Rilevato in fatto.
1. Il Tribunale di Salerno, con ordinanza del 20 dicembre 1999,
rigettata la richiesta di riesame proposta dai fratelli V
contro il provvedimento 22 novembre 1999, con il quale il Giudice
per le indagini preliminari dello stesso Tribunale applicato ad
entrambi la misura cautelare degli arresti domiciliari, quali
persone gravemente indagate del reato di cui all'art. 648 ter c.p.,
perché, in concorso tra loro, impiegano in attività economiche e
finanziare - vale a dire, nella gestione di un caseificio e di una
pub - la somma di lire 1.200.000.000, ricevute dal "clan"
camorristico formato da Roberto P e dai suoi familiari, quale
provento di estorsioni e di truffe ai danni dell'INPS.
Il Tribunale, premessa l'esistenza di un'associazione per delinquere
di tipo mafioso, facente capo alla famiglia P, riteneva che la
dazione della somma sopra ricordata da parte del capo clan Roberto P
ai V, titolari di un caseificio in Eboli, al tasso di interesse
annuo del 10%, la successiva richiesta di lire 500.000 milioni da
parte dei V per l'utilizzo in attività imprenditoriali, gli
intensi rapporti tra i V ed i P relativi proprio all'impiego di
tali capitali, ai conseguenti interessi ed all'utilizzazione degli
importi "mutuati" unitamente alle minacce per la mancata
restituzione di somme espressamente indicate come oggetto di
"riciclaggio", venissero a comporre una grave panorama indiziario in
ordine al delitto addebitato. Le esigenze cautelari venivano
individuate nel pericolo di reiterazione, sia con riferimento alle
modalità ed alle circostanze del fatto, sia con riguardo alla
personalità degli indagati, a prescindere dalla loro incensuratezza,
nonché nel pericolo di inquinamento probatorio in pendenza delle
indagini preliminari.
Hanno proposto ricorso per cassazione sia V Francesco sia V Rocco.
Il primo denuncia violazione dell'art. 648 ter c.p., stante il
carattere "residuale" di tale norma incriminatrice, la mancanza di
consapevolezza della provenienza illecita del danaro e di finalità
consapevolezza della provenienza illecita del danaro e di finalità
indirizzate al suo occultamento; nonché violazione dell'art. 274
c.p.p., considerata l'assenza di precedenti penali del ricorrente.
Il secondo lamenta mancanza di motivazione, per avere il
provvedimento denunciato omesso di considerare la natura di mero
prestito della dazione delle somme, l'ignoranza nel ricorrente delle
eventuali attività delittuose poste in essere dai P nonché l'assenza
di esigenze cautelari.
Successivamente, con ordinanza 12 gennaio 2000, il Tribunale di
Salerno accoglieva l'appello proposto dal Pubblico Ministero contro
lo stesso provvedimento impositivo degli arresti domiciliari
adottato nei confronti dei fratelli V, per le parti in cui aveva
ritenuto insussistente la circostanza aggravante prevista dall'art.
7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge
12 luglio 1991, n. 203, in ordine all'imputazione di cui all'art.
648 ter c.p. ed aveva escluso la presenza di un grave quadro
indiziario quanto al delitto di concorso "esterno" nel reato di
associazione per delinquere di tipo mafioso.
In base a tali nuove statuizioni, il Tribunale adottava nei
confronti degli indagati la misura cautelare della custodia in
carcere.
Anche contro tale provvedimento i V ricorrono per cassazione
proponendo una variegata serie di motivi.
V Franco e V Rocco contestano in radice sia la configurabilità
nel caso di specie del fatto di reato previsto dall'art. 648 ter
c.p. sia, comunque, la conoscenza della provenienza delittuosa della
somma consegnata dal P a Rocco V. Franco V denuncia che, in ogni
caso, l'operazione venne gestita esclusivamente dal fratello Rocco
e, dunque, la sua assoluta estraneità a qualsivoglia rapporto con il
P.
Entrambi i V hanno dedotto illogicità della motivazione quanto al
concorso nel reato di cui all'art. 648 ter c.p., sotto il profilo
della "provenienza camorristica" della somma ricevuta dal Rocco (v.,
più in particolare il secondo ed il terzo motivo di Francesco V).
Hanno pure denunciato violazione della legge penale per essere stata
oggetto di addebito da parte del Tribunale insieme alla circostanza
aggravante sopra ricordata, anche il concorso "esterno" nel delitto
di associazione per delinquere di tipo mafioso.
2. I ricorsi avverso il provvedimento di accoglimento da parte del
Tribunale dell'appello del Pubblico Ministero, originariamente
iscritti, insieme al ricorso proposto da altro indagato, al
procedimento n. 10955 del 2000, venivano, con ordinanza pronunciata
all'odierna udienza in camera di consiglio, previa separazione al
procedimento ora ricordato, riuniti ai ricorsi iscritti al
procedimento n. 9968 del 2000.
Oggetto dello scrutinio di questa Corte sono, dunque, i due
provvedimenti adottati dal tribunale di Salerno, l'uno il 20
dicembre 1999, l'altro il 12 gennaio 2000, per la parte riguardante
i soli V.
Osserva in diritto. 3. Al fine di meglio delimitare il thema decidendi demandato a
questa Corte, occorre, anzi tutto, precisare come le censure
proposte dai ricorrenti Francesco e Rocco V in punto di gravi
indizi di colpevolezza relativamente al reato di cui all'art. 648
ter, avverso l'ordinanza 12 gennaio 2000 che aveva pronunciato
sull'appello del Pubblico ministero, sono inammissibili.
Pure se tali doglianze dovranno essere vagliate nel complessivo
giudizio di legittimità, allorché verranno prese in esame le censure
avanzate contro l'ordinanza 20 dicembre 1999 denunciata per
cassazione dei V, la necessaria osservanza delle posizioni di
legittimazione al ricorso impone una netta separazione tra i motivi
di ricorso e ciascuno dei due provvedimenti.
