(Recanati 1798 - Napoli 1837), poeta
italiano, tra i maggiori dell'Ottocento. Giacomo Leopardi era figlio del
conte Monaldo, uomo colto ma reazionario e chiuso nei confronti delle
innovazioni del mondo, e di Adelaide Antici, energica e poco affettuosa.
Giacomo, primo di otto figli, studiò privatamente, dapprima sotto la
guida di due sacerdoti e poi da solo, attingendo alla ricchissima
biblioteca paterna. Imparò il latino, il greco, l'ebraico e alcune
lingue moderne. A diciotto anni era già un erudito dall'eccezionale
formazione filologica, ma la sua salute era ormai compromessa per
sempre. Prima dei vent'anni aveva scritto una Storia dell'astronomia
(1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi
(1815), e tradotto idilli ed epigrammi di Mosco (1815), il primo libro
dell'Odissea di Omero e il secondo dell'Eneide di Virgilio
(1816).
LA CRISI
Già nel 1816 Leopardi cadde
in un periodo di crisi, durante il quale mise in discussione tutta la
sua formazione: del 1816 è infatti L'appressamento della morte,
una cantica in terzine in cui il poeta sente la morte, che crede
imminente, come un conforto. In questi anni cominciarono sofferenze
fisiche e una preoccupante malattia agli occhi che nel 1819 lo costrinse
a interrompere lo studio. Nel suo carattere, intanto, si andava
sviluppando la presa di coscienza del lacerante contrasto tra l'intensità
della sua vita interiore e la sua incapacità di manifestarla nei
rapporti con gli altri.In seguito a una sorta di conversione letteraria,
abbandonò gli studi filologici e si accostò alla poesia, attraverso la
lettura degli autori italiani del Trecento, del Cinquecento e del
Seicento, e dei suoi contemporanei italiani e francesi. Anche la sua
visione del mondo subì una svolta radicale: Leopardi smise di cercare
conforto nella religione, di cui era stata permeata tutta la sua
fantasiosa fanciullezza, e si avvicinò a un'interpretazione della vita
vicina alle filosofie sensista e meccanicista. Grazie all'amicizia con
Pietro Giordani, con il quale nel 1817 iniziò una feconda
corrispondenza, il distacco dal conservatorismo paterno si fece più
netto: all'anno seguente risalgono All'Italia e Sopra il
monumento di Dante, canzoni patriottiche molto retoriche e
classicheggianti nelle quali Leopardi espresse la sua adesione alle idee
liberali di stampo laico. Nello stesso periodo prese parte attiva al
dibattito, di respiro europeo, che contrapponeva classicisti e
romantici, affermando la sua posizione a favore dei primi nel Discorso
di un italiano attorno alla poesia romantica (1818). Cominciò a
covare rancore anche verso la casa natale e Recanati, in cui individuava
la causa della propria infelicità e da cui tentò di fuggire. Nel 1822
venne mandato a Roma dallo zio materno, ma fu un'esperienza deludente e
il poeta, tornato a Recanati l'anno seguente, si chiuse ancor più in se
stesso.
IL PESSIMISMO LEOPARDIANO
In quegli anni Leopardi
elaborò il proprio sistema di pensiero, imperniato su una concezione
pessimistica della realtà che espose nelle pagine dello Zibaldone
(1817-1832), appunti e pensieri morali scritti senza l'intenzione di
formare un'opera organica e pubblicati postumi nel 1898 in occasione del
centenario della nascita del poeta. Nello Zibaldone, Leopardi
mise a confronto l'innocente e felice stato di natura con la condizione
attuale dell'uomo, corrotta dalla ragione che, rifiutando l'illusione e
svelando il vero, genera l'infelicità.Il concetto si amplia e si
radicalizza nelle Operette morali (1824-1835), dove la Natura
stessa, prima dipinta come madre benefica, si trasforma in una matrigna
che spinge l'uomo al conseguimento di una felicità irraggiungibile e
insieme gli procura una sofferenza insanabile proprio perché
connaturata nella condizione umana.
È in questo periodo che
trova sfogo una delle vene liriche più autentiche della poesia
leopardiana, quella meditativa e malinconica: nascono i piccoli idilli L'infinito,
La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La
vita solitaria (1819-1821). Sempre nel periodo tra il 1820 e il 1822
Leopardi scrisse anche canzoni di argomento filosofico: Ad Angelo Mai,
Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, accomunate da una
rivolta contro la tirannia del destino e le oppressive leggi universali.
In Alla sua donna (1823) la figura femminile è dipinta come
evanescente e irraggiungibile. È il primo nucleo di componimenti che
andrà a costituire la raccolta dei Canti, 41 poesie in tutto,
scritte dalla giovinezza fino alla morte.
LONTANO DA RECANATI
Nel 1825 si recò a Milano
con l'incarico di curare per l'editore Stella una pubblicazione delle
opere di Cicerone, che però non fu mai realizzata. Trasferitosi a
Bologna, vi rimase fino al 1827, quando andò a Firenze. Nel 1826
pubblicò un commento alle Rime di Francesco Petrarca. Nonostante
l'attività lavorativa e le nuove conoscenze, il suo pessimismo non si
attenuò. Nell'epistola in versi sciolti Al conte Carlo Pepoli
annunciò di aver perduto ogni conforto nella poesia e di volersi
dedicare alla filosofia.
