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Giurisprudenza 2001 Corte di Cassazione sez. un. penali - sentenza 15 gennaio 2001 n. 35

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza in data 2.2.1995, il Tribunale di Roma dichiarava S.R. colpevole del reato di cui all'art. 1, primo comma, legge 7.8.1982 n. 515 (capo A della rubrica e del reato di cui all'art. 1, ultimo comma, legge citata (capo b), condannandolo, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, alla pena di mesi cinque di arresto e lire 12.000.000 di ammenda, applicando altresì le pene accessorie di cui all'art. 7 della legge citata. All'imputato, nella sua qualità di amministratore della s.r.l. "(omissis), veniva addebitato di avere omesso di presentare la dichiarazione, ai fini delle imposte dirette per l'anno 1991, di quanto percepito dalla suddetta società per la vendita, effettuata in data 13.5.1991, di uno stabilimento tipografico per un importo complessivo di lire 6.688.712.000, portato in 18 fatture emesse nei confronti della "(omissis) s.r.l., e veniva altresì addebitato di avere omesso, per l'anno 1991, di istituire le scritture contabili obbligatorie.
A seguito di appello dell'imputato, la Corte d'Appello di Roma, con sentenza in data 30.4.1999, confermava l'impugnata decisione.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il S., il quale, con primo motivo, deduce erronea applicazione della legge penale in relazione ad una prova decisiva, assumendo in relazione ad una prova decisiva, assumendo in relazione al reato di cui all'art. 1, primo comma, legge n. 516/1982 di avere regolarmente presentato la dichiarazione ed assumendo altresì. quanto al reato di cui all'art. 1, sesto comma, legge cit., di avere informato Guardia di Finanza e Procura della Repubblica che la prescritta documentazione era stata consegnata a tale C.G.; con secondo motivo deduce manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione della circostanze attenuanti generiche.
Il ricorso, assegnato alla terza sezione penale della Corte di Cassazione, è stato rimesso da quest'ultima alle Sezioni Unite con ordinanza del 14.6.2000.
L'ordinanza suddetta premette che la trattazione del presente ricorso deve essere necessariamente preceduta dalla valutazione dei reati fiscali oggetto di giudizio alla stregua delle disposizioni introdotte dal D.Lgs. 10.3.2000 n. 74 (che ha riformato il sistema penale-tributario in attuazione dell'art. 9 legge 25.6.1999 n. 205), al fine di verificare - tenuto conto che il nuovo testo normativo non contiene un regime transitorio di raccordo e che l'art. 24 D.Lgs. 30.12.1999 n. 507 ha abrogato il principio di ultrattività delle disposizioni penali delle leggi finanziarie poste dall'art. 20 legge 7.1.1929 n. 4 - se i fatti contestati, già incriminati ai sensi del D.L. 10.7.1982 n. 429 convertito, con modificazioni, nella legge 7.8.1982 n. 516, mantengano rilevanza penale anche dopo la riforma e l'abrogazione espressa del titolo I della stessa legge n. 516 (art. 25, primo comma lett. d), D.Lgs. n. 74/2000).
L'ordinanza di rimessione, alla luce del criterio del rapporto strutturale delle norme integrato da quello della continenza, ritiene che la fattispecie già sanzionata dall'art. 1, sesto comma, legge 7.8.1982 n. 516 (omessa o irregolare tenuta o conservazione delle scritture contabili) sia sicuramente depenalizzata ai sensi dell'art. 9 legge 25.6.1999 n. 205 e del D.Lgs. 10.3.2000 n. 74, perché nel nuovo sistema penale-tributario degrada a mera modalità di estrinsecazione di una condotta, che solo unitamente ad altri elementi, integra una diversa fattispecie di reato tributario.
Con riguardo al reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi o IVA, già sanzionato dall'art. 1, primo comma, legge n. 516/1982, rileva, invece, la sussistenza di divergenze interpretative in ordine alla sostenibilità di una permanente criminalizzazione delle condotte già sanzionate ai sensi dell'art. 1, primo comma legge n. 516/1982.