Il giudizio di legittimità è, infatti, rigorosamente circoscritto
dalla natura devolutiva dell'appello in materia cautelare e non può
estendersi all'esame dei gravi indizi di colpevolezza relativamente
alla fattispecie di reato addebitate nel provvedimento impositivo
della custodia, operando anche in materia cautelare il precetto di
cui all'art. 606, comma 3, c.p.p.. Tanto più che la richiesta di
riesame proposta da entrambi i V avverso il provvedimento che
aveva applicato la misura degli arresti domiciliari, richiesta presa
in considerazione in un separato procedimento, risulta respinta dal
Tribunale di Salerno con provvedimento autonomamente impugnato per
cassazione.
L'oggetto del giudizio sul punto davanti a questa Corte non può
eccedere, quindi, con riferimento all'ordinanza 12 gennaio 2000,
l'ambito della statuizione concernente l'applicabilità della
circostanza aggravante, consistente, per usare le parole del
Pubblico ministero, nella "consapevolezza da parte degli indagati,
di agevolare, per effetto della loro condotta di riciclaggio
un'associazione camorristica", nonché l'addebito concorso esterno
nel reato di cui all'art. 416 bis c.p.
In un quadro in cui al provvedimento scaturente dall'appello dal
Pubblico Ministero, va addebitato una non rigorosa sovrapposizione
delle singole vicende e dei rispettivi punti di vista, così da non
agevolare, certo, l'opera dei difensori nell'enucleare le singole
censure.
4. Tanto premesso, rileva il Collegio che le censure proposte dai
V nei confronti dell'ordinanza 12 gennaio 2000, relative ai gravi
indizi di colpevolezza, sono inammissibili.
5. Venendo ora ad esaminare le doglianze introdotte contro
l'ordinanza 20 dicembre 1999 ed i restanti motivi che coinvolgono
l'ordinanza 20 dicembre 1999 ed i restanti motivi che coinvolgono
l'ordinanza 12 gennaio 2000, ritiene il Collegio che i ricorsi
debbano, ma solo in parte, trovare accoglimento.
6. Le censure incentrate sulla ipotizzabilità della fattispecie di
cui all'art. 648 ter c.p. si rivelano ai limiti
dell'inammissibilità, per i profili giuridici su cui hanno insistito
entrambi i ricorrenti. E ciò perché può affermarsi, con la più
autorevole dottrina, che il legislatore, con la previsione di tale
reato abbia portato a compimento il disegno di un'autonoma
criminalizzazione della specifica condotta di impiego in attività
economiche e finanziarie dei proventi illeciti, avviato con
l'introduzione della analoga previsione dell'art. 416 bis, 6° comma.
Una simile circostanza aggravante, pur essendo, per certi aspetti,
dotata di un notevole spazio operativo appariva, in realtà, inidonea
a contrastare un fenomeno imponente ed esiziale, come l'investimento
di danaro illecito, essendo essa circoscritta al caso in cui tale
comportamento sia realizzato da un'associazione per delinquere, per
di più caratterizza ai sensi del 3° comma del medesimo art. 416 bis.
Con la conseguenza che l'intervento legislativo sembra destinato ad
evitare l'inquinamento delle operazione economico-finanziarie che
hanno alla base un capitale costituito, ad opera di soggetti i quali
si avvalgono di cespiti contrassegnati dai soli costi delle attività
illecite da cui traggono origine, con evidente turbamento del
mercato. Il tutto in un assetto normativo che, pur nell'ambito
dell'applicazione del principio di sussidiarietà, qui addirittura
"rafforzato", fa ritenere - almeno allo stato - correttamente
evocato l'art. 648 ter c.p..
7. Entrambi i V hanno dedotto illogicità della motivazione quanto
alla sussistenza di un grave quadro indiziario in ordine al concorso
nel reato di cui all'art. 648 ter c.p., sotto il profilo della
"provenienza camorristica" della somma materiale ricevuta dal Rocco
e, dunque, all'applicabilità della circostanza aggravante prevista
dall'art. 7 del decreto legge n. 152 del 1999, convertito dalla
legge n. 203 del 1991.
La censura è priva di fondamento.
Come si è in precedenza fatto cenno, il Pubblico ministero aveva
richiesto l'adozione a carico dei V della misura custodiale,
ipotizzando, in ordine al reato di cui all'art. 648 ter c.p., la ora
ricordata circostanza aggravante, per aver commesso il fatto
"avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p. ed al
fine di agevolare un'associazione camorristica". Il Giudice per le
indagini preliminari ritenne inipotizzabile la detta circostanza
perché, pur "all'interno di un quadro indiziario di indubbia
significatività in ordine alla contiguità tra poteri criminali ed
ambienti economici, gli elementi raccolti ed in precedenza
illustrati in ordine all'effettiva consapevolezza da parte degli
indagati di agevolare un'associazione camorristica della portata di
quella diretta dal P, non possono considerarsi sufficienti anche con
riguardo alla possibilità di ravvisare l'aggravante contestata".
