SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 2.2.1995, il Tribunale di Roma dichiarava S.R.
colpevole del reato di cui all'art. 1, primo comma, legge 7.8.1982
n. 515 (capo A della rubrica e del reato di cui all'art. 1, ultimo
comma, legge citata (capo b), condannandolo, unificati i reati sotto
il vincolo della continuazione, alla pena di mesi cinque di arresto
e lire 12.000.000 di ammenda, applicando altresì le pene accessorie
di cui all'art. 7 della legge citata. All'imputato, nella sua
qualità di amministratore della s.r.l. "(omissis), veniva addebitato
di avere omesso di presentare la dichiarazione, ai fini delle
imposte dirette per l'anno 1991, di quanto percepito dalla suddetta
società per la vendita, effettuata in data 13.5.1991, di uno
stabilimento tipografico per un importo complessivo di lire
6.688.712.000, portato in 18 fatture emesse nei confronti della
"(omissis) s.r.l., e veniva altresì addebitato di avere omesso, per
l'anno 1991, di istituire le scritture contabili obbligatorie.
A seguito di appello dell'imputato, la Corte d'Appello di Roma, con
sentenza in data 30.4.1999, confermava l'impugnata decisione.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
S., il quale, con primo motivo, deduce erronea applicazione della
legge penale in relazione ad una prova decisiva, assumendo in
relazione ad una prova decisiva, assumendo in relazione al reato di
cui all'art. 1, primo comma, legge n. 516/1982 di avere regolarmente
presentato la dichiarazione ed assumendo altresì. quanto al reato di
cui all'art. 1, sesto comma, legge cit., di avere informato Guardia
di Finanza e Procura della Repubblica che la prescritta
documentazione era stata consegnata a tale C.G.; con secondo motivo
deduce manifesta illogicità della motivazione in relazione alla
mancata concessione della circostanze attenuanti generiche.
Il ricorso, assegnato alla terza sezione penale della Corte di
Cassazione, è stato rimesso da quest'ultima alle Sezioni Unite con
ordinanza del 14.6.2000.
L'ordinanza suddetta premette che la trattazione del presente
ricorso deve essere necessariamente preceduta dalla valutazione dei
reati fiscali oggetto di giudizio alla stregua delle disposizioni
introdotte dal D.Lgs. 10.3.2000 n. 74 (che ha riformato il sistema
penale-tributario in attuazione dell'art. 9 legge 25.6.1999 n. 205),
al fine di verificare - tenuto conto che il nuovo testo normativo
non contiene un regime transitorio di raccordo e che l'art. 24
D.Lgs. 30.12.1999 n. 507 ha abrogato il principio di ultrattività
delle disposizioni penali delle leggi finanziarie poste dall'art. 20
legge 7.1.1929 n. 4 - se i fatti contestati, già incriminati ai
sensi del D.L. 10.7.1982 n. 429 convertito, con modificazioni, nella
legge 7.8.1982 n. 516, mantengano rilevanza penale anche dopo la
riforma e l'abrogazione espressa del titolo I della stessa legge n.
516 (art. 25, primo comma lett. d), D.Lgs. n. 74/2000).
L'ordinanza di rimessione, alla luce del criterio del rapporto
strutturale delle norme integrato da quello della continenza,
ritiene che la fattispecie già sanzionata dall'art. 1, sesto comma,
legge 7.8.1982 n. 516 (omessa o irregolare tenuta o conservazione
delle scritture contabili) sia sicuramente depenalizzata ai sensi
dell'art. 9 legge 25.6.1999 n. 205 e del D.Lgs. 10.3.2000 n. 74,
perché nel nuovo sistema penale-tributario degrada a mera modalità
di estrinsecazione di una condotta, che solo unitamente ad altri
elementi, integra una diversa fattispecie di reato tributario.
Con riguardo al reato di omessa presentazione della dichiarazione
dei redditi o IVA, già sanzionato dall'art. 1, primo comma, legge n.
516/1982, rileva, invece, la sussistenza di divergenze
interpretative in ordine alla sostenibilità di una permanente
criminalizzazione delle condotte già sanzionate ai sensi dell'art.
1, primo comma legge n. 516/1982.
