I Pirenei coast to coast

 

Vento dal mare

Marseille, 0607-2015

Scorci di Val Roya si alternavano ad improvvisi vuoti di buio, come in un vecchissimo film con i fotogrammi scorticati dal tempo.

Ho viaggiato in treno con la mia bici, tenendola per mano, abbracciandola anche ogni tanto; lei mi ha lasciato i segni della sua ruota dentata sui polpacci.

Il vento soffia forte dal mare, una nave getta fin qui la sua sirena, come un’ancora ideale che porti fortuna a quella vera.Sollevare l’ancora dal fondo è un po’ come fare una scommessa, chissà dove e quando essa si aggrapperà qualcosa di solido, chissà se il fondo la terrà o se sarà stupidamente sabbioso, chissà se la catena sarà abbastanza lunga. Avere l’ancora sollevata ti fa andare alla deriva spinto dai venti, chi lo sa dove ti portano, non sai neppure se soffieranno. Eppure: ancorati, si sa, è più facile che venga il mal di mare.E poi, diable, hanno inventato le vele apposta.

 

Treno caldo

Marseille - Narbonne, 0707-0825

Scherzavo, vache!

Questa mattina alle sei vento veramente forte sulla linea gare sncf - uberge de la jeunesse. Cinquanta minuti invece di trenta, e ancora un po’ perdo il treno.

Alle nove e quaranta sarò a Narbonne e basta con i mezzi pubblici.

 

Windsurfers

Canet en Roussillon, 0707-1930

Pedalo per quattro ore con quel ventaccio che mi sferza di sabbia la faccia, mi gira di colpo il manubrio, mi respinge indietro, per trovarmi davanti ad un cartellone che dice “Benvenuti nel paradiso dei windsurfers!”.

Decine di crucchi strabuzzano gli occhi dai finestrini dei loro furgoni, e io divento pazzo.

Già la tappa di oggi (credo che si possa definire “prima”) era cominciata male: scoprire che in Francia il verde significa strada statale e il blu autostrada dovrebbe essere fatto leggendo una maledetta guida turistica, non piombando di fronte ad un casello con dietro qualche chilometro di strada a senso unico.

Ok, tutto ciò non è il vero nocciolo, ma ci sto arrivando.Mi ha preso la tristezza. Sconforto, malinconia, depressione, solitudine, quello che volete voi. Qui in tenda un paio di ore fa, dopo la spiaggia, in po’ di cose mi si sono sbattute in testa.

Sarà che il mare non è fatto per stare da soli; o il fatto che avevo appena finito di essere solo al militare. O magari è solo qualche merdosissima ora di sonno persa.

Fatto sta che adesso i Pirenei li vedo lunghi, alti e con il vento contro. E sto pensando già al treno da Biarritz verso casa.

Boh, passerà, e sarà bello.

Domani vado subito in montagna. A Llança in Costa Brava non ci vado, magari è un posto fighissimo e io lo rovino con questa merda di umore.

C’è di bello che ho le mani davvero abbronzate, come un marinaio.

 

Il Meltemi nelle orecchie

Villefranche in Conflent, 0807-1610

Aah. Comincia ad andare meglio.

Le cime, anche quelle basse, tengono più compagnia della risacca; l’aria è più buona; i posti e la gente sono più genuini. E sono solo a cinquecento metri. Devo avere una qualche strana malattia.

Dal mare fino a qui ho fatto sessantatre chilometri, i primi venti dei quali lungo la corsia di emergenza di una inaspettata superstrada. E tutti, uno dopo l’altro, con quel maledettissimo vento che mi ricorda quello, incessante, delle isole greche. A quindici venti chilometri all’ora in piano, e pedalare in discesa, è una tortura.

Villefranche è un paese medioevale, completamente “turisticizzato”, ma in un modo che in Italia devono ancora imparare. Dietro un arco di pietra, uno di quei negozi pieni di cose gialle e blu, con quel profumo di erbe che mi ricorda la casa di zia Rita.

Poco più su questo campeggio carino, tra i monti, con la piscinozza. A pochi metri passa talvolta il treno giallo, con una carrozza senza il tetto, che va a farsi il giro su per i boschi e lungo ponti di pietra sospesi sul vuoto.

 

Lorenzo J.

Villefranche in Conflent, 0807-1745

Ecco, vorrei che questo diario fosse un po’ come “Il grande Boh!” di Jovanotti, senza sconfinare troppo in “Turisti per caso” (ma ogni tanto sì).