A seguito dell'appello del Pubblico Ministero il giudice del riesame
ha, invece, ritenuto sussistente l'indicata circostanza aggravante,
richiamando sia i trascorsi fra i germani V ed il .. e la sicura
conoscenza da parte degli indagati del controllo ad opera del
sodalizio diretto da quest'ultimo, dopo la diaspora del clan
Alfieri, del territorio ove gli indagati stessi operavano, sia
l'entità delle somme ricevute nonostante la consapevolezza che il
loro referente non svolgeva alcuna lecita attività lavorativa, sia,
infine, le stesse modalità estremamente agevolate dell'"operazione
finanziaria". Traendone correttamente la conclusione che gli
investimenti vennero effettuati al fine di agevolare l'associazione
camorristica diretta dal P. Poco importa - è appena il caso di
precisarlo - che attraverso l'operazione finanziaria i ricorrenti
intendessero perseguire anche un fine personale, dovendo il "fine di
agevolare l'attività delle associazioni" mafiose essere interpretato
in senso obiettivo-funzionale, con la conseguenza che il momento
soggettivo assume valenza sul semplice presupposto che l'attività
compiuta si traduca in un'agevolazione ad operazioni di sodalizi di
quel tipo. Un dato, peraltro, non proprio correttamente inteso
dall'ordinanza impugnata che sembra assegnare rilevanza alla detta
agevolazione esclusivamente ai fini della ipotizzabilità della
fattispecie del concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso
(v. pag. 38 del provvedimento 12 gennaio 2000).
Vanno conseguentemente disattese le doglianze incentrate sia sul
grave quadro indiziario in ordine al delitto di cui all'art. 648 ter
c.p. sia relativamente all'applicazione della circostanza aggravante
di cui all'art. 7 del decreto legge n. 152 del 1991, con conseguenti
riverberi - come si vedrà più avanti - pure in tema di esigenze
cautelari.
8. Fondata è invece - ma per ragioni diverse da quelle indicate nei
ricorsi - la censura con la quale si contesta l'esistenza di un
grave quadro indiziario in ordine al concorso "esterno" nel delitto
di associazione per delinquere di tipo mafioso.
8.1. L'esigenza di un esame della "tenuta" della decisione delle
Sezioni unite (Sez. un. 5 ottobre 1994, Dimitry) in tema di concorso
esterno nel delitto di cui all'art. 416 bis c.p., già avvertita da
talune statuizioni di legittimità (cfr. Sez. VI, 22 novembre 1999,
Trigili), impone a questa corte, in primo luogo, di verificare se
nei confronti di una simile pronuncia sia necessario avanzare talune
proposizioni problematiche, anche riflettendo sul fatto che il
decorso interpretativo della sentenza Dimitry non si è manifestato,
nel concreto, assai agevole, soprattutto considerando la tipologia
di condotta cui dovrebbe aderire il concorrente "atipico" e le non
rare discrasie rilevabili in giurisprudenza con riferimento ad altre
ipotesi di "contiguità mafiosa" (v., ad esempio, Sez. VI, 21 maggio
1998, Pecoraro); in secondo luogo, di vagliare se il contegno
ascritto agli indagati sia inquadrabile nella fattispecie di reato
nei termini ritenuti ipotizzabili dal massimo organo di
nomofilachia, così da precludere, in caso negativo, un altrimenti
ineludibile nuovo accesso alle Sezioni unite, a norma degli arrt.
618 c.p.p. e 172, comma 2, delle norme di attuazione dello stesso
codice.
8.2. Nel ripercorrere i tracciati giurisprudenziali in tema di
concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso le
Sezioni unite hanno segnalato come la soluzione che afferma
l'inipotizzabilità non dubita che esso possa profilarsi nella forma
del concorso morale, così da respingere la problematica alla
configurabilità del concorso materiale. Peraltro riconoscendo, in
base alle regole generali dettate dagli artt. 110 e seguenti
c.p. - che non distinguono tra i due tipi di concorso, necessario ed
eventuale - la configurabilità del concorso eventuale dell'estraneo
nella fattispecie plurisoggettive. Ma, poiché, secondo l'art. 110
c.p., i concorrenti debbono realizzare il medesimo reato, "nel senso
che tutte le diverse condotte di partecipazione devono essere
finalisticamente orientate verso il medesimo evento da cui dipende
la rilevanza del tipo di fatto incriminato", occorre che sussista,
una coincidenza volitiva nel senso che se per la realizzazione del
reato è indispensabile il dolo specifico, tutti i concorrenti devono
perseguire la specifica finalità richiesta dalla norma
incriminatrice o, quanto meno, devono essere consapevoli di
contribuire alla condotta di chi, per commettere il reato, agisce
con tale finalità.
L'elemento oggettivo del reato di associazione per delinquere di
tipo mafioso è costituito - si prosegue - dalla condotta di
partecipazione, intesa come la stabile premessa del vincolo
associativo tra gli autori. L'elemento soggettivo, a sua volta, si
incentra nel dolo specifico, nella cosciente volontà di partecipare
all'associazione per delinquere con il fine di realizzare il
particolare programma - che si realizza, nel concreto, attraverso
sia condotte illecite, sia condotte di per sé lecite, ma penalmente
perseguibili perché realizzate con le modalità descritte dall'art.
416 bis c.p. - con la permanente consapevolezza di ciascun associato
di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad
operare per l'attuazione delle comuni finalità delinquenziali con
qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al
rafforzamento della struttura associativa.
Il concorrente eventuale deve, dunque, agire con la "volontaria
consapevolezza" che detta sua azione contribuisce all'ulteriore
realizzazione degli scopi della societas sceleris; il che, non
differisce dagli elementi - soggettivo ed oggettivo -
caratterizzanti la partecipazione e, quindi, il concorso necessario,
attesa la natura di reato plurisoggettivo qualificante la
fattispecie di cui all'art. 416 bis c.p.; con la conseguenza che non
è possibile ipotizzare la figura del concorrente eventuale, che
estraneo all'organismo criminoso, pur tuttavia concorre, con la sua
condotta, alla realizzazione della fattispecie. Il fatto, poi, che
la lettera dell'art. 418 c.p. sembrerebbe ammettere il concorso
eventuale nel reato di cui all'art. 416 bis c.p., laddove prescrive
che detta figura criminosa è applicabile "… al di fuori dei casi di
concorso nel reato di favoreggiamento …", non assumerebbe valore
designare dal momento che l'interpretazione sistematica di altre
norme penali interessanti la materia conduce a ritenere che
l'espressione sopra ricordata si riferisce al solo concorso
necessario di persone nel reato di cui all'art. 416 bis c.p..