Correlativamente ha ritenuto, attesa la particolare rilevanza della questione e l'elevata probabilità di contrasti, di dirimere gli stessi in via preventiva rimettendo appunto il ricorso alle Sezioni Unite. La suddetta ordinanza evidenzia l'assenza, nella giurisprudenza di legittimità, di un orientamento univoco in ordine alla questione concernente la verifica della continuità normativa, nell'ipotesi di abrogazione di una norma incriminatrice, in quanto sul tema si procede a combinare i vari criteri suggeriti dalla dottrina, utilizzando ora il criterio della continuità del tipo di illecito, ora quello del rapporto di continenza tra nuova e vecchia fattispecie, ora quello del rapporto strutturale tra le fattispecie, quest'ultimo anche in combinazione con il criterio di continenza; quindi enuclea i termini del contrasto interpretativo con riguardo alla fattispecie in esame.
Rileva che in dottrina e nelle prime applicazioni giurisprudenziali si sono manifestate difformi opinioni circa la sostenibilità di una permanente criminalizzazione delle condotte già sanzionate ai sensi del citato art. 1, primo comma, legge n. 516/1982. La possibilità di configurare una continuità normativa (di tipo illecito) con il reato di cui all'art. 5 D.Lgs. 10.3.2000 n. 74 viene esclusa con riferimento alla natura delittuoso della nuova fattispecie incriminatrice, alla diversa struttura del suo profilo soggettivo, essendo richiesto il dolo specifico, all'esistenza di una soglia di punibilità commisurata all'imposta evasa e dunque ontologicamente diversa da quella prevista nella previgente contravvenzione, che era riferita agli imponibili sottratti all'imposizione, nonché alla violazione dell'art. 521 c.p.p. in caso di mancata contestazione della specifica finalità di evasione delle imposte e dell'ammontare dei tributi effettivamente evasi.
L'affermazione della continuità normativa, al contrario, si fonda sulle considerazioni che l'omessa contestazione espressa del dolo specifico di evadere l'imposta e dell'ammontare effettivo del tributo evaso non determina una violazione dell'art. 521 c.p.p. tutte le volte in cui l'ammontare dell'imposta evasa risulti dagli atti a conoscenza dell'imputato e dagli atti medesimi si evinca comunque l'esistenza del dolo di evasione anche se non perseguito in via esclusiva, oppure tali circostanze appaiano, sia pure in maniera implicita, contestate nell'imputazione oppure abbiano, comunque, formato oggetto della difesa, giacché detti elementi non si pongono in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità con i contenuti del precedente addebito, ma ne costituiscono la normale conclusione, tanto più che secondo unanime giurisprudenza di questa Corte, la violazione dell'art. 521 c.p.p. richiede una trasformazione radicale del fatto nei suoi elementi essenziali, in modo tale che il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di ontologica eterogeneità e incompatibilità, non potendosi basare la correlazione tra accusa contestata e ritenuta nella decisione sul mero confronto letterale tra imputazione e sentenza (Cass. Sez. III, 29.5.2000 n. 6228, Bellavia). Si aggiunge, infine, nell'ordinanza di rimessione, che la previsione di una soglia quantitativa di rilevanza penale, ragguagliata all'entità dell'imposta evasa, implica una complessa operazione di calcolo che va ben oltre la verifica dell'omessa indicazione di elementi di facile accertamento e comporta la considerazione di costi, ammortamenti, detrazioni di imposta e di quant'altro incide sulla determinazione dell'imponibile e del conseguente tributo.
Il primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.

MOTIVI DELLA DECISIONE La questione controversa sottoposta all'esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire se dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 10.3.2000 n. 74, sia, o non, configurabile una continuità normativa tra la disciplina penale avente ad oggetto l'omessa presentazione della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sul reddito o di quella del valore aggiunto, così come risultante, rispettivamente, dall'art. 1, primo comma, D.L. 10.7.1982 n. 429, convertito con modificazioni, nella legge 7.8.1982 n. 516 e dall'art. 5 D.Lgs. 10.3.2000 n. 74, anche avuto riguardo alla diversa soglia quantitativa di rilevanza penale, ragguagliata all'entità dell'imposta evasa.
Sul tema si sono delineati due indirizzi contrapposti nella giurisprudenza di legittimità.
