Enda,
è la prima volta che vieni in Italia?
No, sono stato qui già cinque volte. Ho degli amici a Novellara,
Bologna, Firenze, Genova, e per questo conosco bene tutto il
Nord Italia. Quando ero più giovane, ho anche viaggiato nel
vostro paese facendo l'autostop.
E Milano, come ti sembra?
Mi piace molto, ed ho scoperto che non è solo una grande città
industriale, come tutti pensano. Fa un po' troppo caldo, però!
Parliamo
del tuo ultimo lavoro. "Bedbound" è un'opera autobiografica,
una storia sul difficile rapporto tra un padre ed una figlia.
Figlia nelle quale tu ti identifichi…
E' vero, il punto di partenza di "Bedbound" è autobiografico.
Ho voluto che l'opera fosse molto onesta in questo senso. Ma,
per far funzionare il racconto, sono stati aggiunti anche elementi
estranei alla mia vicenda. Qualcuno, ascoltando il dramma, forse
penserà che mio padre è un vero mostro. In realtà è un uomo
generoso. Ad un certo punto della sua vita, però, era diventato
una persona molto violenta.
La protagonista del racconto, la Figlia, è affetta da poliomielite.
Come mai hai pensato ad una ragazza malata?
Mi piacciono molto i personaggi che vengono delineati attraverso
le loro caratteristiche fisiche. Trovo interessanti, per esempio,
quelli che sono paralizzati, e studio come tale situazione cambi
il loro linguaggio. Il modo di parlare dei miei personaggi muta
anche a seconda dei diversi ambienti (il magazzino, la casa)
in cui li faccio agire.
Alla
fine del dramma, padre e figlia riescono a vincere il loro odio.
Tu hai parlato di un'"opera sul perdono". Che cos'è per Enda
Walsh il perdono?
Non sentirsi più a disagio con il proprio passato e con chi
ci sta vicino. Quando il rapporto con quella persona è di nuovo
sincero.
So
che tuo padre non ha mai letto l'opera e che vedrà lo spettacolo
solo in autunno. Quale reazione ti aspetti da parte sua, visto
che il racconto parla dell'odio che un tempo provavi per lui?
Sono terrorizzato all'idea che veda lo spettacolo. Mio padre
è un uomo semplice. Non ama il teatro, ma è orgoglioso del mio
successo. Forse vedrà il personaggio del padre solo come un
animale, non comprenderà la pacificazione finale tra l'uomo
e la figlia. Ho cercato di spiegargli il senso di questo lavoro.
Gli ho detto: "Io ti voglio bene, sei mio padre, ma c'è stato
un tempo in cui forse ti ho odiato".
Hai
da poco scritto un cortometraggio, "Not a bad Christmas", e
ora stai lavorando a due lungometraggi. Che differenza c'è fra
lo scrivere per il teatro e per il cinema?
Mi occupo di lungometraggi perché mi interessa il linguaggio
cinematografico, e poi, purtroppo, è anche una questione economica.
Con i film si guadagna di più. Questo mi permette di continuare
a fare teatro, che comunque rimane il mio primo amore. La differenza
tra i due linguaggi? Sta tutta nelle emozioni. Credo che uno
spettacolo teatrale molto bello rimanga nel cuore più a lungo
di un buon film. A teatro hai un rapporto diretto con gli attori,
che si muovono lì, davanti a te. Il cinema, invece, non sembra
reale. Certo, apprezzo la trama del film, ma è una sensazione
molto più psicologica che emozionale.
Qui
in Italia, a livello di drammaturgia contemporanea, non ce la
passiamo molto bene. Nessuno sembra più aver voglia di scrivere
per il teatro…
Quello che mi dici è terribile. In Irlanda ed in Inghilterra,
invece, i produttori hanno capito che, per tenere vivo il teatro,
è necessario saper rischiare. Bisogna dare spazio a scrittori
nuovi, giovani. Credo che oggi questo sia uno dei compiti fondamentali
del teatro.