Ancora, secondo la tesi che considera inipotizzabile il concorso
esterno materiale nel delitto di associazione per delinquere di tipo
mafioso, le condotte in vario modo agevolatrici o del singolo
appartenente all'associazione ovvero dell'attività dell'associazione
di per sé considerata, che dovrebbero concretizzare il comportamento
del concorrente eventuale, sono state specificamente prese in
considerazione dal legislatore, il quale, allo scopo di reprimere
qualsivoglia forma di "contiguità" con organizzazioni criminose da
parte di soggetti non organicamente inseriti, ha previsto - art.
378, 2° comma, c.p., introdotto con l'art. 2 della legge 13
settembre 1982 n. 646, esplicitamente emanato per la prevenzione
e repressione dei fenomeni di criminalità organizzata -
un'aggravante per il delitto di favoreggiamento personale allorché
l'agente abbia inteso agevolare l'elusione delle indagini o la
sottoscrizione alle medesime da parte di soggetto responsabile della
commissione del delitto di cui all'art. 416 bis c.p.. Con l'art. 7
del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12
luglio 1991, n. 203, è stata, poi, introdotta un'ulteriore
aggravante per chi commetta delitti, punibili con pena diversa da
quella dell'ergastolo, al fine di agevolare le attività delle
associazioni per delinquere di stampo mafioso e di quelle ad esse
equiparate dall'ultimo comma dell'art. 416 bis. L'introduzione,
dunque, delle circostanze aggravanti sopra ricordate confermerebbe
che l'unica forma di concorso di persone nel reato in questione è
quella del concorso necessario perché "ontologicamente connaturato
alla particolare struttura della fattispecie e conforme alla vigente
normativa in tema di concorso anche in relazione a quanto
specificamente introdotto dalla citata legislazione inerente alla
materia della criminalità organizzata". La disamina sulla detta
linea interpretativa prosegue con la constatazione che essa non
esclude il concorso eventuale in alcuni reati a struttura
plurisoggettiva (tra i quali - come si vedrà fra poco - non è
indiscutibile rientri il delitto di cui all'art. 416 bis c.p.) ma lo
ritiene non ravvisabile con riferimento all'associazione per
delinquere di tipo mafioso riguardo al quale l'elemento psicologico
consiste nel dolo specifico, cioè nella consapevolezza di ciascun
associato di far parte del sodalizio con la volontà di realizzare i
fini propri dell'associazione e con la volontà di avvalersi della
forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque,
il controllo di attività economiche, di concessioni, di
autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti
o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
Il che imporrebbe di affermare che se sussiste una simile
manifestazione dell'elemento soggettivo tutto ciò sta a significare
che il concorrente esterno è consapevole di far parte del sodalizio
con la volontà di realizzare i fini propri dell'associazione e, per
giunta, con la volontà di realizzare le sopra indicate specifiche
finalità previste dall'art. 416 bis, così' da non differenziarsi da
quella del partecipe prevista dal 1° comma dello stesso articolo.
8.3. Nel prendere in esame la linea interpretativa che ammette la
configurabilità del concorso eventuale materiale nel reato di
associazione per delinquere di stampo mafioso, le Sezioni unite
richiamano, in primo luogo, quella non recente giurisprudenza che ha
ritenuto l'ipotizzabilità di una simile forma di concorso con
riferimento al reato di cui all'art. 305 c.p.
Con specifico
riguardo all'art. 416 bis c.p., mostrano di aderire a quella
tendenza che puntualizzato come, mentre le condotte di
"partecipazione all'associazione devono essere caratterizzate, sul
piano soggettivo, dall'affectio societatis, ossia dalla
consapevolezza e dalla volontà di far parte dell'organizzazione
criminosa, condividendone le sorti e gli scopi e, sul piano
oggettivo, dall'inserimento nell'organizzazione, il concorso
eventuale si configura, invece, non soltanto nel caso di concorso
psicologico - nelle forme della determinazione e della istigazione -
nel momento in cui l'associazione viene costituita, ma anche
successivamente quando il terzo non abbia voluto entrare a far parte
dell'associazione o non sia stato accettato come socio e, tuttavia,
presti all'associazione medesima un proprio contributo, a condizione
che tale apporto, valutato ex ante, in relazione alla dimensione
lesiva del fatto ed alla complessità della fattispecie, sia idoneo,
se non al potenziamento, almeno al consolidamento e al mantenimento
della organizzazione.
Tanto da qualificarsi come apporto obiettivamente adeguato e
soggettivamente diretto a rafforzare o mantenere in vita
l'associazione criminosa, con la consapevolezza e la volontà di
contribuire alla realizzazione degli scopi dell'associazione per
delinquere; il concorso, pertanto, non sussiste quanto il contributo
è dato ai singoli associativi, ovvero ha ad oggetto specifiche
imprese e l'agente persegua fini suoi propri in una posizione
indifferente rispetto alle finalità proprie della associazione.
Dopo aver precisato come i due indirizzi convergano nella
proposizione che il concorso eventuale è configurabile in non poche
fattispecie plurisoggettive o reati a concorso necessario, le
Sezioni unite ravvisano il punto di attrito fra le due linee
giurisprudenziali nella ipotizzabilità del concorso eventuale nel
reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.
8.4. Viene così posto in luce come sia il diaframma
dell'associazione ad impedire il concorso esterno, non il fatto che
si tratti di reato a concorso necessario. Ciò, però, sulla premessa
- condivisa delle Sezioni unite, ma tutta da dimostrare - che l'art.