Nel senso che non è configurabile un rapporto di continuità tra la contravvenzione di cui all'abrogato art. 1, primo comma, D.L. 10.7.1982 n. 429, convertito con modificazioni nella legge 7.8.1982 n. 516 ed il delitto di cui all'art. 5 D.Lgs. 10.3.2000 n. 74, si sono espresse Cass., Sez. III, 5.7.2000 (dep. 29.9.2000), n. 2706, Galvagno, e Cass., Sez. III, 5.7.2000 (dep. 29.9.2000), n. 2705, Grotti. Secondo tali decisioni non è configurabile un rapporto di continuità fra la contravvenzione di cui all'abrogato art. 1, primo comma, legge n. 516/1982 ed il delitto di cui all'art. 5 dell'attuale D.Lgs. n. 74/2000.
L'assenza di continuità tra le due fattispecie viene principalmente ravvisata nel fatto che - pur prevedendo entrambe le norme come reato la mancata presentazione di una delle prescritte dichiarazioni annuali in materia di imposte dirette o imposta sul valore aggiunto - esse sono diversamente caratterizzate e dette diversità attengono ad elementi costitutivi tipici che disegnano l'identità del " fatto". Si tratta della natura dell'illecito contemplato dalle due norme - contravvenzione nella vecchia norma, delitto nella nuova - e della previsione in quest'ultima del dolo specifico preordinato alla realizzazione dell'evento, costituito dall'evasione d'imposta in misura non inferiore a lire 150 milioni.
Secondo un diverso orientamento, invece, la continuità normativa tra la vecchia e la nuova normativa non è esclusa: dalla diversa natura dell'illecito (contravvenzione nella previgente normativa, delitto in quella vigente); dall'innalzamento delle soglie di punibilità; dalla previsione del dolo specifico (cfr. Sez. III, 28 aprile 2000, Masengo, dep. 14 giugno 2000, n. 1666; Sez. III, 9.5.2000, Ceraso, dep. 3.7.2000 n. 1804).
Numerose altre decisioni, pur non affrontando direttamente il problema della continuità normativa, hanno tuttavia ritenuto, con ciò implicitamente affermandola, che l'omessa dichiarazione integra gli estremi del reato ora punito dall'art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, solo se ed in quanto abbia determinato una evasione d'imposta superiore al lire 150 milioni, mentre, nel caso in cui detta soglia non viene raggiunta, il fatto non è più previsto dalla legge come reato (cfr. Sez. III, 2.5.2000, Palazzo, dep. 4.6.2000, n. 1685; Sez. III, 17.5.2000, Catanzaro, dep. 27.7.2000, n. 1925; Sez. III, 21.6.2000, Pezzoni, dep. 2.10.2000, n. 2529; Sez. III, 20.6.2000, Ricchiuti, dep. 11.10.2000, n. 2499; Sez. III, 20.6.2000, Bianco, dep. 19.9.2000, n. 2491; Sez. III, 18.4.2000, Bollettino, dep. 7.6.2000, n. 1585; Sez. III, 28.6.2000, Castagna, dep. 27.9.2000, n. 02643; Sez. III, 23.6.2000, Felici, dep. 29.9.2000, n. 02569; Sez. III 15.6.2000, Fenici, dep. 21.9.2000, n. 2555; Sez. III, 15.6.2000, Di Palma, dep. 27.9.2000, n. 2374; Sez. III, 3.5.2000, Di Matteo, dep. 7.6.2000, n. 1828; Sez. III, 8.6.2000, Citton, dep. 7.9.2000, n. 2274; Sez. III, 13.6.2000, Graziano, dep. 2.8.2000, n. 2396). In alcuni casi si è evidenziata la complessità delle operazioni di calcolo determinate dalla previsione di una soglia quantitativa di rilevanza penale, ragguagliata all'entità dell'imposta evasa (cfr. Sez. III, 14.6.2000, Strollo, dep. 18.9.2000, n. 2371; Sez. III, 27.6.2000, Soraci, dep. 21.9.2000, n. 2551), mentre in un caso specifico il reato di cui all'art. 1, primo comma, legge n. 516/1982 è stato considerato "non previsto come reato" in considerazione del fatto che, mentre è stato ritualmente contestato l'ammontare dei ricavi non dichiarati, non risulta contestata un'evasione d'imposta che non può essere ricavata altrimenti (cfr. Sez. III, 17.5.2000, Germini, dep. 21.7.2000, n. 1913).
L'orientamento giurisprudenziale che afferma la continuità tra la vecchia e la nuova normativa non può essere condiviso.
