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Giurisprudenza 2001 Corte di Cassazione sez. VI penale - sentenza 23 gennaio 2001 n. 3383

Rilevato in fatto. 1. Il Tribunale di Salerno, con ordinanza del 20 dicembre 1999, rigettata la richiesta di riesame proposta dai fratelli V contro il provvedimento 22 novembre 1999, con il quale il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale applicato ad entrambi la misura cautelare degli arresti domiciliari, quali persone gravemente indagate del reato di cui all'art. 648 ter c.p., perché, in concorso tra loro, impiegano in attività economiche e finanziare - vale a dire, nella gestione di un caseificio e di una pub - la somma di lire 1.200.000.000, ricevute dal "clan" camorristico formato da Roberto P e dai suoi familiari, quale provento di estorsioni e di truffe ai danni dell'INPS.
Il Tribunale, premessa l'esistenza di un'associazione per delinquere di tipo mafioso, facente capo alla famiglia P, riteneva che la dazione della somma sopra ricordata da parte del capo clan Roberto P ai V, titolari di un caseificio in Eboli, al tasso di interesse annuo del 10%, la successiva richiesta di lire 500.000 milioni da parte dei V per l'utilizzo in attività imprenditoriali, gli intensi rapporti tra i V ed i P relativi proprio all'impiego di tali capitali, ai conseguenti interessi ed all'utilizzazione degli importi "mutuati" unitamente alle minacce per la mancata restituzione di somme espressamente indicate come oggetto di "riciclaggio", venissero a comporre una grave panorama indiziario in ordine al delitto addebitato. Le esigenze cautelari venivano individuate nel pericolo di reiterazione, sia con riferimento alle modalità ed alle circostanze del fatto, sia con riguardo alla personalità degli indagati, a prescindere dalla loro incensuratezza, nonché nel pericolo di inquinamento probatorio in pendenza delle indagini preliminari.
Hanno proposto ricorso per cassazione sia V Francesco sia V Rocco.
Il primo denuncia violazione dell'art. 648 ter c.p., stante il carattere "residuale" di tale norma incriminatrice, la mancanza di consapevolezza della provenienza illecita del danaro e di finalità consapevolezza della provenienza illecita del danaro e di finalità indirizzate al suo occultamento; nonché violazione dell'art. 274 c.p.p., considerata l'assenza di precedenti penali del ricorrente. Il secondo lamenta mancanza di motivazione, per avere il provvedimento denunciato omesso di considerare la natura di mero prestito della dazione delle somme, l'ignoranza nel ricorrente delle eventuali attività delittuose poste in essere dai P nonché l'assenza di esigenze cautelari.
Successivamente, con ordinanza 12 gennaio 2000, il Tribunale di Salerno accoglieva l'appello proposto dal Pubblico Ministero contro lo stesso provvedimento impositivo degli arresti domiciliari adottato nei confronti dei fratelli V, per le parti in cui aveva ritenuto insussistente la circostanza aggravante prevista dall'art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in ordine all'imputazione di cui all'art. 648 ter c.p. ed aveva escluso la presenza di un grave quadro indiziario quanto al delitto di concorso "esterno" nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso.
In base a tali nuove statuizioni, il Tribunale adottava nei confronti degli indagati la misura cautelare della custodia in carcere.
Anche contro tale provvedimento i V ricorrono per cassazione proponendo una variegata serie di motivi.
V Franco e V Rocco contestano in radice sia la configurabilità nel caso di specie del fatto di reato previsto dall'art. 648 ter c.p. sia, comunque, la conoscenza della provenienza delittuosa della somma consegnata dal P a Rocco V. Franco V denuncia che, in ogni caso, l'operazione venne gestita esclusivamente dal fratello Rocco e, dunque, la sua assoluta estraneità a qualsivoglia rapporto con il P.
Entrambi i V hanno dedotto illogicità della motivazione quanto al concorso nel reato di cui all'art. 648 ter c.p., sotto il profilo della "provenienza camorristica" della somma ricevuta dal Rocco (v., più in particolare il secondo ed il terzo motivo di Francesco V). Hanno pure denunciato violazione della legge penale per essere stata oggetto di addebito da parte del Tribunale insieme alla circostanza aggravante sopra ricordata, anche il concorso "esterno" nel delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso.
2. I ricorsi avverso il provvedimento di accoglimento da parte del Tribunale dell'appello del Pubblico Ministero, originariamente iscritti, insieme al ricorso proposto da altro indagato, al procedimento n. 10955 del 2000, venivano, con ordinanza pronunciata all'odierna udienza in camera di consiglio, previa separazione al procedimento ora ricordato, riuniti ai ricorsi iscritti al procedimento n. 9968 del 2000.
Oggetto dello scrutinio di questa Corte sono, dunque, i due provvedimenti adottati dal tribunale di Salerno, l'uno il 20 dicembre 1999, l'altro il 12 gennaio 2000, per la parte riguardante i soli V.