416 bis delinei un vero e proprio reato a concorso necessario o non
piuttosto - una proposizione formulata in via esclusivamente
problematica - una fattispecie monosoggettiva caratterizzata da un
momento "statico" che acquista una proiezione dinamica solo in
relazione ai fini. Senza considerare, cioè, che l'associazione, se
scaturisce da un accordo, nel momento in cui si costituisce, resta
uno schema aperto in cui possono inserirsi, di volta in volta,
soggetti diversi che il sodalizio chiama a far parte, così da
rivelare la distinzione tra associazione (nella sua dimensione
"statica") e delitti fine (nella loro dimensione "dinamica").
8.5. Le Sezioni unite argomentano, quindi, che l'elemento materiale
del reato di cui all'art. 416 bis c.p. costituito dalla condotta di
partecipazione ad associazioni di tipo mafioso e che
per partecipazione deve intendersi la stabile permanenza del vincolo
associativo tra gli autori. La condotta tipica consiste, dunque, nel
far parte della associazione, il che importa che una condotta, per
essere considerata aderente al tipo previsto dall'art. 416 bis, deve
rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con
l'organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto,
faccia parte del sodalizio, vi sia stabilmente incardinato, con
determinati, continui, compiti anche per settori di competenza. Ma -
va notata - mentre l'espressione "condotta tipica" pare, quanto
meno, impropria perché ogni condotta, anche "esterna", è tipica sia
pure risultante dal contributo apprestata dall'art. 110 c.p., il
contenuto del "far parte" si rivela alquanto approssimativo,
profilandosi l'associazione mafiosa come realtà ben più complessa.
Pure se non v'è dubbio che l'espressione "far parte" postuli, in
primo luogo, un'adesione, quindi, una partecipazione, si trtta di
momenti distinguibili concettualmente anche se non sotto il profilo
"diacronico".
8.6. Quanto, poi, a stabilire in cosa consista la condotta del
concorrente eventuale, le Sezioni unite accedono alla tesi che egli
debba "contribuire - atipicamente - alla realizzazione della
condotta tipica posta in essere da altri".
Se il concorrente non entra a far parte dell'associazione, ciò a
significare che non è parte, cioè non è coautore della stabile
permanenza del vincolo associativo, ma si limita a porre a
disposizione degli altri - di coloro per i quali la condotta è la
stabile permanenza nella associazione, è il far parte di
quest'ultima - il proprio contributo che, proprio perché, per
definizione, non è caratterizzato dalla stabilità, non può non
essere circoscritto nel tempo e che, comunque, deve consistere agli
altri di continuare a dar vita alla condotta tipica, alla stabile
permanenza del vincolo. Così inserendo una vera e propria antinomia
- non solo linguistica, ma pure concettuale - perché se la nozione
di autore è normalmente contrapposta a quella di partecipe, stando
al lessico utilizzato dall'art. 416 bis autore è solo il partecipe
(salvo l'organizzatore, etc).
Nonostante ciò le Sezioni unite insistono sulla ipotizzabilità di un
contributo atipico sovrapponibile alla condotta tipica del
partecipe, tanto da inferirne che, per concludere che in questo
reato non v'è spazio per il concorso eventuale, si dovrebbe
dimostrare che non è possibile una condotta atipica, un contributo
alla realizzazione della condotta tipica. Il che sembrerebbe da
intendere nel senso che si contribuisce solo a far parte.
8.7. Passando, poi, ad esaminare la problematica riguardante
l'elemento soggettivo, si contesta quella linea interpretativa che
ritiene non ipotizzabile il concorso eventuale perché un simile tipo
di concorrente non può agire con dolo specifico che comporta la
volontà sia di far parte della associazione, sia di volerne
realizzare i fini. Osservandosi come non si possa pretendere che chi
vuole dare un contributo senza far parte dell'associazione così da
dar vita ad una condotta atipica, non potrà volere che la condotta
(cioè la condotta di agevolazione?) e non la condotta di far parte
dell'associazione che è la condotta tipica del partecipe.
D'altro canto, si prosegue, la dottrina più autorevole in tema di
dolo specifico è nel senso che possa ipotizzarsi "concorso con dolo
generico in un reato a dolo specifico", a condizione che un altro
concorrente abbia agito con la finalità richiesta dalla legge, cioè
con dolo specifico. Così da inferirne ulteriormente che se questo
principio ha valore generale, deve valere anche per il reato di
associazione per delinquere di tipo mafioso, cosicché la legge non
richiede che il concorrente eventuale abbia la volontà di far parte
della associazione - volontà che va esclusa ex se - e la volontà di
realizzare i fini propri della associazione, essendo sufficiente che
abbia la consapevolezza che altri fa parte e ha voglia di far parte
della associazione e agisce con la volontà di perseguire i fini.
Senza che ciò stia a significare che il concorrente eventuale non
voglia il suo contributo e non si renda conto che questo contributo
gli viene richiesto per agevolare l'associazione; ma semplicemente
che il concorrente eventuale, pur consapevole di agevolare, con quel
suo contributo, l'associazione, può disinteressarsi della strategia
complessiva di quest'ultima e degli obiettivi che la stessa si
propone di conseguire.
Conclusione - si noti - davvero inquietante, perché mentre, da un
lato, ci si trova in presenza di un dolo di "agevolazione", che non
può incentrarsi sulla posizione del partecipe, dall'altro lato,
tutto si esaurisce nell'accertamento dell'esistenza del dolo di
"agevolazione". Con la conseguenza che se il fenomeno si restringe
all'agevolazione, poiché la legge tipicizza le ipotesi di
agevolazione con dolo di agevolazione, se ne dovrebbe trarre a
corollario che le altre ipotesi di agevolazione non siano penalmente
rilevanti.
