MOSTRA FOTOGRAFICA èAFRICA:
I TESTI

Recuperare la curiosità che si aveva da bambini per la strada: la sua vita, i suoi odori, le persone, le cose. Bisogna anche avere l’emotività di scendere a colloquio con la strada, di conquistare la vicinanza, il contatto fisico con la gente, vincendo l’inquietudine razionale che la strada sia pericolosa. La strada sono i fatti ordinari, che all’inizio sembrano volerti tenere lontano, ma che stimolano la curiosità, la voglia, il coraggio di farsi coinvolgere. La fatica maggiore è togliersi un abito di conoscenza pregressa, i dati codificati dei nostri saperi, della nostra storia, delle nostre nozioni. Per capire questi luoghi, questa gente bisogna, forse, dimenticare quello che si pretende di sapere alla partenza, mettere da parte anche paure, pre-giudizi; e ritrovare piuttosto la corporalità della strada dove la strada è ancora vita, improvvisazione, sorpresa e non solo visione.

Abbiamo perso l’abitudine al contatto con la terra, anzi, alla base della nostra idea di civiltà sembra esserci l’esigenza di sollevarsi, distanziarsi dalla terra, frapporre dei filtri all’aderenza alla terra.
Eppure il nostro corpo percepisce questo distacco come un danno; l’impossibilità di scaricare l’energia che il corpo stesso crea ci estranea dalla terra. La "civiltà" - regole igieniche, convenzioni sociali, paure fisiche - ha stabilito una serie di veti a toccare la terra. Così noi abbiamo allontanato il corpo da questo primigenio bisogno terragno, abbiamo perso il piacere di toglierci le scarpe, di appoggiare, far combaciare la pianta nuda del piede alla terra, ruvida, polverosa, fangosa... materialmente concreta. In Africa il bambino vede la terra appena nasce, in casa, nella capanna, nell’ospedale, all’aperto. La madre per riposare si adagia sulla terra (tutt’al più "protegge" il bambino con il suo braccio, ma forse fa da tramite fra il suo seno e la terra). Il pavimento delle capanne è terra battuta, i contadini zappano a piedi nudi.
"In Tanzania ho provato un piacere intenso al contatto fisico con il grano che i contadini facevano brillare in aria per depurarlo dalla pula. E pensavo che da noi la trebbiatura meccanica ha eliminato tutti questi passaggi: il contadino non tocca neppure più il prodotto del suo lavoro". Le macchine in fondo trasformano tutta la terra in un unico centro commerciale: se l’uomo continua ad avervi parte, è perché qualche volta la forza lavoro umana costa meno della macchina.
Da noi il livello di progresso si misura sulla proprietà della casa. Ma non sappiamo più cosa vuol dire vivere senza terra. Se ne sentiamo il bisogno, inventiamo il surrogato di giardini, parchi, vacanze "in mezzo alla natura". In Africa la terra era un bene della comunità, oggi troppo spesso è espropriato anche il possesso di un pezzo di terra su cui poggiare la stretta stuoia e dormire.

Su uno dei tanti scheletri ormai calcificati conservati nel "luogo della memoria" di un genocidio, è deposta una piccola rosa. Era il figlio del custode, un sopravvissuto al massacro - il machete gli ha frantumato il cranio senza ucciderlo - che esprime il proprio dolore con dignità serena. Non aver voluto dimenticare è gravoso; portare con sé il dolore è disposizione di maturità.
Il turista bianco che arriva in Africa - albergo, villaggio, parco naturale, safari fotografico all inclusive tour - non può dimenticare (non può far finta di dimenticare) che sta calcando una terra piena di problemi, di contingenze incerte e scabrose. Maggiore conoscenza e informazione generano consapevolezza, senza moralismi, senza populismi. C’è un’Africa che si muove, veloce; c’è un’Africa che tenta di muoversi; e c’è un’Africa che vive nel disagio, nella difficoltà dei problemi che si adopera a risolvere, spesso senza riuscirci.

