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toppone.
Antica denominazione popolare del castagnaccio, dolce rustico di farina di castagne; per
traslato sta a indicare persona rozza o sprovveduta.
<Ahò toppone!...> dirà la dama al proprio cavaliere che le ha pestato un piede
durante la danza.
Più raramente si usa l'antica accezione gastronomica con perifrasi ellittiche e
bizantine: <Fatti un cristere di toppone!...> è un invito scherzoso a rinvigorirsi
in previsione di eccezonali prestazioni sessuali. |
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'un ti sai leva' un dito di 'ulo. (it.:
non ti sai levare un dito di culo).
Sapida ed immedita locuzione di palese ed incontrovertibile officina labronica. Non
riteniamo sia necessario dare al lettore alcuna spiegazione sulla sua origine e sul suo
significato ma ne raccomandiamo il fantasioso ed icastico costrutto, mettendone altresì
in luce - ancorchè non ve ne sia bisogno - la fulminante figurazione del concetto di
disutilità, che deriva dall'incapacità del soggetto di togliere il proprio dito
dall'orifizio anale, lasciando peraltro intatto ed irrisolto il complesso di motivazioni
per le quali ci se l'era ficcato dentro.
E' un enigma di etica pirandelliana o un only begetter montaliano quello che
viene proposto da questa espressione così pesantemente ardita na al tempo stesso effimera
come un 'gelsomino notturno'?
<Chi di noi - si chiede con comprensibile angustia esistenziale padre Piombanti - è
disposto infine ad infilarsi un dito in culo per dimostrare che è in grado, poi, di
saperselo levare...?>.
Segnaliamo ai ricercatori e agli studiosi della materia che la locuzione in oggetto si
può ancora udire in casa di mia sorella Argia ogni qual volta si ripresenta la vexata
quaestio dell'intasamento periodico dell'acquaio di cucina; in tale frangente infatti
mio cognato Oreste immancabilmente dice: <...lascia stare Argia, non lo chiamare
l'idraulico, ci penso io a stasà l'acquaio...>; alchè la sullodata, quanto mai
opportunatamente, risponde: <...ma cosa voi stasa' te... 'un ti sai leva' nemmeno un
dito di 'ulo>. |
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vero, per piacere...
Interlocuzione assai frequente nelle conversazione femminile popolare di strettissimo
ambito labronico. Essa si ritrova diffusamente nei testi di Beppe Orlandi che
rappresentando l'espressione più alta dello specifico umoristico livornese nel genere
teatrale e costituiscono traccia permanente all'analisi del comportamento e del costume
livornese in generale; l'interlocuzione possiede sempre valore decisivamente asseverativo
e quasi sentenzioso, accompagnandosi o precedendo affermazioni del tipo: 'e se tu vòi...'
le quali appunto introducono iperboliche vanterie e millantazioni varie.
<Vero, per piacere...> è locuzione che nel dialogo tra le popolane livornesi ha lo
scopo di impedire definitivamente eventuali repliche; viene pronunciata distintamente e
lentamente, con aria di sfida, agitando l'indice in guisa d'ammonizione e si colloca in un
ampio rituale di gestualità, di mimica e di lessico quasi codificabile che comprende
numerose espressioni; trattasi di un vero e proprio manuale di conversazione di cui ci
limitiamo, ad uso del lettore maggiormente avvertito, a citare di seguito alcuni degli
esempi più pregnanti:
<E' lo 'redo...> (it.: lo credo) sta per: <vorrei ben dire...> o <ci
mancerebbe altro...> e viene usata per ribadire dogmi inconfuntabili quali la
solvibilità di un proprio debito dal macellaio o la purezza della figlia da marito.
<Gua' bellino/a...> (it.: guarda bellino/a) sta per <ma chi ti credi essere?>
e viene usata per denunciare atteggiamenti spocchiosi o per ridicolizzare avance
amorose di improbabili pretendenti, tipo il vinaio sotto casa.
<Tò, d'artronde...> (it.: toh, d'altronde...) usata sia con valore sospensivo per
interrompere situazioni imbarazzanti quali l'arrivo di qualcuno di cui si stava
spettegolando, sia per sottolineare il verificarsi di un evento ineluttabile; <Tò
d'artronde, ame 'r pandoro mi piace...> commentò quella sfondata della zia Argia, che,
la sera di Natale del 1959, fetta dopo fetta, ne divorò uno intero da cinque chili
lasciandoci tutti a bocca asciutta. |
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zòtta.
Termine presubilmente onomatopeico, indica grosso escremento animale (vacche e bovini in
generale). Per traslato definisce la persona grezza e ignorante o spregevole. Meno
immediato dei più comuni 'stronzolo' e 'caàta' è però apprezzabile per la sua
sonorità dentale che lo rende particolarmente idoneo negli scambi verbali laddove
occorrono rapide sequenze di insulti.
L'apostrofe 'Maledetta zòtta!> ad esempio, esprime valori fonetici e metrici che vanno
al di là del significato offensivo del lèemma ed equivalgono ad una sorta di feroce
assalto sonoro quali si riscontra solo in certa fregistica greca di Tirtèo e Mimnermo. |
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tratto da: "Il Borsacchini
Universale" di Giorgio Marchetti edizioni Ponte Alle Grazie 1996 |
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