8.8. Del resto - rimarcano le Sezioni unite - pure chi esclude la
configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per
delinquere di stampo mafioso ritiene che il concorso eventuale nel
reato di associazione per delinquere di stampo mafioso ritiene che
il concorso eventuale sia ipotizzabile nella forma del concorso
morale e dà per scontato che il concorrente "morale" possa agire e
agisca con il dolo specifico e che, pur con questo dolo, continui ad
essere concorrente eventuale. Cosicché, se non v'è nessuna ragione
per ammettere, in questo reato, il concorso eventuale nella forma
del concorso morale e per escluderlo nella forma del concorso
materiale, si deve concludere che il concorrente "materiale" può
avere il dolo specifico ed essere, appunto, concorrente eventuale
come lo è il concorrente "morale".
Così però trascurando una differenza che pare davvero fondamentale:
che, cioè il concorso morale è, per definizione, al di fuori
dell'azione esecutiva e che, dunque, la responsabilità del
concorrente morale si ricava dai principi sul concorso di persone
nel reato e, più in particolare, dall'art. 115 c.p.
Inoltre, come sembra riconoscere la sentenza delle Sezioni unite, il
comportamento del concorrente morale è sempre designato dal dolo
specifico.
8.9. Desta, quindi, ulteriori perplessità quella che costituisce
l'argomentazione che può definirsi cruciale della sentenza Dymitri
che conduce ad assimilare contributo morale e contributo materiale;
un'assimilazione che renderebbe difficile comprendere perché si
"ammetta la configurabilità del concorso eventuale morale e, nello
stesso tempo, non solo si neghi la compatibilità, con il reato di
cui all'art. 416 bis, del concorso eventuale materiale, ma la si
neghi anche sul presupposto che il concorrente materiale non
potrebbe agire che con il dolo specifico, quello stesso dolo che si
riconosce, però, essere proprio del concorrente eventuale morale".
Cosicché il concorrente eventuale materiale può prestare il suo
contributo con il dolo specifico restando, nonostante ciò,
concorrente eventuale.
Del resto - e questo sembra un ulteriore momento cruciale della
decisione - "la diversa natura, morale l'una e materiale l'altra,
delle due forme di concorso fa sì che, mentre la partecipazione
morale, sia nella forma della determinazione, sia in quella del
rafforzamento, si risolve sempre in una condotta atipica, la
partecipazione materiale può consistere sia nella condotta tipica
sia una condotta atipica, in una parte della condotta tipica.
8.10 Postulati - quelli ora rammenti -che sembrano trascurare come
l'azione possa qualificarsi - e con molta approssimazione - atipica
solo sul piano esecutivo, non su quella ideativo e che la
responsabilità del concorrente morale è ricavabile dai principi
sull'accordo (ab initio o in itinere) a commettere il reato.
Non è proprio davvero comprensibile perché la partecipazione morale
debba essere "sempre atipica", "mentre la partecipazione materiale,
quando consiste in una parte della condotta tipica, è meno esterna
rispetto a quest'ultima, meno lontana di quanto non lo sia la
partecipazione morale".
L'esempio, del padre che istighi o determini il figlio ad inserirsi
nell'associazione e che rivelerebbe un contegno "indiscutibilmente
del tutto esterno rispetto all'associazione", non pare appropriato perché
quel contegno non è esterno rispetto al momento dell'istigazione,
mentre, negli stesso termini è sempre esterno (ma non atipico) il
comportamento del concorrente morale rispetto alla tipicità intesa
come realizzazione dell'azione esecutiva. Con la conseguente
impossibilità di istituire una parificazione sul piano della
tipicità tra concorrente morale e concorrente materiale. Ciò
dimostra, ancora una volta, che il concorrente morale è concorrente
tipico, per definizione esterno rispetto all'associazione e che
risponde con lo stesso dolo del concorrente (autore), perché la sua
attività si realizza sempre al di fuori dell'azione esecutiva che,
se non viene posta in essere (neppure nella forma del tentativo) non
implica, ex art. 115 c.p. la realizzazione di alcun reato.
8.11. Relativamente, poi, all'introduzione, con l'art. 7 del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12
luglio 1991, n. 203 di un'ulteriore aggravante per chi commetta
delitti, punibili con pena diversa dall'ergastolo, al fine di
agevolare le attività delle associazioni per delinquere", le Sezioni
unite rilevano come sia da dimostrare che, qualora il contributo
richiesto all'estraneo per assicurare la vita della associazione,
passi attraverso un determinato o determinati delitti, il delitto o
i delitti, così aggravati, non possano concorrere con il reato di
cui agli articoli e 416 bis c.p.
Non si vede - si afferma - perché l'associazione se, per poter
continuare a vivere, per poter essere in grado di raggiungere i suoi
scopi, ritiene di dover ricorrere, in certo momento della sua
esistenza, al delitto, non possa decidere, per commetterlo, di
avvalersi di un esterno, che accetti di intervenire.
Il punto è da meditare attentamente per una duplice serie di
ragioni: in primo luogo, perché si è in presenza di una circostanza
aggravante di natura soggettiva che punisce più gravemente il reato
non per la mera conoscenza della "mafiosità" dell'associazione verso
cui il concorrente si dirige, ma per la finalizzazione del reato ed
agevolare l'associazione mafiosa; in secondo luogo, perché viene
operata la prima delimitazione, che sarà sviluppata più avanti,
all'operatività del concorso esterno, riferendocisi promiscuamente
alla possibilità per l'associazione di "poter continuare a vivere",
di "poter essere in grado di raggiungere i suoi scopi"; in terzo
luogo, perché negli esempi fatti ci si trova sempre di fronte a casi
di reati aggravanti ai sensi della prima o della seconda parte
dell'art. 7; anche perché sembrerebbero coinvolti, almeno di norma,
reati fine.
