parola nasce da un territorio come un fiume (carsico) appartiene come una montagna, diviene come uno strato geologico linguaggio, alimentata da e attraverso l’esperienza di un uomo, di un popolo, caricandosi di significati universali. Le parole in lingue diverse hanno, a volte, a grappolo, comune radici. Prima della metaforica Babele, una comune lingua, poi la storia. I suoni si localizzano, corrisposti nel segno della scrittura, si evolvono e se non è così, producono “un viaggio” modificandosi, pur trattenendo come un albero la propria radice. E’ forse in questo punto remoto, da questa memoria ancestrale e familiare avviata nel corso del tempo, che ci giunge questa emozione.
La nostra lingua (bellissima) viene dal sanscrito, dice il poeta albanese Xhevahir Spahiu.
E’ la sera del 13 novembre, nella sala S. Pertini della Camera del Lavoro a Crema; fuori un grande cielo stellato e una luna d’invadente bellezza concorrono.

Dal volume Heshtje s’ka (1989) - Non lasciatela intristire:
A lei piace tanto l’azzurro dei boschi; / i luoghi petrosi e le lande deserte / la rendono triste. / Non lasciatela intristire / in alcuna ora della sua vita. / Io la amo. / Sono pronto a seminare il deserto del Sahara, / da solo.”.

Così nei grandi eventi collettivi e nelle solitudini siderali, tragedie e luci dentro, canta la sua lingua, il poeta antico di una antica lingua. La poesia suona dalla bocca di Xhevahir Spahiu, misteriosa e cristallina, in colui che, nato sulla montagna, è sceso a valle, la valle della storia e delle sue tragedie.

Dal volume Kohë e Krisur (1991) - L’uomo senza nome:

Sono un uomo senza nome, / vivo in ballate. - Chi è colui che ora passa? - si chiede la gente per strada. / Qual’è il suo nome? / O compagno, / o uomo qualunque, / o uomo! / Io cammino, e non volto la testa. / Sono un uomo senza nome e non so in quale epoca vivo: / hanno chiuso il mio nome tra carte ed uffici, / gli cingono il collo con stringhe rossastre, / vi aggiungono falci sinistre di punti interrogativi, / s’allarmano se siamo insieme, io e il mio nome. / Sono un uomo senza nome. / Sono un uomo dal nome perduto. / Gli uomini non sanno più forse parlare, non sanno più scrivere? / O cielo! Qualcosa di peggio: / non sanno più amare. / Dove è finito il mio nome? / Mostratemi un po’ la sua tomba. / Un giorno o l’altro uscirò come un pazzo per strada, / e afferrato per mano il primo che incontro, / chiederò: / Dimmi, amico: / io come mi chiamo.

Di pomeriggio sbucammo in centro, dalla metropolitana, con Visar Zhiti che a Milano ha vissuto per alcuni mesi; cercava un fratello pittore, Xhevahir, da quattro anni non lo vedeva e sapeva che stava li, sotto i portici della piazza a far ritratti. Lui incontrava per la prima volta la città. Guardando il Duomo disse che era un grande sogno di pietra sceso dal cielo. Poi, il cantore, s’imbatté finalmente nel fratello timido e discreto e nell’abbraccio l’alzò di peso all’altezza-vetta del suo sentimento. Anche Visar come Xhevahir contemplò il Duomo e disse; la parola sogno o pietra fu dell’uno o dell’altro.
I poeti d’Albania (o almeno questi) sono vasi comunicanti a tutto campo. Drammi personali e collettivi, dolori e speranze, hanno permeato la loro vita. Non c’è sonno nei corpi. I loro discorsi sono carichi di pensiero e di emozioni per i destini della nazione albanese.

Dal volume Croce di carne di V. Zhiti - L’altro sole:

Quanto sangue / versato su questa terra, / ma non abbiamo ancora creato / il sole di sangue. / Ascolta, amico mio, / poche parole trepidanti: / un altro sole nascerà / dal nostro sangue / a forma di cuore.

Il volto di Visar Zhiti, trattiene in caratteri somatici classici, una dolcezza d’infanzia e dei modi così gentili e discreti da non far pensare alle durezze subite dal sistema totalitario negli anni di Oxha: nove anni di pena ai lavori forzati nei gulag. Questo, per supposta propaganda sovversiva contro il realismo socialista, corpo del reato: la sua poesia. Se bruciano, se distruggono i libri di poesia, se tolgono la carta e l’inchiostro, la mente diventa attraverso la memoria, anche carta, anche inchiostro, come nel romanzo Fahrenheit 451 di R. Bradbury, così nella realtà della vita di Zhiti e Spahiu.
Elementi di pensiero esistenzialista, non filosofia ma vita interiore, poetiche non in linea con la propaganda, diventavano, e non solo in Albania, decadenti. Nonostante ciò, la grandezza del poeta sta nel comprendere come un vortice storico-politico possa succhiarti in tragedie, pagando sovente di persona un prezzo che altri vogliono che paghi (c’è sempre stato un particolare accanimento, in tutti gli stati totalitari, e non solo, atto ad umiliare il poeta, l’artista, l’intellettuale) ritrovando in seguito, dopo la barbarie, il mai perduto territorio della possibilità: la poesia. E’ la poesia a toglierci dal rancore e dall’odio, a recuperare l’essere riponendolo nella sua alterità umana, nel principio del raggio di luce, la creazione.

