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DOCUMENTI Profili penalistici e sanzionatori della l. 91 del 1999
     di Francesco Vitale, Avv. in Napoli)




La nuova disciplina in tema di prelievi e trapianti terapeutici di organi e tessuti è destinata a introdurre profondi cambiamenti nel nostro paese, sul piano culturale e del costume prima ancora che su quello giuridico, segnando una fondamentale tappa di avvicinamento alle moderne democrazie europee.
La carenza di donatori, che per lungo tempo ha collocato l’Italia all’ultimo posto in fatto di donazione di organi, ha spinto il legislatore ad introdurre lo schema del cosiddetto silenzio-assenso-informato (mutuato dal diritto amministrativo), figura intermedia tra quella prevista dalla legislazione previgente n°644 del 1975 (prelievo salvo espresso dissenso) e quella del silenzio assenso tout court: lo Stato, in buona sostanza, chiede al cittadino che cosa voglia fare dei propri organi quando sarà defunto, informandolo circa le modalità, le forme e i termini in cui la volontà va manifestata; se questi entro 90 giorni non dichiara alcunché sarà considerato donatore. Differentemente dal passato, quindi, la scelta è solo ed esclusivamente del soggetto in vita, che in piena libertà decide e dispone di se stesso, senza possibilità di veti da parte della famiglia, la quale dalla nuova normativa risulta inevitabilmente estromessa. Se però non decide, il suo silenzio varrà come assenso alla donazione.
Questo è il tratto centrale della L. 91 del 1999, la quale offre molteplici spunti di riflessione giuridica.
A quali conseguenze va incontro chi viola questa legge? Qual è il regime sanzionatorio previsto dalla nuova disciplina?
Bisogna distinguere: in alcuni casi il legislatore ha previsto sanzioni amministrative, in altri sanzioni penali.
Le condotte violative delle disposizioni in tema di strutture per i prelievi, per la conservazione dei tessuti e per i trapianti, che precedentemente integravano reato all’art. 21 della legge n°644/1975, oggi (art. 22 L. 91/99) risultano sanzionate solo a livello amministrativo, con il pagamento per il trasgressore di una somma dai 2 ai 20 milioni di lire.
Si tratta di una sanzione che è irrogata dalle Regioni in virtù della L. 689/81 sulla depenalizzazione, e che colpisce le diverse fasi in cui cronologicamente si articola un trapianto: quella del prelievo dell’organo o tessuto, quella successiva della conservazione e quella finale del trapianto. Essa, quindi, è prevista:

a) per chiunque effettui prelievi di organi o tessuti in strutture non accreditate o non dotate di reparti di rianimazione (per i prelievi di organi occorre che siano soddisfatte entrambe le condizioni, e cioè che siano effettuati in strutture accreditate e dotate di reparti di rianimazione; per i prelievi di tessuti, invece, le strutture, purché accreditate, possono essere dotate o meno di reparti di rianimazione, sempre però che la morte sia stata accertata secondo le procedure di cui alla legge del 1993 n°578);

b) per le strutture che omettano di registrare i dati relativi alla conservazione dei tessuti. Le strutture sanitarie pubbliche, infatti, sono tenute, secondo le modalità definite dalle regioni cui è demandato il compito di individuare le c.d. banche dei tessuti, a conservare e a distribuire i tessuti prelevati, certificandone idoneità e sicurezza, e a registrare i movimenti di entrata ed uscita dei tessuti prelevati, inclusa l’importazione;

c) per chiunque effettui trapianti di organi o tessuti in strutture diverse da quelle accreditate (sia pubbliche che private).
Quanto, invece, alle sanzioni penali, se da un lato la riforma ha comportato sotto il profilo penale una maggiore semplificazione normativa, con la riduzione - rispetto alla pregressa legge n°644/1975 - delle fattispecie criminose da 5 a 3 (il che è sempre un fatto positivo vista l’odierna ciclopica produzione di norme!), dall’altro ha evidenziato numerose lacune ed incongruenze, che per certi aspetti potrebbero vanificare gli stessi obiettivi e i risultati auspicati dal legislatore, costituendo addirittura un ostacolo alla incentivazione di questa forma di solidarietà sociale.
In particolare, la riduzione delle fattispecie criminose è scaturita dall’abrogazione della figura criminosa di cui all’art. 19 della 644 che puniva “chi riceveva denaro o altra utilità, ovvero ne accettava la promessa, per consentire al prelievo dopo la morte di parti del proprio corpo o di quello di altra persona”, nonché dalla suesposta depenalizzazione delle condotte violative delle disposizioni in tema di strutture per i prelievi, per la conservazione dei tessuti e per i trapianti, oggi solo amministrativamente sanzionate.
Rimangono pertanto tre sole figure di reato, una, l’art. 4 comma 6, finalizzata ad apprestare una tutela, anche al livello penale, alla disciplina in tema di dichiarazione di volontà del soggetto in ordine alla donazione, le altre due destinate a reprimere il traffico di organi.
Le tre fattispecie, comunque, destano tutte enormi perplessità, quanto meno sotto l’aspetto della tecnica di legiferazione utilizzata.
Analizziamole:

ART. 4 COMMA 6 DELLA L. N° 91 DEL 1999
La prima fattispecie di reato che s’incontra nella lettura della 91 del 99 è contenuta nell’art. 4 comma 6.
In sostanza, il legislatore ai commi 2,3,4,5 ha indicato le modalità tramite le quali accertare la volontà del singolo in ordine all’eventuale donazione di suoi organi o tessuti dopo la morte, sanzionando la violazione di tale disciplina al comma 6 con la reclusione fino a due anni e con l’interdizione dall’esercizio della professione sanitaria fino a due anni.
La norma, necessita di un’operazione interpretativa assai difficoltosa, perché le condotte criminose devono essere ricostruite ricavandole da quelle indicate in termini di liceità dai commi 2,3,4,5 dello stesso articolo (Quindi, questi commi ci dicono che cosa si può fare e come deve essere fatto. Noi dovremmo ricavarci in termini penalistici che cosa non si può fare).
La cosa rende tutt’altro che agevole il compito dell’interprete, chiamato a leggere la disposizione penale sempre e soltanto unitamente ad un precetto civilistico già di per sé poco chiaro.
E se l’operazione è difficoltosa per l’interprete (avvocato o magistrato che sia), figuriamoci per il semplice cittadino, e cioè in primo luogo il sanitario che è il principale fruitore della disposizione normativa! E poiché error iuris non excusat, quest’ultimo potrebbe essere tra le prime vittime di una tecnica legislativa sbagliata, perché incompleta, oscura ed imprecisa, con la probabile conseguenza non certo gradevole di una condanna penale.
Orbene, cimentandosi nell’operazione interpretativa di cui sopra volta all’individuazione delle condotte penalmente illecite obiettivamente mancanti, tenuto conto che il nostro legislatore in ordine alla donazione di organi ha scelto lo schema del silenzio-assenso-informato, possiamo certamente dire che è penalmente illecito il prelievo di tessuti o organi di un soggetto defunto, allorquando:

a) avvenga su un soggetto che aveva espressamente negato il proprio assenso alla donazione, ovvero che abbia presentato in tempo utile, e cioè entro il termine corrispondente al periodo di osservazione ai fini dell’accertamento di morte di cui al D.M n°582/94, una dichiarazione autografa di volontà contraria al prelievo;
Ovviamente, perché sussista il delitto occorrerà che il sanitario responsabile del prelievo fosse a conoscenza della volontà negativa manifestata in vita dal defunto. Al riguardo, al fine di garantire tale conoscenza, la legge prevede che tale dissenso sia inserito in apposito sistema informativo a disposizione di ciascuna A.S.L., ovvero sia registrato su documenti sanitari personali. In assenza di tali condizioni, è certo che il prelievo non costituisce reato ed il giudice dovrà emettere una sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato; avrei, invece, qualche dubbio sul se pure in presenza di tali condizioni, il sanitario che abbia comunque operato il prelievo possa discolparsi dimostrando di non aver avuto conoscenza, senza colpa, della manifestazione di volontà negativa da parte del defunto. Bisognerà verificare caso per caso.

b) avvenga su un soggetto cui non è stata notificata dall’A.S.L. la richiesta finalizzata ad ottenere il consenso in ordine alla donazione degli organi dopo la morte;

c) avvenga su un minore quand’anche uno solo dei genitori abbia rifiutato di prestare il proprio consenso all’espianto, o sui minori affidati o ricoverati presso istituti di assistenza pubblici o privati, ovvero su soggetti non aventi capacità di agire.