Osserva in diritto. 3. Al fine di meglio delimitare il thema decidendi demandato a questa Corte, occorre, anzi tutto, precisare come le censure proposte dai ricorrenti Francesco e Rocco V in punto di gravi indizi di colpevolezza relativamente al reato di cui all'art. 648 ter, avverso l'ordinanza 12 gennaio 2000 che aveva pronunciato sull'appello del Pubblico ministero, sono inammissibili.
Pure se tali doglianze dovranno essere vagliate nel complessivo giudizio di legittimità, allorché verranno prese in esame le censure avanzate contro l'ordinanza 20 dicembre 1999 denunciata per cassazione dei V, la necessaria osservanza delle posizioni di legittimazione al ricorso impone una netta separazione tra i motivi di ricorso e ciascuno dei due provvedimenti.
Il giudizio di legittimità è, infatti, rigorosamente circoscritto dalla natura devolutiva dell'appello in materia cautelare e non può estendersi all'esame dei gravi indizi di colpevolezza relativamente alla fattispecie di reato addebitate nel provvedimento impositivo della custodia, operando anche in materia cautelare il precetto di cui all'art. 606, comma 3, c.p.p.. Tanto più che la richiesta di riesame proposta da entrambi i V avverso il provvedimento che aveva applicato la misura degli arresti domiciliari, richiesta presa in considerazione in un separato procedimento, risulta respinta dal Tribunale di Salerno con provvedimento autonomamente impugnato per cassazione.
L'oggetto del giudizio sul punto davanti a questa Corte non può eccedere, quindi, con riferimento all'ordinanza 12 gennaio 2000, l'ambito della statuizione concernente l'applicabilità della circostanza aggravante, consistente, per usare le parole del Pubblico ministero, nella "consapevolezza da parte degli indagati, di agevolare, per effetto della loro condotta di riciclaggio un'associazione camorristica", nonché l'addebito concorso esterno nel reato di cui all'art. 416 bis c.p.
In un quadro in cui al provvedimento scaturente dall'appello dal Pubblico Ministero, va addebitato una non rigorosa sovrapposizione delle singole vicende e dei rispettivi punti di vista, così da non agevolare, certo, l'opera dei difensori nell'enucleare le singole censure.

4. Tanto premesso, rileva il Collegio che le censure proposte dai V nei confronti dell'ordinanza 12 gennaio 2000, relative ai gravi indizi di colpevolezza, sono inammissibili.

5. Venendo ora ad esaminare le doglianze introdotte contro l'ordinanza 20 dicembre 1999 ed i restanti motivi che coinvolgono l'ordinanza 20 dicembre 1999 ed i restanti motivi che coinvolgono l'ordinanza 12 gennaio 2000, ritiene il Collegio che i ricorsi debbano, ma solo in parte, trovare accoglimento.

6. Le censure incentrate sulla ipotizzabilità della fattispecie di cui all'art. 648 ter c.p. si rivelano ai limiti dell'inammissibilità, per i profili giuridici su cui hanno insistito entrambi i ricorrenti. E ciò perché può affermarsi, con la più autorevole dottrina, che il legislatore, con la previsione di tale reato abbia portato a compimento il disegno di un'autonoma criminalizzazione della specifica condotta di impiego in attività economiche e finanziarie dei proventi illeciti, avviato con l'introduzione della analoga previsione dell'art. 416 bis, 6° comma. Una simile circostanza aggravante, pur essendo, per certi aspetti, dotata di un notevole spazio operativo appariva, in realtà, inidonea a contrastare un fenomeno imponente ed esiziale, come l'investimento di danaro illecito, essendo essa circoscritta al caso in cui tale comportamento sia realizzato da un'associazione per delinquere, per di più caratterizza ai sensi del 3° comma del medesimo art. 416 bis. Con la conseguenza che l'intervento legislativo sembra destinato ad evitare l'inquinamento delle operazione economico-finanziarie che hanno alla base un capitale costituito, ad opera di soggetti i quali si avvalgono di cespiti contrassegnati dai soli costi delle attività illecite da cui traggono origine, con evidente turbamento del mercato. Il tutto in un assetto normativo che, pur nell'ambito dell'applicazione del principio di sussidiarietà, qui addirittura "rafforzato", fa ritenere - almeno allo stato - correttamente evocato l'art. 648 ter c.p..

7. Entrambi i V hanno dedotto illogicità della motivazione quanto alla sussistenza di un grave quadro indiziario in ordine al concorso nel reato di cui all'art. 648 ter c.p., sotto il profilo della "provenienza camorristica" della somma materiale ricevuta dal Rocco e, dunque, all'applicabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 7 del decreto legge n. 152 del 1999, convertito dalla legge n. 203 del 1991.
La censura è priva di fondamento.
Come si è in precedenza fatto cenno, il Pubblico ministero aveva richiesto l'adozione a carico dei V della misura custodiale, ipotizzando, in ordine al reato di cui all'art. 648 ter c.p., la ora ricordata circostanza aggravante, per aver commesso il fatto "avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p. ed al fine di agevolare un'associazione camorristica". Il Giudice per le indagini preliminari ritenne inipotizzabile la detta circostanza perché, pur "all'interno di un quadro indiziario di indubbia significatività in ordine alla contiguità tra poteri criminali ed ambienti economici, gli elementi raccolti ed in precedenza illustrati in ordine all'effettiva consapevolezza da parte degli indagati di agevolare un'associazione camorristica della portata di quella diretta dal P, non possono considerarsi sufficienti anche con riguardo alla possibilità di ravvisare l'aggravante contestata". A seguito dell'appello del Pubblico Ministero il giudice del riesame ha, invece, ritenuto sussistente l'indicata circostanza aggravante, richiamando sia i trascorsi fra i germani V ed il .. e la sicura conoscenza da parte degli indagati del controllo ad opera del sodalizio diretto da quest'ultimo, dopo la diaspora del clan Alfieri, del territorio ove gli indagati stessi operavano, sia l'entità delle somme ricevute nonostante la consapevolezza che il loro referente non svolgeva alcuna lecita attività lavorativa, sia, infine, le stesse modalità estremamente agevolate dell'"operazione finanziaria". Traendone correttamente la conclusione che gli investimenti vennero effettuati al fine di agevolare l'associazione camorristica diretta dal P. Poco importa - è appena il caso di precisarlo - che attraverso l'operazione finanziaria i ricorrenti intendessero perseguire anche un fine personale, dovendo il "fine di agevolare l'attività delle associazioni" mafiose essere interpretato in senso obiettivo-funzionale, con la conseguenza che il momento soggettivo assume valenza sul semplice presupposto che l'attività compiuta si traduca in un'agevolazione ad operazioni di sodalizi di quel tipo. Un dato, peraltro, non proprio correttamente inteso dall'ordinanza impugnata che sembra assegnare rilevanza alla detta agevolazione esclusivamente ai fini della ipotizzabilità della fattispecie del concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso (v. pag. 38 del provvedimento 12 gennaio 2000).
Vanno conseguentemente disattese le doglianze incentrate sia sul grave quadro indiziario in ordine al delitto di cui all'art. 648 ter c.p. sia relativamente all'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 7 del decreto legge n. 152 del 1991, con conseguenti riverberi - come si vedrà più avanti - pure in tema di esigenze cautelari.