Correlativamente ha ritenuto, attesa la particolare rilevanza della
questione e l'elevata probabilità di contrasti, di dirimere gli
stessi in via preventiva rimettendo appunto il ricorso alle Sezioni
Unite. La suddetta ordinanza evidenzia l'assenza, nella
giurisprudenza di legittimità, di un orientamento univoco in ordine
alla questione concernente la verifica della continuità normativa,
nell'ipotesi di abrogazione di una norma incriminatrice, in quanto
sul tema si procede a combinare i vari criteri suggeriti dalla
dottrina, utilizzando ora il criterio della continuità del tipo di
illecito, ora quello del rapporto di continenza tra nuova e vecchia
fattispecie, ora quello del rapporto strutturale tra le fattispecie,
quest'ultimo anche in combinazione con il criterio di continenza;
quindi enuclea i termini del contrasto interpretativo con riguardo
alla fattispecie in esame.
Rileva che in dottrina e nelle prime applicazioni giurisprudenziali
si sono manifestate difformi opinioni circa la sostenibilità di una
permanente criminalizzazione delle condotte già sanzionate ai sensi
del citato art. 1, primo comma, legge n. 516/1982. La possibilità di
configurare una continuità normativa (di tipo illecito) con il reato
di cui all'art. 5 D.Lgs. 10.3.2000 n. 74 viene esclusa con
riferimento alla natura delittuoso della nuova fattispecie
incriminatrice, alla diversa struttura del suo profilo soggettivo,
essendo richiesto il dolo specifico, all'esistenza di una soglia di
punibilità commisurata all'imposta evasa e dunque ontologicamente
diversa da quella prevista nella previgente contravvenzione, che era
riferita agli imponibili sottratti all'imposizione, nonché alla
violazione dell'art. 521 c.p.p. in caso di mancata contestazione
della specifica finalità di evasione delle imposte e dell'ammontare
dei tributi effettivamente evasi.
L'affermazione della continuità normativa, al contrario, si fonda
sulle considerazioni che l'omessa contestazione espressa del dolo
specifico di evadere l'imposta e dell'ammontare effettivo del
tributo evaso non determina una violazione dell'art. 521 c.p.p.
tutte le volte in cui l'ammontare dell'imposta evasa risulti dagli
atti a conoscenza dell'imputato e dagli atti medesimi si evinca
comunque l'esistenza del dolo di evasione anche se non perseguito in
via esclusiva, oppure tali circostanze appaiano, sia pure in maniera
implicita, contestate nell'imputazione oppure abbiano, comunque,
formato oggetto della difesa, giacché detti elementi non si pongono
in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità con i contenuti del
precedente addebito, ma ne costituiscono la normale conclusione,
tanto più che secondo unanime giurisprudenza di questa Corte, la
violazione dell'art. 521 c.p.p. richiede una trasformazione radicale
del fatto nei suoi elementi essenziali, in modo tale che il fatto
ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in
rapporto di ontologica eterogeneità e incompatibilità, non potendosi
basare la correlazione tra accusa contestata e ritenuta nella
decisione sul mero confronto letterale tra imputazione e sentenza
(Cass. Sez. III, 29.5.2000 n. 6228, Bellavia). Si aggiunge, infine,
nell'ordinanza di rimessione, che la previsione di una soglia
quantitativa di rilevanza penale, ragguagliata all'entità
dell'imposta evasa, implica una complessa operazione di calcolo che
va ben oltre la verifica dell'omessa indicazione di elementi di
facile accertamento e comporta la considerazione di costi,
ammortamenti, detrazioni di imposta e di quant'altro incide sulla
determinazione dell'imponibile e del conseguente tributo.
Il primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni
Unite penali fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La questione controversa sottoposta all'esame delle Sezioni Unite
consiste nello stabilire se dopo l'entrata in vigore del D.Lgs.
10.3.2000 n. 74, sia, o non, configurabile una continuità normativa
tra la disciplina penale avente ad oggetto l'omessa presentazione
della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sul reddito o di
quella del valore aggiunto, così come risultante, rispettivamente,
dall'art. 1, primo comma, D.L. 10.7.1982 n. 429, convertito con
modificazioni, nella legge 7.8.1982 n. 516 e dall'art. 5 D.Lgs.
10.3.2000 n. 74, anche avuto riguardo alla diversa soglia
quantitativa di rilevanza penale, ragguagliata all'entità
dell'imposta evasa.
Sul tema si sono delineati due indirizzi contrapposti nella
giurisprudenza di legittimità.
Nel senso che non è configurabile un rapporto di continuità tra la
contravvenzione di cui all'abrogato art. 1, primo comma, D.L.