8.12. Quanto poi all'art. 418 c.p. - che punisce l'assistenza agli
associati - nella parte iniziale, in cui prescrive che questa figura
criminosa è applicabile "… al di fuori dei casi di concorso nel
reato o di favoreggiamento", espressione che, secondo una parte
della giurisprudenza, si riferirebbe al solo concorso necessario e
non anche al concorso eventuale, le Sezioni unite osservano, da un
lato, come essa contrasta con l'interpretazione seguita
relativamente alla identica espressione adottata dall'art. 307, 1°
comma, c.p.; dall'altro lato, che "nel comma di trovano due
espressioni differenti, rappresentate dalle locuzioni "concorso nel
reato" e "persone che partecipano all'associazione" che richiamano
necessariamente due realtà differenti", perché - in base ad una
lettura comparativa delle varie disposizioni - "concorso nel reato"
non significa partecipazione allo stesso, ma concorso eventuale
esterno nel reato associativo.
E' da ritenersi, pertanto, che il legislatore abbia inteso ammettere
esplicitamente la configurabilità di un concorso eventuale nei
confronti della associazione" Senza contare che, se l'espressione
dovesse intendersi "… al di fuori del concorso necessario", si
tratterrebbe di una insolita formulazione della clausola di
sussidiarietà, che il legislatore avrebbe apposto alla tipizzazione
di una data fattispecie. Non senza richiamare la relazione
ministeriale sul progetto al codice penale che, nell'illustrare
l'articolo 418 c.p., afferma che "questa figura criminosa è tenuta
distinta dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento" e che
"infondato è il dubbio sollevato se l'inciso "fuori dei casi di
concorso nel reato o di favoreggiamento" si debba riferire al reato
d'associazione o al reato-fine che gli associati si propongono di
commettere, apparendo chiaro che il riferimento va fatto al reato di
associazione per delinquere, oggetto della speciale previsione".
Ora, mentre la prima proposizione pare fondarsi su un rilievo
davvero poco designante, la seconda dà per scontato che il
riferimento non sia soltanto al concorso morale. Quanto all'ultima
affermazione, l'argomento potrebbe agevolmente ribaltarsi
argomentando che ci si riferisce alla partecipazione "interna"
all'associazione per delinquere. Non è poi esatto che, anche accolta
la tesi che si alluda al concorso esterno, ci si richiami anche a
tutte le forme di concorso e non anche soltanto al concorso morale.
La terza proposizione, quella scientificamente più corretta, dà
vita, anche qui, alla posizione dilemmatica concorso morale -
concorso materiale.
8.13. Nel delimitare il confine tra il partecipe e il concorrente
eventuale materiale le Sezioni unite pervengono a tracciare i
seguenti conclusivi principi.
In primo luogo, partecipe è colui che fa parte dell'associazione,
che, cioè, "entra nell'associazione e ne diventa parte" rispetto
alla formula "per il solo fatto di partecipare", adottata in
pressocché tutti gli altri reati associativi, "ha avuto
consapevolezza di una peculiare caratterizzazione del rapporto
associativo-associazione nel contesto mafioso, consapevolezza che si
è tradotta normativamente in una maggiore tipizzazione della figura
del partecipe", ciò sta a significare al tipo previsto dell'art. 416
bis per la partecipazione ad una associazione mafiosa, deve
rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con
l'organismo criminale tale da potersi sostenere che egli, appunto,
faccia parte di esso". Ma tale asserzione parrebbe, invece, di
trarsi la conclusione inversa da quella voluta dalla sentenza. "Far
parte" sembra alludere, infatti, ad una situazione "statica",
"partecipare" ad una situazione "dinamica".
In secondo luogo, quanto alla prova della "compenetrazione", il
riscontro più pregnante della eventuale o delle eventuali chiamate
in correità è il ruolo assegnato dall'associazione al partecipe e da
quest'ultimo svolto. Di qui la conclusione che i partecipe "è colui
senza il cui apporto quotidiano o, comunque, assiduo l'associazione
non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta
speditezza, il che apre la strada ad una vasta gamma di possibili
partecipi, che vanno da coloro che si sono assunti o ai quali sono
stati affidati compiti di maggiore responsabilità … - i promotori,
gli organizzatori, i dirigenti - a quelli con responsabilità minori
o minime, ma il cui compito è o è pure necessario per le fortune
della associazione e che agiscono, per lo più, nella fisiologia,
nella vita "corrente", quotidiana dell'associazione. Il tutto
riferendosi, quindi, non a chi "fa parte", ma a chi "partecipa".
In terzo luogo, il concorrente eventuale è, per definizione, colui
che non vuole far parte della associazione e che l'associazione non
chiama a "far parte", ma, al quale si rivolge sia, ad esempio, per
colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto
nel momento in cui la "fisiologia" dell'associazione entra in
fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per essere
superata, esige il contributo temporaneo, limitato, di un estraneo.
Certo, anche in questo caso potrebbe risultare che l'associazione ha
assegnato ad un associato il ruolo di aiutarla a superare i momenti
patologici della sua vita.
Ma, resta il fatto che, pur tenendo conto di tutti i possibili
distinguono e di tutte le approssimazione proponibili, lo spazio
proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello
dell'emergenza nella vita della associazione o, quanto meno, non lo
spazio della "normalità" …, occupabile da uno degli associati.
Pare questo, dunque, il vero "tassello" posto dalla sentenza alla
indiscriminata operatività del concorso esterno. La situazione di
pericolo per la vita dell'associazione. Quindi, il concorrente
esterno deve sapere che con la sua opera "salva" l'associazione.
Sembra, però, che una tale simile proposizione si presenti
contraddittoria rispetto all'attività del concorrente morale.
