RICONOSCERE L’ALTRO
intervista ad Arturo Paoli a cura di Sandra Cangemi
"Oggi dobbiamo difendere Cristo dal cristianesimo. Lui non ha fabbricato teorie, ha predicato la fraternità e la giustizia vivendo tra i più deboli. Noi predichiamo le stesse cose da "Wall Street", dal nostro benessere, in modo del tutto astratto, senza mai mettere i piedi per terra. Sono secoli che pensiamo di amare e invece opprimiamo. La nostra cultura è quella dell’Io, del soggetto, che porta con sé la soppressione dell’altro, l’incapacità di riconoscere la sua cultura, la sua storia, la sua religione, il suo diritto alla vita. La globalizzazione è l’apoteosi di un soggetto unico, dominatore e unificante imposto da noi, dall’Occidente cristiano: il mercato. L’intreccio tra cristianesimo e capitalismo è ormai indissolubile. Finché non cambieremo questo paradigma, tutti i nostri progetti di sviluppo e di giustizia resteranno superficiali".
Arturo Paoli, Piccolo Fratello di Charles de Foucault, non risparmia nulla al pubblico attentissimo del convegno nazionale di Mani Tese. Dopo i dati e le analisi politiche ed economiche, le sue parole di accusa radicale alla società che abbiamo creato e al nostro rapporto con gli "altri mondi" non possono non suscitare una profonda riflessione. Anche perché Arturo Paoli, da quarant’anni, continua a scegliere di vivere in mezzo agli "altri", agli "ultimi della Terra": in Algeria prima ed in Argentina poi; adesso vive in una "favela" brasiliana. Una scelta che all’inizio non è stata tale, e lui lo ammette senza problemi. "Come altri giovani dell’Azione Cattolica, tanti anni fa avevo sostenuto la necessità che i laici fossero liberi di votare il partito che volevano. Il mio superiore mi "consigliò" di passare qualche anno fuori dall’Italia. Non ero contento, all’inizio, e ho accettato il trasferimento in Argentina con l’idea che sarebbe stata una cosa provvisoria. Solo dopo ho capito che la mia partenza era avvenuta per volontà di Dio. Ho iniziato a viaggiare e organizzare ovunque ritiri per religiosi e laici con l’obiettivo di diffondere l’idea e lo spirito della fraternità. E poi a mettere in piedi iniziative per i poveri. Se ti prendi degli impegni, crei delle speranze nella gente, poi non puoi piantarli in asso".
D. Dove vive lei adesso?
R. Da quindici anni vivo a Foz do Iguaçu, che in guaranì significa "grandi acque", sulla frontiera tra Argentina e Brasile. "Zona di frontiera" vuol dire commerci di ogni tipo, conflitti, malavita. Laggiù, poi, c’è la diga più grande del mondo: hanno impiegato quarantamila operai per costruirla e poi li hanno licenziati tutti. Non solo: per farle spazio hanno sottratto la terra agli indios Guaranì, e in cambio gli hanno dato un’area completamente desertica. Da una parte ci sono i "favelados", I disoccupati ed i poveri che vivono di espedienti o contrabbando; dall’altra gli indios, miti, sottomessi, maltrattati, affamati, privi di istruzione, chiusi nei loro villaggi. Tra indios e favelados quasi non ci sono rapporti. Ora stiamo tentando di aiutare un gruppo di trentacinque famiglie che hanno occupato un pezzo di bosco vicino alla favela: cerchiamo di vendere il loro artigianato... Ma anche i favelados non se la passano bene: gli occupati stabili saranno l’uno per cento, tutti gli altri vengono assunti temporaneamente e cacciati alla fine del periodo di prova. La città è un luogo turistico, e molti lavorano negli hotel e nei ristoranti. Dalle sale da pranzo arrivano i vassoi ancora carichi, ma c’è l’obbligo di dare tutto ai maiali: se scoprono un dipendente che prende anche solo un pezzo di pane lo licenziano.