8. Fondata è invece - ma per ragioni diverse da quelle indicate nei ricorsi - la censura con la quale si contesta l'esistenza di un grave quadro indiziario in ordine al concorso "esterno" nel delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso.

8.1. L'esigenza di un esame della "tenuta" della decisione delle Sezioni unite (Sez. un. 5 ottobre 1994, Dimitry) in tema di concorso esterno nel delitto di cui all'art. 416 bis c.p., già avvertita da talune statuizioni di legittimità (cfr. Sez. VI, 22 novembre 1999, Trigili), impone a questa corte, in primo luogo, di verificare se nei confronti di una simile pronuncia sia necessario avanzare talune proposizioni problematiche, anche riflettendo sul fatto che il decorso interpretativo della sentenza Dimitry non si è manifestato, nel concreto, assai agevole, soprattutto considerando la tipologia di condotta cui dovrebbe aderire il concorrente "atipico" e le non rare discrasie rilevabili in giurisprudenza con riferimento ad altre ipotesi di "contiguità mafiosa" (v., ad esempio, Sez. VI, 21 maggio 1998, Pecoraro); in secondo luogo, di vagliare se il contegno ascritto agli indagati sia inquadrabile nella fattispecie di reato nei termini ritenuti ipotizzabili dal massimo organo di nomofilachia, così da precludere, in caso negativo, un altrimenti ineludibile nuovo accesso alle Sezioni unite, a norma degli arrt. 618 c.p.p. e 172, comma 2, delle norme di attuazione dello stesso codice.