A Firenze Leopardi conobbe
Giovanni Battista Niccolini, Pietro Colletta, Niccolò Tommaseo e
Alessandro Manzoni. A Pisa, dove si stabilì dopo qualche mese, ritrovò
almeno in parte la salute e con essa la vena poetica: scrisse la canzone
Il Risorgimento, che lancia sul mondo uno sguardo fresco e nuovo,
e A Silvia, uno dei suoi componimenti più belli. Ma fu una breve
parentesi: ben presto fu di nuovo sopraffatto dalle sofferenze fisiche e
dalla malattia agli occhi.
Tornato a Firenze nel 1828, sperò di
trovare un impiego che gli desse modo di vivere senza il supporto della
famiglia, ma le sue condizioni fisiche non gli permettevano di lavorare
in modo continuativo e nel dicembre dello stesso anno tornò a Recanati.
Il ritorno ai cari oggetti dell'infanzia gli ispirò i cosiddetti
"grandi idilli", giudicati tra le sue opere migliori: Le
ricordanze (1829), La quiete dopo la tempesta (1829), Il
sabato del villaggio (1829), Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia (1830), Il passero solitario, concepito nella
giovinezza ma terminato solo in quegli anni.
Nel 1830 Pietro Colletta gli propose di
tornare a Firenze: Leopardi accettò allora una somma messagli a
disposizione da anonimi, con l'impegno che l'avrebbe restituita con i
proventi dei suoi primi lavori. Tuttavia, non avendo ottenuto i frutti
sperati dall'edizione fiorentina dei Canti, si ridusse a chiedere
un assegno alla famiglia, che lo mantenne fino alla morte.
A Firenze il poeta conobbe Antonio
Ranieri, un giovane napoletano bello ed estroverso, con il quale strinse
una salda amicizia e convisse fino alla morte. Sempre a Firenze si
innamorò della nobildonna Fanny Targioni Tozzetti, nella quale sperò
di aver trovato un'anima gemella: ma anche questa speranza finì in
un'amara delusione. Intorno a questa relazione Leopardi scrisse Il
pensiero dominante (1831), Amore e morte (1832), Consalvo
(1832), A se stesso (1833) e Aspasia (1834), dove l'amore
viene visto come l'unica via di salvezza dal tedio e si afferma che
l'uomo non si innamora tanto della donna, quanto dell'amore stesso, o
dell'idea che se ne è fatto.
Nel 1833 Leopardi seguì Ranieri a
Napoli, dove trascorse gli ultimi quattro anni della sua vita: il clima
non alleviò la sua asma cronica e, afflitto dalle sofferenze, il poeta
non fece che invocare la morte. Qui compose, tra il 1834 e il 1837, la
maggior parte dei suoi scritti satirici: I nuovi credenti, carme
in terzine, Palinodia al marchese Gino Capponi e i Paralipomeni
della Batracomiomachia, ispirato a un poemetto pseudomerico sulla
lotta tra rane e topi, dove satireggia le futili e disordinate
sollevazioni dei patrioti contro gli austriaci (vedi
Risorgimento).
Con La ginestra (1836) Leopardi
sembrò avere un tardivo risveglio dell'antica giovinezza e cantò la
ribellione contro la natura e il destino. La sua ultima poesia è Il
tramonto della luna (1837), di smisurata tristezza, la cui ultima
strofa pare sia stata dettata dal poeta all'amico Ranieri in punto di
morte.
LA POESIA E LO STILE
Secondo Leopardi la poesia è una
folgorazione interiore, rapida e segreta. Per questo non può esservi
altra poesia che la lirica. Essa non esclude la meditazione, ma la
rielabora nella musicalità e nell'immagine del componimento poetico.
I suoi capolavori sono da ricercarsi tra
gli idilli della prima giovinezza e quelli della maturità, canti
sgorgati dal cuore, confessioni nostalgiche e ricordi della giovinezza
perduta, teneri e rassegnati. Spesso il poeta compiange se stesso per
essere uscito dall'illusione fanciullesca della felicità (A Silvia,
Il passero solitario). Altre volte, come nell'Infinito, si
immedesima con il battito vuoto e meccanico della natura e sembra
trovare, in questo annientamento, la pace.
Una poesia volta a esprimere
folgorazioni interiori non può essere contenuta in una struttura
metrica fissa: Leopardi ricorse all'endecasillabo sciolto, oppure a
endecasillabi e settenari alternati, a volte rimati e a volte no,
riuniti in strofe di lunghezza diversa, che stravolgevano i tipi metrici
tradizionali. Riuscì a ottenere effetti potentissimi semplicemente con
la collocazione delle parole, e usò la punteggiatura in un modo del
tutto personale, privilegiando le pause liriche rispetto alle consuete
suddivisioni logiche e grammaticali.
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