Le Sezioni Unite hanno recentemente affrontato i problemi di diritto intertemporale tra il D. Lgs. n. 74/2000 e la previgente legge n. 516/1982 in relazione all'esistenza, o meno, di una continuità normativa tra il reato di cui all'art. 4, primo comma lett. d), legge n. 516/1982 (utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti) e la nuova fattispecie di cui all'art. 2, D.Lgs. n. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta nella quale ci si avvalga di fatture per operazioni inesistenti), pervenendo all'esclusione di detta continuità (cfr. Sez. Un. 25.10.2000 Di Mauro, dep. 7.11.2000, n. 27).
Tale decisione, pur concernendo fattispecie diverse da quella in esame, stabilisce tuttavia criteri ermeneutici applicabili, ovviamente, anche al caso in esame. premette, infatti, che - dopo l'abolizione del principio di ultrattività delle leggi penali tributarie ad opera dell'art. 24, primo comma, D.Lgs. 30.12.1999 n. 507 (attuativo del criterio direttivo fissato dall'art. 6, primo comma, della legge delega n. 205/1999) e in assenza di norme disciplinanti il regime transitorio tra la vecchia e la nuova normativa - il problema dell'individuazione della norma incriminatrice applicabile ai fatti anteriormente commessi deve essere risolto alla stregua delle regole fondamentali del diritto intertemporale in materia penale dettate dall'art. 2 c.p.. Non è infatti sufficiente a risolvere il problema l'uso da parte del legislatore di una espressa formula abrogativa rispetto a preesistenti fattispecie incriminatrici (l'art. 25, primo comma lett. d), D.Lgs. 74/2000 abroga il titolo I della legge n. 516/1982). Ciò posto, evidenzia come la ratio della nuova normativa abbia inteso realizzare un nuovo sistema penale tributario, imperniato sulla repressione penale limitata ai fatti caratterizzati da rilevante offensività per gli interessi dell'erario, superando in tal modo il vecchio sistema posto a base della previgente legge n. 516/1982, fondato su un modello di tutela anticipata, caratterizzato dalla repressione di violazioni strumentali e prodromiche ad una falsa dichiarazione e alla evasione di imposta, con conseguente incompatibilità tra i due sistemi.
- Il rilievo è determinate ai fini della soluzione della questione oggetto del decidere. Difatti, pur prevedendo come reato, sia l'art. 1, primo comma, legge n. 516/1982 che l'art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, la mancata presentazione della dichiarazione in materia di imposte dirette o dell'IVA, le norme in questione sono diversamente caratterizzate, attenendo le divergenze ad elementi costitutivi tipici che disegnano l'identità del fatto, costituiti, quanto alla nuova normativa, dal dolo specifico di evadere l'imposta, dalla volizione di un evasione di imposta superiore a lire 150 milioni, dall'evento di danno per l'erario, costituito dall'evasione effettiva di lire 150 milioni, mentre la previgente normativa sanziona la semplice condotta omissiva, anche se connessa a mera colpa, commisurando la pena non all'ammontare dell'imposta evasa, ma all'ammontare degli imponibili non dichiarati.
Evidente è, pertanto, la disomogeneità strutturale delle due fattispecie.
L'illecito previsto dalla nuova normativa costituisce un delitto, il cui elemento soggettivo è rappresentato dal dolo specifico preordinato alla realizzazione dell'evento, costituito dall'evasione dell'imposta in misura non inferiore al lire 150.000 con correlato danno per l'erario.
L'illecito previsto dalla previgente normativa costituisce un reato contravvenzionale, che si perfeziona con la sola omissione della dichiarazione, non assumendo rilievo né la positività o negatività del reddito né la quantificazione dell'imposta evasa, assumendo rilevanza l'entità del reddito non dichiarato esclusivamente ai fini della quantificazione della pena (cfr. Sez. III, 30.6.1995, Bosso, RIV 202773).