8.2. Nel ripercorrere i tracciati giurisprudenziali in tema di concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso le Sezioni unite hanno segnalato come la soluzione che afferma l'inipotizzabilità non dubita che esso possa profilarsi nella forma del concorso morale, così da respingere la problematica alla configurabilità del concorso materiale. Peraltro riconoscendo, in base alle regole generali dettate dagli artt. 110 e seguenti c.p. - che non distinguono tra i due tipi di concorso, necessario ed eventuale - la configurabilità del concorso eventuale dell'estraneo nella fattispecie plurisoggettive. Ma, poiché, secondo l'art. 110 c.p., i concorrenti debbono realizzare il medesimo reato, "nel senso che tutte le diverse condotte di partecipazione devono essere finalisticamente orientate verso il medesimo evento da cui dipende la rilevanza del tipo di fatto incriminato", occorre che sussista, una coincidenza volitiva nel senso che se per la realizzazione del reato è indispensabile il dolo specifico, tutti i concorrenti devono perseguire la specifica finalità richiesta dalla norma incriminatrice o, quanto meno, devono essere consapevoli di contribuire alla condotta di chi, per commettere il reato, agisce con tale finalità.
L'elemento oggettivo del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso è costituito - si prosegue - dalla condotta di partecipazione, intesa come la stabile premessa del vincolo associativo tra gli autori. L'elemento soggettivo, a sua volta, si incentra nel dolo specifico, nella cosciente volontà di partecipare all'associazione per delinquere con il fine di realizzare il particolare programma - che si realizza, nel concreto, attraverso sia condotte illecite, sia condotte di per sé lecite, ma penalmente perseguibili perché realizzate con le modalità descritte dall'art. 416 bis c.p. - con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l'attuazione delle comuni finalità delinquenziali con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa.
Il concorrente eventuale deve, dunque, agire con la "volontaria consapevolezza" che detta sua azione contribuisce all'ulteriore realizzazione degli scopi della societas sceleris; il che, non differisce dagli elementi - soggettivo ed oggettivo - caratterizzanti la partecipazione e, quindi, il concorso necessario, attesa la natura di reato plurisoggettivo qualificante la fattispecie di cui all'art. 416 bis c.p.; con la conseguenza che non è possibile ipotizzare la figura del concorrente eventuale, che estraneo all'organismo criminoso, pur tuttavia concorre, con la sua condotta, alla realizzazione della fattispecie. Il fatto, poi, che la lettera dell'art. 418 c.p. sembrerebbe ammettere il concorso eventuale nel reato di cui all'art. 416 bis c.p., laddove prescrive che detta figura criminosa è applicabile "… al di fuori dei casi di concorso nel reato di favoreggiamento …", non assumerebbe valore designare dal momento che l'interpretazione sistematica di altre norme penali interessanti la materia conduce a ritenere che l'espressione sopra ricordata si riferisce al solo concorso necessario di persone nel reato di cui all'art. 416 bis c.p.. Ancora, secondo la tesi che considera inipotizzabile il concorso esterno materiale nel delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, le condotte in vario modo agevolatrici o del singolo appartenente all'associazione ovvero dell'attività dell'associazione di per sé considerata, che dovrebbero concretizzare il comportamento del concorrente eventuale, sono state specificamente prese in considerazione dal legislatore, il quale, allo scopo di reprimere qualsivoglia forma di "contiguità" con organizzazioni criminose da parte di soggetti non organicamente inseriti, ha previsto - art. 378, 2° comma, c.p., introdotto con l'art. 2 della legge 13 settembre 1982 n. 646, esplicitamente emanato per la prevenzione e repressione dei fenomeni di criminalità organizzata - un'aggravante per il delitto di favoreggiamento personale allorché l'agente abbia inteso agevolare l'elusione delle indagini o la sottoscrizione alle medesime da parte di soggetto responsabile della commissione del delitto di cui all'art. 416 bis c.p.. Con l'art. 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, è stata, poi, introdotta un'ulteriore aggravante per chi commetta delitti, punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo, al fine di agevolare le attività delle associazioni per delinquere di stampo mafioso e di quelle ad esse equiparate dall'ultimo comma dell'art. 416 bis. L'introduzione, dunque, delle circostanze aggravanti sopra ricordate confermerebbe che l'unica forma di concorso di persone nel reato in questione è quella del concorso necessario perché "ontologicamente connaturato alla particolare struttura della fattispecie e conforme alla vigente normativa in tema di concorso anche in relazione a quanto specificamente introdotto dalla citata legislazione inerente alla materia della criminalità organizzata". La disamina sulla detta linea interpretativa prosegue con la constatazione che essa non esclude il concorso eventuale in alcuni reati a struttura plurisoggettiva (tra i quali - come si vedrà fra poco - non è indiscutibile rientri il delitto di cui all'art. 416 bis c.p.) ma lo ritiene non ravvisabile con riferimento all'associazione per delinquere di tipo mafioso riguardo al quale l'elemento psicologico consiste nel dolo specifico, cioè nella consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio con la volontà di realizzare i fini propri dell'associazione e con la volontà di avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Il che imporrebbe di affermare che se sussiste una simile manifestazione dell'elemento soggettivo tutto ciò sta a significare che il concorrente esterno è consapevole di far parte del sodalizio con la volontà di realizzare i fini propri dell'associazione e, per giunta, con la volontà di realizzare le sopra indicate specifiche finalità previste dall'art. 416 bis, così' da non differenziarsi da quella del partecipe prevista dal 1° comma dello stesso articolo.

8.3. Nel prendere in esame la linea interpretativa che ammette la configurabilità del concorso eventuale materiale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, le Sezioni unite richiamano, in primo luogo, quella non recente giurisprudenza che ha ritenuto l'ipotizzabilità di una simile forma di concorso con riferimento al reato di cui all'art. 305 c.p.
Con specifico riguardo all'art. 416 bis c.p., mostrano di aderire a quella tendenza che puntualizzato come, mentre le condotte di "partecipazione all'associazione devono essere caratterizzate, sul piano soggettivo, dall'affectio societatis, ossia dalla consapevolezza e dalla volontà di far parte dell'organizzazione criminosa, condividendone le sorti e gli scopi e, sul piano oggettivo, dall'inserimento nell'organizzazione, il concorso eventuale si configura, invece, non soltanto nel caso di concorso psicologico - nelle forme della determinazione e della istigazione - nel momento in cui l'associazione viene costituita, ma anche successivamente quando il terzo non abbia voluto entrare a far parte dell'associazione o non sia stato accettato come socio e, tuttavia, presti all'associazione medesima un proprio contributo, a condizione che tale apporto, valutato ex ante, in relazione alla dimensione lesiva del fatto ed alla complessità della fattispecie, sia idoneo, se non al potenziamento, almeno al consolidamento e al mantenimento della organizzazione.
Tanto da qualificarsi come apporto obiettivamente adeguato e soggettivamente diretto a rafforzare o mantenere in vita l'associazione criminosa, con la consapevolezza e la volontà di contribuire alla realizzazione degli scopi dell'associazione per delinquere; il concorso, pertanto, non sussiste quanto il contributo è dato ai singoli associativi, ovvero ha ad oggetto specifiche imprese e l'agente persegua fini suoi propri in una posizione indifferente rispetto alle finalità proprie della associazione. Dopo aver precisato come i due indirizzi convergano nella proposizione che il concorso eventuale è configurabile in non poche fattispecie plurisoggettive o reati a concorso necessario, le Sezioni unite ravvisano il punto di attrito fra le due linee giurisprudenziali nella ipotizzabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.