Vale la pena sottolineare che la nuova disciplina sembra abbastanza rassicurante nei confronti dei minori, richiedendosi ai fini del prelievo la dichiarazione di volontà di entrambe i genitori. In caso di disaccordo tra i due genitori non è possibile procedere alla manifestazione di disponibilità alla donazione, sicché ogni prelievo o trapianto di organi o tessuti, anche se a scopo terapeutico, sul minore è - nel caso di specie - reato. In caso di contrasto non potrà trovare applicazione nemmeno l’art. 316 comma 3 del c.c. che, su questioni di particolare importanza, prevede la possibilità per ciascuno dei due genitori di ricorrere al giudice senza formalità per indicare i provvedimenti che ritiene più idonei.
L’ipotesi in parola è l’unica in cui la volontà in ordine al trapianto possa provenire da soggetti diversi dal futuro donatore, ossia da terzi. La nuova disciplina, infatti, a differenza di quanto accadeva nella vigenza della legge n° 644/75 e nell’intento di garantire una maggiore diffusione di tale forma di donazione, ha sottratto ai familiari il potere di sostituirsi al donatore defunto nella determinazione della scelta circa l’espianto, sia nel senso di formulare un diniego in luogo dell’assenso prestato dal defunto quando era in vita (paradosso non di rado verificatosi sotto il vigore della 644 per alcuni iscritti all’AIDO, i quali, dopo il decesso, non hanno donato i propri organi per l’opposizione dei familiari), sia nel senso di esprimere una volontà favorevole in luogo del rifiuto espresso dal defunto.
Tale precisa scelta di campo è emersa immediatamente nel corso dei lavori preparatori, allorché si è ritenuto che il possibile veto dei familiari del defunto costituisse una limitazione della libertà dell’individuo di disporre di sé e di scegliere in vita se diventare dopo la morte res comunitatis o res privata. A sostegno di questa impostazione si è anche osservato che in caso di autopsia richiesta dall’autorità giudiziaria oppure dal personale medico a ciò legittimato al fine di confermare una diagnosi espressa in precedenza, il Regolamento di Polizia mortuaria e la stessa L. 644/75 prescindono totalmente dal consenso dei familiari. Orbene, non si comprendeva perché nel caso dell’autopsia, che non ha alcuna finalità di promuovere la salute pubblica, non è consentito ai familiari opporre alcun veto, mentre quando sussiste questa finalità prevista dall'art. 32 Cost. e, quindi, da considerare di altissimo valore sociale e morale, si rende necessario il consenso dei familiari. Evidentemente il problema da superare era di natura culturale, perché la negazione del consenso dei familiari deriva dal fatto che gli stessi non possono pensare al corpo del proprio congiunto sezionato a cuore ancora battente, mentre nel caso di autopsie o riscontri diagnostici il cuore è comunque fermo.
La nuova legge, dunque, anche sotto questo profilo vuole simboleggiare un momento di svolta culturale, perchè diffonde il concetto che la vera morte è solo ed esclusivamente quella cerebrale.
Altro grosso limite della nuova disciplina, consiste nel sanzionare con identica pena condotte chiaramente diverse e connotate da un differente disvalore, venendosi incontrovertibilmente a ledere il principio di portata costituzionale della proporzionalità della pena.
Ci si pone, inoltre, il problema del rapporto delle condotte criminose di cui all’art. 4 comma 6 della normativa in oggetto con i c.d. reati contro la pietà dei defunti (art. 410 c.p. vilipendio di cadavere, - art.411 c.p. distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere, - art. 413 c.p. uso illegittimo di cadavere), i quali dovranno essere meglio verificati e circoscritti, atteso che il principio dell’intangibilità del corpo umano non è più la regola. L’uomo, cioè, non è illimitatamente dominus membrorum suorum, o meglio questo principio è limitato al corpo del soggetto vivente, ma analoga disciplina e tutela non si estende al corpo del soggetto defunto.
Il prelievo, infatti, di organi e tessuti dal soggetto defunto è oggi la regola generale, il diniego alla possibilità di prelievo è ipotesi sussidiaria che ricorre quando sussiste un’espressa dichiarazione di volontà del soggetto vivente, manifestata nelle forme previste dalla legge.
Orbene, l’art.4 comma 6 della nuova disciplina sembra porsi in rapporto di specialità rispetto alle sopra specificate norme del codice penale, con l’effetto di mettere queste ultime fuori gioco per il principio lex specialis derogat legi generali.
Sicchè, nel caso di prelievo da soggetto consenziente, ovvero nel rispetto di tutte le condizioni previste dall’art. 4, non possono ricorrere le ipotesi di reato previste dal codice penale ora richiamate;
viceversa, nel caso in cui il prelievo avvenga al di fuori dei casi legittimi, il reato previsto dall’art. 4 costituisce norma speciale e quindi prevalente, con la conseguenza che il legislatore avrebbe introdotto un delitto punito molto più blandamente rispetto al passato.