10.7.1982 n. 429, convertito con modificazioni nella legge 7.8.1982
n. 516 ed il delitto di cui all'art. 5 D.Lgs. 10.3.2000 n. 74, si
sono espresse Cass., Sez. III, 5.7.2000 (dep. 29.9.2000), n. 2706,
Galvagno, e Cass., Sez. III, 5.7.2000 (dep. 29.9.2000), n. 2705,
Grotti. Secondo tali decisioni non è configurabile un rapporto di
continuità fra la contravvenzione di cui all'abrogato art. 1, primo
comma, legge n. 516/1982 ed il delitto di cui all'art. 5
dell'attuale D.Lgs. n. 74/2000.
L'assenza di continuità tra le due fattispecie viene principalmente
ravvisata nel fatto che - pur prevedendo entrambe le norme come
reato la mancata presentazione di una delle prescritte dichiarazioni
annuali in materia di imposte dirette o imposta sul valore aggiunto
- esse sono diversamente caratterizzate e dette diversità attengono
ad elementi costitutivi tipici che disegnano l'identità del "
fatto". Si tratta della natura dell'illecito contemplato dalle due
norme - contravvenzione nella vecchia norma, delitto nella nuova - e
della previsione in quest'ultima del dolo specifico preordinato alla
realizzazione dell'evento, costituito dall'evasione d'imposta in
misura non inferiore a lire 150 milioni.
Secondo un diverso orientamento, invece, la continuità normativa tra
la vecchia e la nuova normativa non è esclusa: dalla diversa natura
dell'illecito (contravvenzione nella previgente normativa, delitto
in quella vigente); dall'innalzamento delle soglie di punibilità;
dalla previsione del dolo specifico (cfr. Sez. III, 28 aprile 2000,
Masengo, dep. 14 giugno 2000, n. 1666; Sez. III, 9.5.2000, Ceraso,
dep. 3.7.2000 n. 1804).
Numerose altre decisioni, pur non affrontando direttamente il
problema della continuità normativa, hanno tuttavia ritenuto, con
ciò implicitamente affermandola, che l'omessa dichiarazione integra
gli estremi del reato ora punito dall'art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, solo
se ed in quanto abbia determinato una evasione d'imposta superiore
al lire 150 milioni, mentre, nel caso in cui detta soglia non viene
raggiunta, il fatto non è più previsto dalla legge come reato (cfr.
Sez. III, 2.5.2000, Palazzo, dep. 4.6.2000, n. 1685; Sez. III,
17.5.2000, Catanzaro, dep. 27.7.2000, n. 1925; Sez. III, 21.6.2000,
Pezzoni, dep. 2.10.2000, n. 2529; Sez. III, 20.6.2000, Ricchiuti,
dep. 11.10.2000, n. 2499; Sez. III, 20.6.2000, Bianco, dep.
19.9.2000, n. 2491; Sez. III, 18.4.2000, Bollettino, dep. 7.6.2000,
n. 1585; Sez. III, 28.6.2000, Castagna, dep. 27.9.2000, n. 02643;
Sez. III, 23.6.2000, Felici, dep. 29.9.2000, n. 02569; Sez. III
15.6.2000, Fenici, dep. 21.9.2000, n. 2555; Sez. III, 15.6.2000, Di
Palma, dep. 27.9.2000, n. 2374; Sez. III, 3.5.2000, Di Matteo, dep.
7.6.2000, n. 1828; Sez. III, 8.6.2000, Citton, dep. 7.9.2000, n.
2274; Sez. III, 13.6.2000, Graziano, dep. 2.8.2000, n. 2396). In
alcuni casi si è evidenziata la complessità delle operazioni di
calcolo determinate dalla previsione di una soglia quantitativa di
rilevanza penale, ragguagliata all'entità dell'imposta evasa (cfr.
Sez. III, 14.6.2000, Strollo, dep. 18.9.2000, n. 2371; Sez. III,
27.6.2000, Soraci, dep. 21.9.2000, n. 2551), mentre in un caso
specifico il reato di cui all'art. 1, primo comma, legge n. 516/1982
è stato considerato "non previsto come reato" in considerazione del
fatto che, mentre è stato ritualmente contestato l'ammontare dei
ricavi non dichiarati, non risulta contestata un'evasione d'imposta
che non può essere ricavata altrimenti (cfr. Sez. III, 17.5.2000,
Germini, dep. 21.7.2000, n. 1913).
L'orientamento giurisprudenziale che afferma la continuità tra la
vecchia e la nuova normativa non può essere condiviso.
Le Sezioni Unite hanno recentemente affrontato i problemi di diritto
intertemporale tra il D. Lgs. n. 74/2000 e la previgente legge n.