Da noi la sanità è legata a suoni, rumori: l’urlo delle sirene delle ambulanze. Qui colpisce l’assenza di quei suoni, anche gli incidenti sembrano avvenire senza alcun frastuono. La stessa morte avviene senza clamore: qualcuno che se ne va, senza parole, senza suoni.
"Per lavoro, per scelta, ho visto tanti ospedali, in tante parti del mondo. Ospedali poveri, ospedali moderni. In Africa sono stato in piccoli dispensari, centri di salute di villaggi spersi. A Soweto sono stato nel più grande ospedale australe, un ospedale pubblico che è un centro di eccellenza anche per la sanità dei più poveri. I quattro medici di un reparto di medicina generale appartenevano alle tre grandi religioni monoteiste: ebrei, cattolici, musulmani. Il responsabile del reparto, un prete sudafricano, mi ha fatto notare l’armonia che vi regna, il grande senso di equità, la relazione umana forte che si crea nella condivisione di un obiettivo comune. C’è, in questo ospedale, come una coralità trasversale, sul tema della salute".

L’immagine dell’orso polare che reclamizza un condizionatore è innaturale perché fuori luogo. Lo è ancora di più l’impronta della tastiera di un cellulare sulla guancia di una donna di colore, status symbol che si stampa sulla pelle e marchia la donna come un animale, tanto più, quanto più allude a tradizioni tribali di pitture, segni, rilievi rituali. La pubblicità è forse la contraddizione più violenta in cui gli Africani ricadono, proprio perché lontanissima dal loro modo di pensare, imposta con forza e violenza subdola.
Ci stupiamo delle loro contraddizioni, quando noi siamo la società dei mille contrasti, le nostre incongruenze, che vediamo materializzarsi nelle incoerenze di questa terra, ingenerano fastidio. Ma chi programma questo tipo di immagini con tutta la loro valenza di subalternità?
I contrasti nascono quando nella società si creano diversità violente. Anche il fastfood e l’hamburger qui sono una contraddizione: sulla base di quale morale possiamo riprovare che anche loro mangino hamburger? Tanto alla fine non ci saranno più contrasti e vivremo tutti in un unico grande fastfood. E se contrasti continueranno a esserci, saranno ridotti all’antagonismo di classe, ricchi contro poveri.
Le feste, importate dalla società colonizzatrice: le nuove tradizioni contro il patrimonio culturale del passato. Ancora una volta siamo noi ad arrogarci il diritto di decidere quali debbano essere per loro le tradizioni. Siamo noi che, pur con tutte le nostre contraddizioni, pretendiamo di giudicarli.
I veri contrasti si percepiscono quando si torna dall’Africa. La velocità delle innovazioni non sono loro a stabilirla, ma poche grandi multinazionali.
I veri contrasti si spostano sul piano della politica.

Lasciarsi andare alla fisicità è una forma di libertà. Il lavoro, la fatica dei movimenti modellano il corpo. La fisicità è legata al luogo dove si vive. Penso ai corridori degli altipiani, i Kenioti, gli Etiopi.
Da noi si può pensare di vivere ovunque, la modellazione del corpo è affidata alla dieta, agli attrezzi, alla palestra: l’icona della bellezza consiste nell’ostentazione del fisico che possa piacere. In Africa fisicità è esibizione della propria esuberanza, spontaneità che ti fa sentire in armonia, più libero.
Da noi l’abbigliamento dissimula, valorizza il corpo nascondendo i difetti, quasi come la stagnola che ricopre il bonbon; ancora una volta la differenza la fa il denaro. L’accostamento di colori, di fogge e tessuti diversi determina qui una semplicità dell’abbigliamento che è spontaneità, sintonia più profonda e vera con il corpo, esaltazione della loro fisicità.

Ognuno deve essere responsabile delle proprie scelte. Ma è arrogante decidere cosa deve essere giusto per gli altri, bilanciare le scelte con il pallottoliere della nostra società. E ognuno può ricavare il proprio giudizio secondo le proprie conoscenze, la propria visione del mondo, la propria sensibilità.
L’immensità sconfinata dell’oceano lascia credere che oltre ci possa essere un mondo migliore. Corpi fiduciosi guizzano sull’acqua, ragazzi che giocano.
Cercare di intravedere cosa c’è dopo l’orizzonte dà un senso di speranza.
"Alla fine del viaggio ho guardato cosa c’è oltre il mare: noi di qua, loro di là. Guardare lontano: emergono i sogni, la speranza del futuro".
Questo mondo, con tutte le sue contraddizioni, non è poi così diverso e neppure negativo. Resta la percezione che anche la diversità è un valore.

(dialogo tra Enrico Bossan e Ivano Paccagnella *)



* Ivano Paccagnella è docente di Storia della Lingua Italiana all’Università di Padova


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