8.4. Viene così posto in luce come sia il diaframma dell'associazione ad impedire il concorso esterno, non il fatto che si tratti di reato a concorso necessario. Ciò, però, sulla premessa - condivisa delle Sezioni unite, ma tutta da dimostrare - che l'art. 416 bis delinei un vero e proprio reato a concorso necessario o non piuttosto - una proposizione formulata in via esclusivamente problematica - una fattispecie monosoggettiva caratterizzata da un momento "statico" che acquista una proiezione dinamica solo in relazione ai fini. Senza considerare, cioè, che l'associazione, se scaturisce da un accordo, nel momento in cui si costituisce, resta uno schema aperto in cui possono inserirsi, di volta in volta, soggetti diversi che il sodalizio chiama a far parte, così da rivelare la distinzione tra associazione (nella sua dimensione "statica") e delitti fine (nella loro dimensione "dinamica").

8.5. Le Sezioni unite argomentano, quindi, che l'elemento materiale del reato di cui all'art. 416 bis c.p. costituito dalla condotta di partecipazione ad associazioni di tipo mafioso e che per partecipazione deve intendersi la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori. La condotta tipica consiste, dunque, nel far parte della associazione, il che importa che una condotta, per essere considerata aderente al tipo previsto dall'art. 416 bis, deve rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con l'organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte del sodalizio, vi sia stabilmente incardinato, con determinati, continui, compiti anche per settori di competenza. Ma - va notata - mentre l'espressione "condotta tipica" pare, quanto meno, impropria perché ogni condotta, anche "esterna", è tipica sia pure risultante dal contributo apprestata dall'art. 110 c.p., il contenuto del "far parte" si rivela alquanto approssimativo, profilandosi l'associazione mafiosa come realtà ben più complessa. Pure se non v'è dubbio che l'espressione "far parte" postuli, in primo luogo, un'adesione, quindi, una partecipazione, si trtta di momenti distinguibili concettualmente anche se non sotto il profilo "diacronico".

8.6. Quanto, poi, a stabilire in cosa consista la condotta del concorrente eventuale, le Sezioni unite accedono alla tesi che egli debba "contribuire - atipicamente - alla realizzazione della condotta tipica posta in essere da altri".
Se il concorrente non entra a far parte dell'associazione, ciò a significare che non è parte, cioè non è coautore della stabile permanenza del vincolo associativo, ma si limita a porre a disposizione degli altri - di coloro per i quali la condotta è la stabile permanenza nella associazione, è il far parte di quest'ultima - il proprio contributo che, proprio perché, per definizione, non è caratterizzato dalla stabilità, non può non essere circoscritto nel tempo e che, comunque, deve consistere agli altri di continuare a dar vita alla condotta tipica, alla stabile permanenza del vincolo. Così inserendo una vera e propria antinomia - non solo linguistica, ma pure concettuale - perché se la nozione di autore è normalmente contrapposta a quella di partecipe, stando al lessico utilizzato dall'art. 416 bis autore è solo il partecipe (salvo l'organizzatore, etc).
Nonostante ciò le Sezioni unite insistono sulla ipotizzabilità di un contributo atipico sovrapponibile alla condotta tipica del partecipe, tanto da inferirne che, per concludere che in questo reato non v'è spazio per il concorso eventuale, si dovrebbe dimostrare che non è possibile una condotta atipica, un contributo alla realizzazione della condotta tipica. Il che sembrerebbe da intendere nel senso che si contribuisce solo a far parte.

8.7. Passando, poi, ad esaminare la problematica riguardante l'elemento soggettivo, si contesta quella linea interpretativa che ritiene non ipotizzabile il concorso eventuale perché un simile tipo di concorrente non può agire con dolo specifico che comporta la volontà sia di far parte della associazione, sia di volerne realizzare i fini. Osservandosi come non si possa pretendere che chi vuole dare un contributo senza far parte dell'associazione così da dar vita ad una condotta atipica, non potrà volere che la condotta (cioè la condotta di agevolazione?) e non la condotta di far parte dell'associazione che è la condotta tipica del partecipe.
D'altro canto, si prosegue, la dottrina più autorevole in tema di dolo specifico è nel senso che possa ipotizzarsi "concorso con dolo generico in un reato a dolo specifico", a condizione che un altro concorrente abbia agito con la finalità richiesta dalla legge, cioè con dolo specifico. Così da inferirne ulteriormente che se questo principio ha valore generale, deve valere anche per il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, cosicché la legge non richiede che il concorrente eventuale abbia la volontà di far parte della associazione - volontà che va esclusa ex se - e la volontà di realizzare i fini propri della associazione, essendo sufficiente che abbia la consapevolezza che altri fa parte e ha voglia di far parte della associazione e agisce con la volontà di perseguire i fini.
Senza che ciò stia a significare che il concorrente eventuale non voglia il suo contributo e non si renda conto che questo contributo gli viene richiesto per agevolare l'associazione; ma semplicemente che il concorrente eventuale, pur consapevole di agevolare, con quel suo contributo, l'associazione, può disinteressarsi della strategia complessiva di quest'ultima e degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire.
Conclusione - si noti - davvero inquietante, perché mentre, da un lato, ci si trova in presenza di un dolo di "agevolazione", che non può incentrarsi sulla posizione del partecipe, dall'altro lato, tutto si esaurisce nell'accertamento dell'esistenza del dolo di "agevolazione". Con la conseguenza che se il fenomeno si restringe all'agevolazione, poiché la legge tipicizza le ipotesi di agevolazione con dolo di agevolazione, se ne dovrebbe trarre a corollario che le altre ipotesi di agevolazione non siano penalmente rilevanti.