D. Qual è secondo lei il ruolo del missionario?
R. Non devi essere mandato da altri, non puoi essere "il ricco che va dal povero". Devi andare a mani vuote se vuoi essere accolto. I missionari protestanti hanno un rapporto molto più diretto con la gente, perché vanno di casa in casa, senza fare discriminazioni, si informano sui problemi concreti delle persone, e invitano alla preghiera collettiva. Il missionario cattolico invece si presenta come maestro, non come amico. La grande lotta di Alex Zanotelli è proprio questa: dimostrare che si può e si deve vivere come un povero tra i poveri.
D. Quali sono le vostre attività?
R. C’è la casa delle donne, dove le indigene possono dipingere, tessere, produrre artigianato. Cerchiamo di scoprire le loro attitudini e di vendere i loro prodotti. Alcune sono delle vere artiste, e quasi tutte hanno una grande abilità manuale: con un semplice bastone creano tessuti meravigliosi! Ma soprattutto ci occupiamo dei bambini: abbiamo creato delle case-famiglia, ognuna con una coppia di volontari che segue un gruppo di orfani. Inoltre abbiamo organizzato un grande doposcuola dove i bambini possono fare i compiti, ma anche giocare, mangiare, lavarsi, trovare sostegno psicologico. Sempre per i bambini c’è un centro di salute che segue soprattutto quelli con ritardi nello sviluppo: si cerca di capire qual è il problema e di stimolarli nel modo giusto. I ragazzi più grandi si occupano dei più piccoli, chi è più avanti aiuta gli altri. Devono imparare a sostenersi a vicenda, perché io, pur essendo molto amato, resto sempre un "altro", non uno di loro. Uno dei nostri ragazzi è riuscito a finire l’università, si è sposato, ha trovato un buon lavoro. La domanda è: "Resterà amico dei poveri?".
D. Perché secondo lei non riusciamo a "vedere l’altro", a rispettarlo e amarlo nella sua diversità. Può farci un esempio?
R. Racconterò un episodio. Per il cinquecentenario della conquista dell’America il mio Vescovo ha organizzato una veglia notturna e ha chiesto a un sacerdote indio di recitare le preghiere. Per tutta la notte lui ha pregato tenendo per mano la moglie. La mattina, siamo andati insieme a prendere il caffè. L’uomo ha parlato a lungo in guaranì. Io non capivo una parola e ho chiesto al vescovo: "Di che sta parlando?". "Di tutto quello che gli è successo da quando ha lasciato la sua tribù", ha risposto il Vescovo. Poi è stata la volta della moglie, che ha parlato per un tempo altrettanto lungo. "E lei cosa sta raccontando?", ho chiesto. "Tutto quello che le è successo da quando ha lasciato la tribù", ha risposto lui. "Ma non ne aveva già parlato il marito?", ho chiesto. "Sì, ma quello che ha visto lei non l’ha visto lui, e viceversa"".
MICRO, MACRO
intervista a Nicola Bullard, che si occupa di creare collegamenti tra le attività di base e le organizzazioni internazionali.
a cura di Jason Nardi
D - Nicola Bullard, come funziona FOCUS, l’organizzazione per la quale lei lavora?
R - FOCUS è una piccola organizzazione, non abbiamo molte persone, e una delle sue attività principali è quella di costruire "network" tra organizzazioni a livello internazionale, regionale e locale. Uno dei maggiori punti di forza del nostro lavoro è quello che chiamiamo i collegamenti "macro-micro", ovvero di creare una connessione tra ciò che viene fatto alla base e a livello della comunità locale, con ciò che accade a livello internazionale. E' quello scambio interattivo di idee ed esperienze tra il dinamismo delle persone che lavorano a livelli internazionali con le vere esperienze e le vere aspirazioni di quelli che agiscono a livello di comunità di base. Pensiamo che ciò dia forza alle nostre analisi e idee concrete di quali alternative possiamo veramente mettere in atto.