Lo jus superveniens ha introdotto nel fatto illecito, rappresentato dalla omissione della dichiarazione, elementi costitutivi nuovi e diversi da quelli previsti dalla previgente norma, di talché non può sostenersi una continuità tra vecchia e nuova normativa in funzione dell'identità dell'interesse protetto, sia perché il nuovo sistema penale tributario attua "una vera e propria inversione di rotta, assumendo come obiettivo strategico quello di limitare la repressione penale ai soli fatti direttamente correlati, tanto sul versante oggettivo che su quello soggettivo, alla lesione degli interessi fiscali, con correlata rinuncia alla criminalizzazione delle violazioni meramente "formali" e preparatorie" (cfr. Relazione governativa al D.Lgs. 7.4.2000), sia perché non può parlarsi di continuità nella successione tra norme quando uno o più elementi normativi tipici di identificazione del fatto siano tra loro eterogenei.
La circostanza che il legislatore abbia previsto per il fatto-reato l'introduzione di elementi costitutivi nuovi e diversi comporta una frattura tra l'originaria figura contravvenzionale di omessa dichiarazione fiscale, scissa dall'intento di evasione, e la nuova figura di omessa dichiarazione, connessa al perseguimento dello scopo di evasione, attuato mediante il raggiungimento della soglia quantitativa di lire 150 milioni che sia stata oggetto di previa volizione.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, ritenere, in accoglimento della tesi della continuità tra le due normative, che l'omessa dichiarazione integra gli estremi del reato ora punito dall'art. 5 D.Lgs. 74/2000, solo ed in quanto abbia determinato una evasione d'imposta superiore a lire 150 milioni e che non essendosi raggiunta detta soglia il fatto non è più previsto dalla legge come reato, comporterebbe, sotto l'aspetto processuale, la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza stabilito dall'art. 521 c.p.p., che sussiste quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi in rapporto di eterogeneità incompatibilità sostanziale con l'imputazione contestata. Non può trascurarsi dal considerare infatti che, a differenza del previgente reato contravvenzionale, il nuovo delitto di omessa dichiarazione prevede il dolo specifico dell'evasione dell'imposta nell'ammontare stabilito dalla legge, che deve formare oggetto di contestazione specifica. Ciò impedisce la possibilità di valutare a posteriori se il fatto, già integrante una contravvenzione punibile sia a titolo di colpa che di dolo, sia stato posto in essere allo scopo di perseguire un risultato di evasione, non potendosi attribuire rilevanza ad un elemento costitutivo del reato non previsto dalla originaria fattispecie. Ciò posto, è impraticabile l'orientamento giurisprudenziale che sostiene la continuità tra le due fattispecie, considerato che detta continuità concerne ipotesi di passaggio da una norma speciale a una norma generale ove quest'ultima comprenda il contenuto tipico della precedente, ma non l'ipotesi contraria costituita dal passaggio, come nel caso in esame, da una norma generale ad una norma speciale che introduce elementi nuovi caratterizzanti non previsti dalla norma previgente.
In conclusione, la rilevata frattura tra la previgente e l'attuale normativa, comporta che l'art. 5 D.Lgs. 74/2000 non possa trovare applicazione retroattiva, perché gli elementi costitutivi del reato in esso previsti non integrano gli estremi della precedente norma incriminatrice. Conseguentemente, nella fattispecie in esame si versa nell'ipotesi dell'abolitio criminis prevista dall'art. 2, secondo comma, c.p..
Alla luce dei criteri sopra evidenziati, deve ritenersi che anche il reato di cui all'art. 1, sesto comma, legge n. 516/2000 (omessa o irregolare tenuta o conservazione delle scritture contabili), contestato all'imputato al capo b) della rubrica, a seguito dell'abrogazione del titolo I della legge citata ad opera dell'art. 25, primo comma lett. d), D.Lgs. n. 74/2000, non sia più previsto dalla legge come reato.
La condotta incriminata dalla norma in questione costituisce, infatti, una di quelle violazioni formali o preparatorie che il legislatore, nel riformare il sistema penale-tributario ha rinunciato a criminalizzare in quanto non direttamente correlata alla lesione di interessi fiscali. Essa, di per sé, non trova riscontro alcuno nelle previsioni del D. Lgs. n. 74/2000, e può tutt'al più costituire un elemento integrante, solo unitamente ad altri, una diversa fattispecie di reato tributario.
Tutto ciò premesso, si impone l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza perché i fatti ascritti all'imputato S.R. non sono più previsti dalla legge come reato.

PQM

La Corte annulla senza rinvio l'impugnata sentenza perché i fatti non sono previsti dalla legge come reato.


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