8.8. Del resto - rimarcano le Sezioni unite - pure chi esclude la configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso ritiene che il concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso ritiene che il concorso eventuale sia ipotizzabile nella forma del concorso morale e dà per scontato che il concorrente "morale" possa agire e agisca con il dolo specifico e che, pur con questo dolo, continui ad essere concorrente eventuale. Cosicché, se non v'è nessuna ragione per ammettere, in questo reato, il concorso eventuale nella forma del concorso morale e per escluderlo nella forma del concorso materiale, si deve concludere che il concorrente "materiale" può avere il dolo specifico ed essere, appunto, concorrente eventuale come lo è il concorrente "morale".
Così però trascurando una differenza che pare davvero fondamentale: che, cioè il concorso morale è, per definizione, al di fuori dell'azione esecutiva e che, dunque, la responsabilità del concorrente morale si ricava dai principi sul concorso di persone nel reato e, più in particolare, dall'art. 115 c.p.
Inoltre, come sembra riconoscere la sentenza delle Sezioni unite, il comportamento del concorrente morale è sempre designato dal dolo specifico.

8.9. Desta, quindi, ulteriori perplessità quella che costituisce l'argomentazione che può definirsi cruciale della sentenza Dymitri che conduce ad assimilare contributo morale e contributo materiale; un'assimilazione che renderebbe difficile comprendere perché si "ammetta la configurabilità del concorso eventuale morale e, nello stesso tempo, non solo si neghi la compatibilità, con il reato di cui all'art. 416 bis, del concorso eventuale materiale, ma la si neghi anche sul presupposto che il concorrente materiale non potrebbe agire che con il dolo specifico, quello stesso dolo che si riconosce, però, essere proprio del concorrente eventuale morale". Cosicché il concorrente eventuale materiale può prestare il suo contributo con il dolo specifico restando, nonostante ciò, concorrente eventuale.
Del resto - e questo sembra un ulteriore momento cruciale della decisione - "la diversa natura, morale l'una e materiale l'altra, delle due forme di concorso fa sì che, mentre la partecipazione morale, sia nella forma della determinazione, sia in quella del rafforzamento, si risolve sempre in una condotta atipica, la partecipazione materiale può consistere sia nella condotta tipica sia una condotta atipica, in una parte della condotta tipica.

8.10 Postulati - quelli ora rammenti -che sembrano trascurare come l'azione possa qualificarsi - e con molta approssimazione - atipica solo sul piano esecutivo, non su quella ideativo e che la responsabilità del concorrente morale è ricavabile dai principi sull'accordo (ab initio o in itinere) a commettere il reato.
Non è proprio davvero comprensibile perché la partecipazione morale debba essere "sempre atipica", "mentre la partecipazione materiale, quando consiste in una parte della condotta tipica, è meno esterna rispetto a quest'ultima, meno lontana di quanto non lo sia la partecipazione morale".
L'esempio, del padre che istighi o determini il figlio ad inserirsi nell'associazione e che rivelerebbe un contegno "indiscutibilmente del tutto esterno rispetto all'associazione", non pare appropriato perché quel contegno non è esterno rispetto al momento dell'istigazione, mentre, negli stesso termini è sempre esterno (ma non atipico) il comportamento del concorrente morale rispetto alla tipicità intesa come realizzazione dell'azione esecutiva. Con la conseguente impossibilità di istituire una parificazione sul piano della tipicità tra concorrente morale e concorrente materiale. Ciò dimostra, ancora una volta, che il concorrente morale è concorrente tipico, per definizione esterno rispetto all'associazione e che risponde con lo stesso dolo del concorrente (autore), perché la sua attività si realizza sempre al di fuori dell'azione esecutiva che, se non viene posta in essere (neppure nella forma del tentativo) non implica, ex art. 115 c.p. la realizzazione di alcun reato.

8.11. Relativamente, poi, all'introduzione, con l'art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 di un'ulteriore aggravante per chi commetta delitti, punibili con pena diversa dall'ergastolo, al fine di agevolare le attività delle associazioni per delinquere", le Sezioni unite rilevano come sia da dimostrare che, qualora il contributo richiesto all'estraneo per assicurare la vita della associazione, passi attraverso un determinato o determinati delitti, il delitto o i delitti, così aggravati, non possano concorrere con il reato di cui agli articoli e 416 bis c.p.
Non si vede - si afferma - perché l'associazione se, per poter continuare a vivere, per poter essere in grado di raggiungere i suoi scopi, ritiene di dover ricorrere, in certo momento della sua esistenza, al delitto, non possa decidere, per commetterlo, di avvalersi di un esterno, che accetti di intervenire.
Il punto è da meditare attentamente per una duplice serie di ragioni: in primo luogo, perché si è in presenza di una circostanza aggravante di natura soggettiva che punisce più gravemente il reato non per la mera conoscenza della "mafiosità" dell'associazione verso cui il concorrente si dirige, ma per la finalizzazione del reato ed agevolare l'associazione mafiosa; in secondo luogo, perché viene operata la prima delimitazione, che sarà sviluppata più avanti, all'operatività del concorso esterno, riferendocisi promiscuamente alla possibilità per l'associazione di "poter continuare a vivere", di "poter essere in grado di raggiungere i suoi scopi"; in terzo luogo, perché negli esempi fatti ci si trova sempre di fronte a casi di reati aggravanti ai sensi della prima o della seconda parte dell'art. 7; anche perché sembrerebbero coinvolti, almeno di norma, reati fine.