Nell'esempio del padre che determina il figlio a far parte
dell'associazione, occorre che la partecipazione del figlio debba
intervenire in un momento di fibrillazione del sodalizio. Pare debba
allora conseguire che o si ammette che il determinatore o
l'istigatore è un partecipe in quanto concorre nel far parte e,
quindi, che il concorso morale si traduca, in effetti, in una
ordinaria ipotesi di concorso. Ovvero, bisognerà far riferimento
alle stesse regole, "ricostruite" dalla sentenza per il concorso
materiale. Tutto sembrerebbe condurre, insomma, alla non
configurabilità del concorso esterno, sia morale sia materiale.
L'argomento pare davvero decisivo proprio perché il punto più
significativo della parte della sentenza che ammette il concorso
esterno "materiale" sembra incentrarsi sulla riconosciuta
ipotizzabilità del concorso morale; quest'ultimo, peraltro, nella
logica della "fibrillazione" che però sembra non correttamente
riferita al solo concorso materiale, avrebbe un concreto spazio di
operatività estremamente ristretto.
Il presupposto resta, quindi, l'emergenza della vita
dell'associazione; ovvero nello spazio della normalità viene
occupato uno spazio non occupabile da uno degli associati. Il
principio di tipicità sembrerebbe, dunque, seriamente compromesso
anche per la stessa nozione di tipicità - atipicità espresso dalla
decisione.
9. Come si è visto, le Sezioni unite nel tentativo di conferire la
necessaria "tipicità" (almeno con riferimento al disposto di cui
all'art. 110 c.p.) al concorso esterno materiale, allo scopo di
limitarne la versatilità e di operare un più penetrante discrimine
rispetto ad altre forme di "appoggio" o di "contiguità" hanno
ravvisato l'ipotesi prevista dagli artt. 110 e 416 bis c.p.
nell'esigenza che l'intervento "esterno" si introduca in un momento
in cui il sodalizio criminoso si trovi in situazione di difficoltà,
tenendo proprio a far sì che l'associazione venga, proprio per il
contributo dell'esterno "salvata"; il tutto se e sempreché - ma ciò
concerne il profilo soggettivo - il concorrente esterno sappia di
questa situazione di difficoltà, pur se non intenda realizzare i
fini dell'associazione. Il concorso, di conseguenza, vale a
qualificare l'eventuale reato posto in essere per salvare
l'associazione non come reato fine ma come reato mezzo realizzato
per gli scopi del sodalizio in mancanza della volontà di farli
propri, ponendo in essere uno o più comportamenti che, per la
situazione in cui versa l'associazione, divengono funzionali al superamento dei pericoli che rischiano di compromettere la permanenza dell’associazione mafiosa (v., per una puntuale lettura
di tali principi, Sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante).
10. Ciò consente, peraltro, di superare, nel caso di specie, i
rilievi problematici proposti sul complessivo apparato motivazionale
delle sentenza Dimitry, solo riflettendo sul fatto che, proprio alla
stregua di tale decisione, l'ordinanza impugnata fa emergere come si
sia ben lontani dal presupposto condizionante l'ipotizzabilità del
concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa. Pertanto
compendiarsi l'errore di diritto contenuto nel provvedimento
denunciato - e che esime questa Corte dal rimettere il ricorso alle
Sezioni unite - nel periodo a chiusura della disamina circa gli
estremi del "concorso esterno" (pagg. 41 e 42 del provvedimento 12
gennaio 2000).
11. Né, infine, può essere trascurato come - secondo le Sezioni
unite - il concorrente esterno, proprio perché risponde ai sensi
dell'art. 110 c.p., deve avvalersi (anche se con dolo soltanto
generico, ma pur sempre intenzionale), della forza di intimidazione
del vincolo associativo e della situazione di assoggettamento e di
omertà che ne deriva. Un dato sul quale la ordinanza impugnata
risulta del tutto silente, pur trattandosi di un aspetto
dell'elemento oggettivo del reato decisamente designante, solo
considerando che il concorrente esterno non risponde di concorso
nell'associazione ma nel "far parte" dell'associazione (cfr. Sez.
VI, 22 novembre 1999, Trigili). D'altro canto, voler ridurre, come
fa l'impugnata ordinanza, il contributo fornito dall'extraneus al
nucleo associativo, ad un "rafforzamento" qual che sia dell'attività
del sodalizio appare un dato che viene integralmente a sovrapporsi
al c.d. reato-fine, così da imporrre una necessaria scelta alla
stregua del principio di specialità e che non può compiersi
diversamente se non assegnato esclusivo valore designante alla
condotta prevista dall'art. 648 ter c.p.
12. I V hanno censurato l'ordinanza impugnata anche in punto di
esigenza cautelari.
Senonché, a parte l'ampia e corretta motivazione contenuta
nell'ordinanza impugnata, va ricordato che, in tema di applicazione
delle misure cautelari personali, deve escludersi che il generico
stato di incensuratezza sia di per sé preclusivo della
configurabilità dell'esigenza di prevenire la reiterazione del reato
(art. 274, lett. c, c.p.p.); e ciò tanto più nelle ipotesi di
delitti di stampo mafioso in relazione ai quali sussiste la
presunzione di pericolosità di cui all'art. 275 comma 3, c.p.p., la
quale può essere vinta solo con la dimostrazione in positivo -
attraverso prove logiche o rappresentative - che ogni legane con
l'organizzazione malavitosa è stato definitivamente ed irreversibile
troncato (cfr., ex plurimis, Sez. II, 7 marzo 1997 capolungo).
13. L'ordinanza 12 gennaio 2000 deve, dunque, essere annullata senza
rinvio limitatamente al reato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p..
Per il resto i ricorsi vanno rigettati.
PQM
Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata limitatamente al reato di
cui agli artt. 110, 416 bis c.p.. Rigetta, nel resto, i ricorsi.