516/1982 in relazione all'esistenza, o meno, di una continuità
normativa tra il reato di cui all'art. 4, primo comma lett. d),
legge n. 516/1982 (utilizzazione di fatture per operazioni
inesistenti) e la nuova fattispecie di cui all'art. 2, D.Lgs. n.
74/2000 (dichiarazione fraudolenta nella quale ci si avvalga di
fatture per operazioni inesistenti), pervenendo all'esclusione di
detta continuità (cfr. Sez. Un. 25.10.2000 Di Mauro, dep. 7.11.2000,
n. 27).
Tale decisione, pur concernendo fattispecie diverse da quella in
esame, stabilisce tuttavia criteri ermeneutici applicabili,
ovviamente, anche al caso in esame. premette, infatti, che - dopo
l'abolizione del principio di ultrattività delle leggi penali
tributarie ad opera dell'art. 24, primo comma, D.Lgs. 30.12.1999 n.
507 (attuativo del criterio direttivo fissato dall'art. 6, primo
comma, della legge delega n. 205/1999) e in assenza di norme
disciplinanti il regime transitorio tra la vecchia e la nuova
normativa - il problema dell'individuazione della norma
incriminatrice applicabile ai fatti anteriormente commessi deve
essere risolto alla stregua delle regole fondamentali del diritto
intertemporale in materia penale dettate dall'art. 2 c.p.. Non è
infatti sufficiente a risolvere il problema l'uso da parte del
legislatore di una espressa formula abrogativa rispetto a
preesistenti fattispecie incriminatrici (l'art. 25, primo comma
lett. d), D.Lgs. 74/2000 abroga il titolo I della legge n.
516/1982). Ciò posto, evidenzia come la ratio della nuova normativa
abbia inteso realizzare un nuovo sistema penale tributario,
imperniato sulla repressione penale limitata ai fatti caratterizzati
da rilevante offensività per gli interessi dell'erario, superando in
tal modo il vecchio sistema posto a base della previgente legge n.
516/1982, fondato su un modello di tutela anticipata, caratterizzato
dalla repressione di violazioni strumentali e prodromiche ad una
falsa dichiarazione e alla evasione di imposta, con conseguente
incompatibilità tra i due sistemi.
- Il rilievo è determinate ai fini della soluzione della questione
oggetto del decidere. Difatti, pur prevedendo come reato, sia l'art.
1, primo comma, legge n. 516/1982 che l'art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, la
mancata presentazione della dichiarazione in materia di imposte
dirette o dell'IVA, le norme in questione sono diversamente
caratterizzate, attenendo le divergenze ad elementi costitutivi
tipici che disegnano l'identità del fatto, costituiti, quanto alla
nuova normativa, dal dolo specifico di evadere l'imposta, dalla
volizione di un evasione di imposta superiore a lire 150 milioni,
dall'evento di danno per l'erario, costituito dall'evasione
effettiva di lire 150 milioni, mentre la previgente normativa
sanziona la semplice condotta omissiva, anche se connessa a mera
colpa, commisurando la pena non all'ammontare dell'imposta evasa, ma
all'ammontare degli imponibili non dichiarati.
Evidente è, pertanto, la disomogeneità strutturale delle due
fattispecie.
L'illecito previsto dalla nuova normativa costituisce un delitto, il
cui elemento soggettivo è rappresentato dal dolo specifico
preordinato alla realizzazione dell'evento, costituito dall'evasione
dell'imposta in misura non inferiore al lire 150.000 con correlato
danno per l'erario.
L'illecito previsto dalla previgente normativa costituisce un reato
contravvenzionale, che si perfeziona con la sola omissione della
dichiarazione, non assumendo rilievo né la positività o negatività
del reddito né la quantificazione dell'imposta evasa, assumendo
rilevanza l'entità del reddito non dichiarato esclusivamente ai fini
della quantificazione della pena (cfr. Sez. III, 30.6.1995, Bosso,
RIV 202773).