8.12. Quanto poi all'art. 418 c.p. - che punisce l'assistenza agli associati - nella parte iniziale, in cui prescrive che questa figura criminosa è applicabile "… al di fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento", espressione che, secondo una parte della giurisprudenza, si riferirebbe al solo concorso necessario e non anche al concorso eventuale, le Sezioni unite osservano, da un lato, come essa contrasta con l'interpretazione seguita relativamente alla identica espressione adottata dall'art. 307, 1° comma, c.p.; dall'altro lato, che "nel comma di trovano due espressioni differenti, rappresentate dalle locuzioni "concorso nel reato" e "persone che partecipano all'associazione" che richiamano necessariamente due realtà differenti", perché - in base ad una lettura comparativa delle varie disposizioni - "concorso nel reato" non significa partecipazione allo stesso, ma concorso eventuale esterno nel reato associativo.
E' da ritenersi, pertanto, che il legislatore abbia inteso ammettere esplicitamente la configurabilità di un concorso eventuale nei confronti della associazione" Senza contare che, se l'espressione dovesse intendersi "… al di fuori del concorso necessario", si tratterrebbe di una insolita formulazione della clausola di sussidiarietà, che il legislatore avrebbe apposto alla tipizzazione di una data fattispecie. Non senza richiamare la relazione ministeriale sul progetto al codice penale che, nell'illustrare l'articolo 418 c.p., afferma che "questa figura criminosa è tenuta distinta dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento" e che "infondato è il dubbio sollevato se l'inciso "fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento" si debba riferire al reato d'associazione o al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, apparendo chiaro che il riferimento va fatto al reato di associazione per delinquere, oggetto della speciale previsione". Ora, mentre la prima proposizione pare fondarsi su un rilievo davvero poco designante, la seconda dà per scontato che il riferimento non sia soltanto al concorso morale. Quanto all'ultima affermazione, l'argomento potrebbe agevolmente ribaltarsi argomentando che ci si riferisce alla partecipazione "interna" all'associazione per delinquere. Non è poi esatto che, anche accolta la tesi che si alluda al concorso esterno, ci si richiami anche a tutte le forme di concorso e non anche soltanto al concorso morale. La terza proposizione, quella scientificamente più corretta, dà vita, anche qui, alla posizione dilemmatica concorso morale - concorso materiale.

8.13. Nel delimitare il confine tra il partecipe e il concorrente eventuale materiale le Sezioni unite pervengono a tracciare i seguenti conclusivi principi.
In primo luogo, partecipe è colui che fa parte dell'associazione, che, cioè, "entra nell'associazione e ne diventa parte" rispetto alla formula "per il solo fatto di partecipare", adottata in pressocché tutti gli altri reati associativi, "ha avuto consapevolezza di una peculiare caratterizzazione del rapporto associativo-associazione nel contesto mafioso, consapevolezza che si è tradotta normativamente in una maggiore tipizzazione della figura del partecipe", ciò sta a significare al tipo previsto dell'art. 416 bis per la partecipazione ad una associazione mafiosa, deve rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con l'organismo criminale tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso". Ma tale asserzione parrebbe, invece, di trarsi la conclusione inversa da quella voluta dalla sentenza. "Far parte" sembra alludere, infatti, ad una situazione "statica", "partecipare" ad una situazione "dinamica".
In secondo luogo, quanto alla prova della "compenetrazione", il riscontro più pregnante della eventuale o delle eventuali chiamate in correità è il ruolo assegnato dall'associazione al partecipe e da quest'ultimo svolto. Di qui la conclusione che i partecipe "è colui senza il cui apporto quotidiano o, comunque, assiduo l'associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza, il che apre la strada ad una vasta gamma di possibili partecipi, che vanno da coloro che si sono assunti o ai quali sono stati affidati compiti di maggiore responsabilità … - i promotori, gli organizzatori, i dirigenti - a quelli con responsabilità minori o minime, ma il cui compito è o è pure necessario per le fortune della associazione e che agiscono, per lo più, nella fisiologia, nella vita "corrente", quotidiana dell'associazione. Il tutto riferendosi, quindi, non a chi "fa parte", ma a chi "partecipa". In terzo luogo, il concorrente eventuale è, per definizione, colui che non vuole far parte della associazione e che l'associazione non chiama a "far parte", ma, al quale si rivolge sia, ad esempio, per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto nel momento in cui la "fisiologia" dell'associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per essere superata, esige il contributo temporaneo, limitato, di un estraneo. Certo, anche in questo caso potrebbe risultare che l'associazione ha assegnato ad un associato il ruolo di aiutarla a superare i momenti patologici della sua vita.
Ma, resta il fatto che, pur tenendo conto di tutti i possibili distinguono e di tutte le approssimazione proponibili, lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell'emergenza nella vita della associazione o, quanto meno, non lo spazio della "normalità" …, occupabile da uno degli associati. Pare questo, dunque, il vero "tassello" posto dalla sentenza alla indiscriminata operatività del concorso esterno. La situazione di pericolo per la vita dell'associazione. Quindi, il concorrente esterno deve sapere che con la sua opera "salva" l'associazione. Sembra, però, che una tale simile proposizione si presenti contraddittoria rispetto all'attività del concorrente morale. Nell'esempio del padre che determina il figlio a far parte dell'associazione, occorre che la partecipazione del figlio debba intervenire in un momento di fibrillazione del sodalizio. Pare debba allora conseguire che o si ammette che il determinatore o l'istigatore è un partecipe in quanto concorre nel far parte e, quindi, che il concorso morale si traduca, in effetti, in una ordinaria ipotesi di concorso. Ovvero, bisognerà far riferimento alle stesse regole, "ricostruite" dalla sentenza per il concorso materiale. Tutto sembrerebbe condurre, insomma, alla non configurabilità del concorso esterno, sia morale sia materiale. L'argomento pare davvero decisivo proprio perché il punto più significativo della parte della sentenza che ammette il concorso esterno "materiale" sembra incentrarsi sulla riconosciuta ipotizzabilità del concorso morale; quest'ultimo, peraltro, nella logica della "fibrillazione" che però sembra non correttamente riferita al solo concorso materiale, avrebbe un concreto spazio di operatività estremamente ristretto.
Il presupposto resta, quindi, l'emergenza della vita dell'associazione; ovvero nello spazio della normalità viene occupato uno spazio non occupabile da uno degli associati. Il principio di tipicità sembrerebbe, dunque, seriamente compromesso anche per la stessa nozione di tipicità - atipicità espresso dalla decisione.