Ho letto che questo paese è una delle prime Villefranche d’Europa. Io sapevo solo che Villafranca fosse un nome comune, non sapevo niente delle Villefranche d’Europa. Del resto, ora so solo che esiste questo legame.

Il mio francese va migliorando, ricomincio a non pensare in italiano quando parlo. Però ci sono situazioni, tra le quali non ho mai capito il nesso, in cui mi blocco e, per salvare la faccia, parlo ancora peggio di come ho esordito. “Nessuno nasce imparato” è il mio scudo.

Uscendo dalle mura dalla parte del fiume, c’è da superare un terribile danger de mort: i binari del piccolo treno giallo, sui quali, se metti un piede qui e l’altro qui (l’omino del cartello è precisissimo) muori fulminato. Alla faccia dei vecchi fossati con i coccodrilli!

 

Una classe

Villefranche in Conflent, 0807-1925

Mentre ero in paese, nel campeggio è arrivato un gruppo di venti o trenta ragazzi sui quindici anni, spagnoli. Si sono tutti buttati in piscina, acqua non ce n’è più. I tipi ci sono tutti: il carismatico con gli occhiali, quella carina che mette il due pezzi, quello che fa il diverso, e rimane in disparte vestito e con il walkman, quella che, standogli accanto, si sente un paio di anni in più. In poche parole sono come una classe. Le loro urla rimbalzano sulla parete di roccia ad est.

Anche la mia classe, al liceo, era un misto dei possibili atteggiamenti che un quindicenne può adottare. Io penso che fossi il Simpatico, quello che alla fine non becca mai per intenderci, ma che intanto, lui, semina.

Ah, ah. Adesso i maschi stanno tornando per primi dalla piscina. Non hanno ancora montato le tende (cosa che, ovviamente, le ragazze hanno fatto prima di fare il bagno, prima il dovere poi il piacere), ed ora osservano un cumulo di zaini, sacchi a pelo e pentoloni da campo.

 

En remontant la Têt

Martinet, 0907-1335

Amici ascoltatori buongiorno. Questa mattina la Tramontana ha mancato l’appuntamento quotidiano con il suo ciclista preferito, permettendogli così di guadagnare il Col de la Perche. Il nostro, galvanizzato da tanto successo, alle ore dodici e trentacinque odierne metteva piede per la prima volta nella sua vita in terra spagnola.

Oggi, finalmente, è comparso quel fenomeno fisico per il quale la fatica non è più direttamente proporzionale alle ore sui pedali.

La salita al colle è stata interminabile, trenta chilometri con dislivello “dichiarato” di 1100 metri, ma reale di almeno 1500. La strada, infatti, è un continuo saliscendi, soprattutto all’inizio. Che bello, però, scivolare non più lungo stagnanti canali, ma sospesi a trenta metri sopra il torrente.

Il fiume Têt è lo stesso alla foce del quale ho dormito tra il sette e l’otto, punto di partenza dal Mar Mediterraneo. E’ naturale, se si vuole lasciare il mare per la montagna, risalire un fiume, no?

I fiumi di montagna sono degli déi. Comandano loro, da sempre. I paesi sorgono sulle loro sponde, le strade nuove ed antiche li seguono. E se proprio non si è pignoli le curve di livello non servono più, sulle cartine.

Una signora mi ha appena detto “Hola”. Sono in Spagna, la bandierina attaccata alla bici è felice ora, ma io non parlo una parola di spagnolo.

Ora proseguo per La Seu d’Urgell.

 

Bruciare il tempo

La Seu d’Urgell, 0807-1900

C’è una cosa che, fino ad oggi, ho visto solo gli spagnoli saper fare: far passare il tempo. E’ un’arte. Ed è tutt’altro che facile.

Io ci ho provato. Mi sono seduto su una panca in piazza, tra la gente (turisti pochi), ed ho provato a non fare niente. Neppure leggere, o pensare troppo intensamente a qualcosa. Un po’ ci sono riuscito (forse perché, poco poco, sono stanco). Ma non per molto: Produrre, essere costruttivi, non perdere mai tempo che ce n’è già poco. Magari è proprio così che si perde il tempo: bruciandolo.