Lo jus superveniens ha introdotto nel fatto illecito, rappresentato
dalla omissione della dichiarazione, elementi costitutivi nuovi e
diversi da quelli previsti dalla previgente norma, di talché non può
sostenersi una continuità tra vecchia e nuova normativa in funzione
dell'identità dell'interesse protetto, sia perché il nuovo sistema
penale tributario attua "una vera e propria inversione di rotta,
assumendo come obiettivo strategico quello di limitare la
repressione penale ai soli fatti direttamente correlati, tanto sul
versante oggettivo che su quello soggettivo, alla lesione degli
interessi fiscali, con correlata rinuncia alla criminalizzazione
delle violazioni meramente "formali" e preparatorie" (cfr. Relazione
governativa al D.Lgs. 7.4.2000), sia perché non può parlarsi di
continuità nella successione tra norme quando uno o più elementi
normativi tipici di identificazione del fatto siano tra loro
eterogenei.
La circostanza che il legislatore abbia previsto per il fatto-reato
l'introduzione di elementi costitutivi nuovi e diversi comporta una
frattura tra l'originaria figura contravvenzionale di omessa
dichiarazione fiscale, scissa dall'intento di evasione, e la nuova
figura di omessa dichiarazione, connessa al perseguimento dello
scopo di evasione, attuato mediante il raggiungimento della soglia
quantitativa di lire 150 milioni che sia stata oggetto di previa
volizione.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, ritenere, in accoglimento
della tesi della continuità tra le due normative, che l'omessa
dichiarazione integra gli estremi del reato ora punito dall'art. 5
D.Lgs. 74/2000, solo ed in quanto abbia determinato una evasione
d'imposta superiore a lire 150 milioni e che non essendosi raggiunta
detta soglia il fatto non è più previsto dalla legge come reato,
comporterebbe, sotto l'aspetto processuale, la violazione del
principio di correlazione tra accusa e sentenza stabilito dall'art.
521 c.p.p., che sussiste quando il fatto ritenuto in sentenza si
trovi in rapporto di eterogeneità incompatibilità sostanziale con
l'imputazione contestata. Non può trascurarsi dal considerare
infatti che, a differenza del previgente reato contravvenzionale, il
nuovo delitto di omessa dichiarazione prevede il dolo specifico
dell'evasione dell'imposta nell'ammontare stabilito dalla legge, che
deve formare oggetto di contestazione specifica. Ciò impedisce la
possibilità di valutare a posteriori se il fatto, già integrante una
contravvenzione punibile sia a titolo di colpa che di dolo, sia
stato posto in essere allo scopo di perseguire un risultato di
evasione, non potendosi attribuire rilevanza ad un elemento
costitutivo del reato non previsto dalla originaria fattispecie.
Ciò posto, è impraticabile l'orientamento giurisprudenziale che
sostiene la continuità tra le due fattispecie, considerato che detta
continuità concerne ipotesi di passaggio da una norma speciale a una
norma generale ove quest'ultima comprenda il contenuto tipico della
precedente, ma non l'ipotesi contraria costituita dal passaggio,
come nel caso in esame, da una norma generale ad una norma speciale
che introduce elementi nuovi caratterizzanti non previsti dalla
norma previgente.
In conclusione, la rilevata frattura tra la previgente e l'attuale
normativa, comporta che l'art. 5 D.Lgs. 74/2000 non possa trovare
applicazione retroattiva, perché gli elementi costitutivi del reato
in esso previsti non integrano gli estremi della precedente norma
incriminatrice. Conseguentemente, nella fattispecie in esame si
versa nell'ipotesi dell'abolitio criminis prevista dall'art. 2,
secondo comma, c.p..
Alla luce dei criteri sopra evidenziati, deve ritenersi che anche il
reato di cui all'art. 1, sesto comma, legge n. 516/2000 (omessa o
irregolare tenuta o conservazione delle scritture contabili),
contestato all'imputato al capo b) della rubrica, a seguito
dell'abrogazione del titolo I della legge citata ad opera dell'art.
25, primo comma lett. d), D.Lgs. n. 74/2000, non sia più previsto
dalla legge come reato.
La condotta incriminata dalla norma in questione costituisce,
infatti, una di quelle violazioni formali o preparatorie che il
legislatore, nel riformare il sistema penale-tributario ha
rinunciato a criminalizzare in quanto non direttamente correlata
alla lesione di interessi fiscali. Essa, di per sé, non trova
riscontro alcuno nelle previsioni del D. Lgs. n. 74/2000, e può
tutt'al più costituire un elemento integrante, solo unitamente ad
altri, una diversa fattispecie di reato tributario.
Tutto ciò premesso, si impone l'annullamento senza rinvio
dell'impugnata sentenza perché i fatti ascritti all'imputato S.R.
non sono più previsti dalla legge come reato.
PQM
La Corte annulla senza rinvio l'impugnata sentenza perché i fatti
non sono previsti dalla legge come reato.