9. Come si è visto, le Sezioni unite nel tentativo di conferire la necessaria "tipicità" (almeno con riferimento al disposto di cui all'art. 110 c.p.) al concorso esterno materiale, allo scopo di limitarne la versatilità e di operare un più penetrante discrimine rispetto ad altre forme di "appoggio" o di "contiguità" hanno ravvisato l'ipotesi prevista dagli artt. 110 e 416 bis c.p. nell'esigenza che l'intervento "esterno" si introduca in un momento in cui il sodalizio criminoso si trovi in situazione di difficoltà, tenendo proprio a far sì che l'associazione venga, proprio per il contributo dell'esterno "salvata"; il tutto se e sempreché - ma ciò concerne il profilo soggettivo - il concorrente esterno sappia di questa situazione di difficoltà, pur se non intenda realizzare i fini dell'associazione. Il concorso, di conseguenza, vale a qualificare l'eventuale reato posto in essere per salvare l'associazione non come reato fine ma come reato mezzo realizzato per gli scopi del sodalizio in mancanza della volontà di farli propri, ponendo in essere uno o più comportamenti che, per la situazione in cui versa l'associazione, divengono funzionali al superamento dei pericoli che rischiano di compromettere la permanenza dell’associazione mafiosa (v., per una puntuale lettura di tali principi, Sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante).

10. Ciò consente, peraltro, di superare, nel caso di specie, i rilievi problematici proposti sul complessivo apparato motivazionale delle sentenza Dimitry, solo riflettendo sul fatto che, proprio alla stregua di tale decisione, l'ordinanza impugnata fa emergere come si sia ben lontani dal presupposto condizionante l'ipotizzabilità del concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa. Pertanto compendiarsi l'errore di diritto contenuto nel provvedimento denunciato - e che esime questa Corte dal rimettere il ricorso alle Sezioni unite - nel periodo a chiusura della disamina circa gli estremi del "concorso esterno" (pagg. 41 e 42 del provvedimento 12 gennaio 2000).

11. Né, infine, può essere trascurato come - secondo le Sezioni unite - il concorrente esterno, proprio perché risponde ai sensi dell'art. 110 c.p., deve avvalersi (anche se con dolo soltanto generico, ma pur sempre intenzionale), della forza di intimidazione del vincolo associativo e della situazione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Un dato sul quale la ordinanza impugnata risulta del tutto silente, pur trattandosi di un aspetto dell'elemento oggettivo del reato decisamente designante, solo considerando che il concorrente esterno non risponde di concorso nell'associazione ma nel "far parte" dell'associazione (cfr. Sez. VI, 22 novembre 1999, Trigili). D'altro canto, voler ridurre, come fa l'impugnata ordinanza, il contributo fornito dall'extraneus al nucleo associativo, ad un "rafforzamento" qual che sia dell'attività del sodalizio appare un dato che viene integralmente a sovrapporsi al c.d. reato-fine, così da imporrre una necessaria scelta alla stregua del principio di specialità e che non può compiersi diversamente se non assegnato esclusivo valore designante alla condotta prevista dall'art. 648 ter c.p.

12. I V hanno censurato l'ordinanza impugnata anche in punto di esigenza cautelari.
Senonché, a parte l'ampia e corretta motivazione contenuta nell'ordinanza impugnata, va ricordato che, in tema di applicazione delle misure cautelari personali, deve escludersi che il generico stato di incensuratezza sia di per sé preclusivo della configurabilità dell'esigenza di prevenire la reiterazione del reato (art. 274, lett. c, c.p.p.); e ciò tanto più nelle ipotesi di delitti di stampo mafioso in relazione ai quali sussiste la presunzione di pericolosità di cui all'art. 275 comma 3, c.p.p., la quale può essere vinta solo con la dimostrazione in positivo - attraverso prove logiche o rappresentative - che ogni legane con l'organizzazione malavitosa è stato definitivamente ed irreversibile troncato (cfr., ex plurimis, Sez. II, 7 marzo 1997 capolungo).

13. L'ordinanza 12 gennaio 2000 deve, dunque, essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.. Per il resto i ricorsi vanno rigettati.

PQM

Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata limitatamente al reato di cui agli artt. 110, 416 bis c.p.. Rigetta, nel resto, i ricorsi.


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