N O R M E A N T I T R A F F I C O
ART. 22 COMMA 3 L. N° 91/1999. Delitto di commercio di organi e tessuti
Tecnica legislativa censurabile è stata utilizzata anche per la configurazione del reato di commercio di organi e tessuti, che “punisce con la reclusione da 2 a 5 anni e con la multa da 20 a 300 milioni di lire chiunque procacci o commerci, per scopo di lucro un organo o un tessuto prelevato da un soggetto di cui sia stata accertata la morte ai sensi della L. n°578 n°1993. Se il fatto è commesso da un apersona che esercita una professione sanitaria, alla condanna consegue l’interdizione perpetue dall’esercizio della professione”.
Il riferimento a tale normativa per riconoscere la morte di un soggetto, fa sorgere domande in ordine alla punibilità della predetta condotta di commercio di organi o tessuti di soggetti la cui morte non sia stata accertata secondo la legge n°578/93 citata. Si pensi al caso di un soggetto deceduto all’estero, o semplicemente al caso in cui il sanitario, proprio nell’intenzione di non essere imputato della violazione dell’art.22 comma 3, in commento, non abbia, volutamente, fatto ricorso alle prescrizioni dettate dalla legge n°578/1993.
E’ facile intuire che molti avvocati punteranno a smontare questo elemento onde dimostrare l’inesistenza del reato già sul piano oggettivo ed approdare ad una assoluzione perché il fatto non sussiste: indubbiamente il principio di legalità ed il divieto di analogia in malam partem vigente in diritto penale ci induce a tener conto del predetto riferimento del legislatore alle procedure previste dalla L.578 del 1993, di conseguenza all’interprete non rimane altro che prendere atto del paradossale carattere di tale disciplina, che lascia impunite una serie di condotte solo perché la morte del soggetto non viene previamente accertata mediante il ricorso ad una ben determinata procedura.

ART. 22 COMMA 4 L. 91/1999: delitto di prelievo abusivo di organi o tessuti.
Ancora perplessità sorgono sulla norma che “punisce con la reclusione fino a 2 anni chiunque procuri, senza scopo di lucro, un organo o un tessuto prelevato abusivamente. Se il fatto è commesso da persona che esercita una professione sanitaria, alla condanna consegue l’interdizione temporanea fino ad un massimo di 5 anni dall’esercizio della professione”.
La ratio della previsione punitiva è facilmente individuabile. Il legislatore, con essa, ha evidentemente inteso stroncare alla radice qualunque traffico di organi anche se gratuito evitando che la mancata prova del fine di lucro del mediatore finisse per determinare l’assoluzione.
Le problematiche che la norma pone attengono alla definizione del prelievo abusivo.
E’ certamente tale il prelievo effettuato in assenza di consenso del defunto, ovvero non rispettando le disposizioni di cui all’art. 4 della legge in commento (es. nei confronti di un soggetto incapace).
Trattasi di fattispecie estremamente vicina a quella disciplinata dall’art. 4 (le due disposizioni hanno il medesimo massimo edittale della pena, diversa è la durata dell’interdizione), se non addirittura in quest’ultima già inglobata. La distinzione tra le due norme è estremamente sottile e consisterebbe nel fatto che l’art. 4 comma 6 punisce “l’attività di prelievo”, mentre l’art.22 punisce l’attività di procacciamento; la norma dice “procurare senza scopo di lucro un organo o un tessuto”. Tuttavia, basta considerare che quest’ultima norma non esclude il caso del procurare l’organo a se stessi, perché i criteri di distinzione si facciano più sottili. Insomma è un quasi doppione.
Molto più problematica appare la qualifica come abusivo del prelievo avvenuto senza il rispetto di norme di rilievo secondario, come quella che ad esempio prescrive la redazione di un verbale contestualmente all’espianto (art. 14), o l’effettuazione di mutilazioni non necessarie (art. 14), ovvero dell’espianto avvenuto in spregio a divieti dettati dalla L. 91/99 ma non sanzionati penalmente, come il divieto di prelievo delle gonadi e dell’encefalo. E’ preferibile però far coincidere il prelievo abusivo con le condotte vietate di cui all’art. 4 L.91/99, sicchè solo per gli organi provenienti da tale tipologia di espianti è vietata qualsiasi attività di intermediazione, anche se a titolo gratuito.
Due considerazioni finali vanno fatte:
in primo luogo, se l’organo è stato prelevato in modo abusivo, esso costituisce oggetto proveniente da reato identificabile quanto meno in quello previsto dal su citato art. 4. In tale ipotesi la figura di reato in questione può porsi in posizione di specialità rispetto al più grave reato della ricettazione;
in secondo luogo, anche per questa fattispecie si pongono gli stessi problemi di raccordo con le norme che incriminano i c.d. reati contro la pietà dei defunti.


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