Sempre dal volume Croce di carne - E attendo, libertà:

Lo sguardo per dove tu verrai / e ti attendo ... / La strada afferro con le due mani / come una fune che tiriamo / da un pozzo di dimenticanze. / E ti porto a galla / affondata. / No, non sei morta! / Il mio respiro soffio nella tua bocca. / Risorgi e parlami ...Dalla Sacra Bibbia - Terzo giorno - Poi Iddio disse: “Si radunino tutte le acque, che sono sotto il cielo, in un sol luogo e apparisca l’Asciutto”. E così fu. E chiamò l’Asciutto Terra e la raccolta delle acque chiamò Mari. E Iddio vide che ciò era buono.

Elegia per i naufraghi del Venerdì Santo (frammento) ...

In fondo al mare / come nella profondità della terra / se ne andarono i bambini-angeli / e le donne-sirene di tragedia. / Di sopra spumeggiano / gli oblii e l’abbandono. / Si è rovesciata la nave e con essa la patria e si è fatta bara.

Gezim Hajdari, il terzo poeta, riparato in Italia per aver ricevuto ripetute minacce di morte, denunciava a suo giudizio, che è anche il mio, una mancata riflessione più profonda sui mezzi di informazione, in relazione all’accaduto nel canale di Otranto, ricordando quanto sia venuta a mancare una voce poetica e civile, alta e vigile, come fu e sempre sarà come lascito, la voce di P.P. Pasolini. Gezim Hajdari è un essere venato da tante sfumature, stemperate da una delicata ironia, speculare a densa amarezza.

Da Ombra di cane - versi stesi dall’autore in lingua italiana:

Piove sempre / in questo paese / forse perché sono straniero.

Nel suo parlare, nel suo guardarsi in giro sembra galleggiare dentro sostanze alchemiche.

Non mandatemi lettere e saluti / le lettere si trasformano in alberi / le parole in uccelli / i saluti in pioggia.

Il sopra, il sotto, di qua, di là, col gesto del braccio, delle mani, cogli occhi, Gezim disegna, con voluta simbolica semplicità in un caldo sorriso, il suo pensiero politico-filosofico. L’eclissi delle ideologie sociali e il capitalismo selvaggio, disegnano un mondo brutale.
Solitudini soggettive sempre più grandi, derive della storia; la storia del dolore ci consegna la necessità della trasformazione: in oltre.
Ecco il senso di questi gesti, di questo dire, l’intima relazione.

Ancora un poco / e noi risorgeremo

L’essere è circolare, quindi espansione. Sono necessarie nuove alchimie, una terza via. L’abbozzo è difficile da disegnare in un paesaggio umano fortemente contraddittorio e pieno di incognite:

Sei nata al di là delle rovine / della notte / storia spenta / che aspetta di risorgere / nella solitudine della sabbia / e della pioggia addormentata (G.H.).

(Angelo Noce)

* Corrispondenze dei nomi in italiano:

XHEVAHIR (Diamante)

VISAR (Tesoro)

GEZIM (Gioia).

* Le poesie di X. Spahiu sono state tradotte da: Eugenio Scalambrino.

* Le poesie di V. Zhiti: Elio Miracco.

Note biografiche:

XHEVAHIR SPAHIU, fra i maggiori talenti della nuova generazione di poeti albanesi, è nato a Skrapar, nel sud dell’Albania, nel 1945. Autore di una poesia di grande energia e intensità ha pubblicato numerose raccolte di versi. Osteggiato dalla dittatura albanese fino al punto di proibire un suo libro e mandarlo al macero, Spahiu ha un vero e proprio culto della parola, e della lingua albanese, attraverso la quale esterna il suo urlo. E’ Presidente della Lega degli Scrittori Albanesi.

VISAR ZHITI, è nato a Durazzo nel 1952. Laureato in lingua e letteratura albanese a Scutari, ha lavorato come insegnante in un villaggio nelle montagne del nord dell’Albania. Arrestato e condannato a dieci anni di prigione perché un suo libro di poesie, mai pubblicato, fu considerato decadente e pessimistico, compose in carcere, senza uso di carta e penna ma memorizzandole, decine di poesie. Tutto il suo lavoro poetico è stato pubblicato dopo la caduta della dittatura. Tradotto in varie lingue, ha di recente pubblicato il suo primo libro di poesie in Italia, presso Oxiana “ Croce di Carne”. Attualmente lavora come ministro consigliere per la cultura presso l’Ambasciata albanese a Roma.

GEZIM HAJDARI, è docente di letteratura, giornalista ed esponente politico. Nato nel 1957 a Lushnje è laureato in Lettere Moderne a Tirana e frequenta il terzo anno della Facoltà di Lettere italiane presso l’Università La Sapienza di Roma. Nel 1991 è stato tra i fondatori del Partito Repubblicano Albanese (partito d’opposizione) e del giornale “ Il momento della parola”. A seguito di ripetute minacce di morte per la sua attività di denuncia dei crimini e degli abusi della vecchia nomenklatura e del regime di Berisha, è stato costretto a fuggire nell’aprile del 1992. Vive e lavora come operaio a Frosinone, ha pubblicato diverse raccolte, ha curato cicli di poesia italiana, da lui tradotta, in Albania ed ha vinto il Premio Montale nel 1997 con la raccolta inedita “ Corpo presente”.