D - Ad esempio la campagna per la riforma della Banca Mondiale, che state promuovendo da tempo. Come la analizzate dal punto di vista della "relazione micro-macro"?
R - Siamo basati in Tailandia, dunque gran parte del lavoro che svolgiamo lo facciamo a livello locale come qualsiasi organizzazione basata in Tailandia. Se torniamo indietro di un paio di anni, la Banca Mondiale era diventata un'istituzione molto importante per il finanziamento dello sviluppo in Tailandia, e stavano cominciando ad avere un ruolo determinante nella ristrutturazione dei settori educazione e agricoltura. Gran parte delle organizzazioni locali non avevano mai avuto esperienze di lavoro con la Banca Mondiale, perché erano molti anni che la Banca Mondiale non interveniva visibilmente in Tailandia. Quello che siamo riusciti a fare, insieme ad altri, è stato quello di portare molte esperienze ed informazioni raccolte localmente ad altre organizzazioni internazionali che si occupando di aggiustamenti strutturali, progetti energetici, ecc. attraverso varie reti.
Siamo riusciti a portare queste analisi nelle discussioni di associazioni tailandesi che si domandavano come rispondere a quello che la Banca Mondiale stava facendo nella regione e in particolare in Tailandia. Queste associazioni tailandesi hanno tirato fuori una loro risposta particolare all'interazione e l'impegno con la Banca Mondiale ed in questo modo sono riuscite ad evitare molti problemi e errori che altri gruppi hanno avuto in altri paesi perché hanno capito come funziona l'Istituzione, e come affrontare alcuni rischi che si passano quando si diventa partner della Banca Mondiale.
Posso chiaramente dire che le associazioni tailandesi devono certamente vivere le proprie esperienze e analisi, ma non possono che beneficare dall'apporto di gruppi simili in altri paesi.
D - Nell’intervento fatto al convegno, lei hai spiegato come coloro che promuovono la globalizzazione dei mercati stiano cercando di cambiare la percezione della gente perché considerino il "volto umano" della globalizzazione. E' davvero così?
R - Questa della globalizzazione dal "volto umano" è una reazione alle critiche e alla rabbia che è stata espressa nei confronti dell'impatto estremamente negativo e "anti-sociale" di quel che possiamo in realtà chiamare capitalismo globale, perché è un sistema che dà l'assoluto primato al mercato e al capitale. E' totalmente contraddittorio parlare di una globalizzazione dal volto umano, perché per definizione il mercato e il capitale subordineranno sempre gli interessi delle persone -- la logica del capitale è la produzione di profitto, non di miglioramento dello standard di vita.
D - Cambiare le regole -- come nel caso della riforma della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale o provare a introdurre principi di diritti umani nel Mercato -- sono operazioni di riforma proposte dai goveni: è questa l'alternativa a cui guardiamo o cerchiamo qualcosa di radicalmente diverso?
R - Queste operazioni sono l'equivalente di una sbrigativa decorazione d'interni per rendere più accogliente, "nuova" e interessante una casa a un compratore. Il tipo di riforme proposte sono molto superficiali: sono aggiunte a una cornice che comunque rimane invariata. Le leggi generali dell'economia, i parametri di misurazione dello sviluppo, la teoria del "trickle down", l'idea che il capitale debba avere mobilità assoluta e che il mercato debba essere assolutamente libero: tutti questi elementi basilari del pensiero economico non sono cambiate. Qualsiasi discorso che non metta in discussione tutto ciò è un trucco. Mi sembra una specie di panacea della cattiva coscienza, come dare un'aspirina a una persona che ha il cancro: non risolve il problema -- anzi è un insulto ulteriore perché è il rifiuto di ascoltare la voce della gente. C'è un'incredibile arroganza tra le persone che lavorano in queste istituzioni, come se i leader e i governi sapessero qual è il bene per l'umanità e che quel che ci offrono è la migliore cosa per noi e dobbiamo accettarla così come viene.
torna ad inizio pagina