Il paese mi è parso morto quando sono arrivato. Più tardi ho capito che prima delle cinque la gente non si muove, e tanto meno i negozi sono aperti. Qui è quasi tutto a livello artigianale. Niente grossi supermercati, niente Monsieur Bricolage on peut compter sur lui, niente catene di negozi di pneumatici. L’Europa Unita è ancora lontana, se basta una giornata di bici per trovare tutti questi cambiamenti. E la gente... Non servo io per sapere quanto sia diversa. L’unico legame con i cugini francesi al di là dei monti è l’orgoglio catalano. Anche i bambini parlano il catalano e, se possibile, lo capisco meno dello spagnolo.

 

L’ombra scivola

La Seu d’Urgell, 1007-1545

Ieri sera sono andato in paese per bere una birra nel dehors di un bar. Poi, camminando per i vicoli, sono stato attratto da una taverna. Una piccola stanza con le pareti in pietra; una, quella al fondo, con incastrati sette o otto barili con il rubinetto, ognuno con dentro un vino diverso.

Ho bevuto un bicchiere di porto seduto al banco. La padrona, l’ostessa, giocava con alcuni vecchi ad un gioco che consisteva nell’indovinare il numero totale delle monete che ciascuno aveva in mano. Vinceva sempre lei.

Intanto io pensavo al pezzo fatto in bici. Niente male, anche se più stancante di quanto sarebbe stato un paio di anni fa. Trenta chilometri di salita, dieci di discesa e cinquanta di piano irregolare. Però che figata veder scivolare la propria ombra, con bici bagagli e tutto, sulla striscia bianca che ogni tanto lampeggia veloce. Salire per i tornantoni assieme a ciclisti “puri” e con la gente che dalle macchine ti dice allez!. Scendere senza dover frenare, a cinquanta costanti, e guardarsi attorno, la valle che scorre via, e incrociare altri cicloviaggiatori, e alzare la mano.

Oggi ho lasciato la tenda qui e sono andato nel Principato di Andorra. E’ una minuscola Svizzera, ovunque ti giri ci sono montagne. Se non vedi montagne vedi vetrine di negozi o centri commerciali. Andorra la Vella è un enorme negozio, in pratica. La roba costa poco perché qui hanno poche tasse, sembra. Code di macchine spagnole risalgono la valle per fare il pieno di benzina a mille lire al litro; i doganieri le controllano una per una, quando tornano, per controllare che non siano imbottite di alcol e sigarette.

Ora me la godo in piscina. Madre de Dios, tra l’una e le cinque ti prende una fiacca micidiale, qualsiasi cosa tu stia facendo. La siesta non è nell’indole degli spagnoli a caso, ma come ogni abitudine è dettata dal clima.

Ho guardato la cartina. Per i prossimi tre o quattro giorni andrò abbastanza alla cieca, perché sulla mia carta le strade piccole non hanno indicazioni sulla pendenza, e non posso neppure guardare i fiumi perché le valli comincio a tagliarle per traverso.

Oggi ho fatto solo quaranta chilometri senza bagagli e ho male alle gambe. Forse ieri ho esagerato un po’. Mi piacerebbe fare tanti chilometri al giorno, ma arrivata l’una il motore s’imballa, il cambio Shimano Light Action scala, l’acqua va via a due litri all’ora.

Penso che me la prenderò comoda.

Oggi, facendo tesoro dei giorni festivi passati a fare la fame, ho pensato a domani: pane a fette (già demolito dall’elastico del portapacchi), marmellata e un altro, orrendo, secondo in lattina. Mi manca solo roba dolce per domattina, e frutta per questa sera.

 

La porta verde

Sort, 1107-1440

Mi piacciono da morire le cose ovvie che però sono comunque bellissime. Una di queste è come, pedalando con in testa l’immagine della cartina, quella strisciolina gialla con i bordini neri diventi asfalto, terra, tornanti, creste, passi di montagna. Qual è l’intaglio sulla cresta dove passerà la strada? Ad ogni curva lo scopro un po’. Bello.

Bello.

Questa mattina sono partito per quella striscia gialla, che taglia due valli senza un’ombra di indicazione altimetrica. Ho caricato la bici, il pacco della tenda un po’ pesante perché ieri sera ha fatto un temporale.

Spingi e spingi, scala e spingi, scala e mettiti in piedi, la strada si è fatta sempre più ripida. Intanto sono uscito dalla nebbia che riempie il fondovalle il mattino presto.

Appena oltre un paesino di quattro case incontro due con due bici tanto cariche che sembrano arrivare dai mercati generali. Sono un uomo ed una donna polacchi, credo che in due superino i novant’anni. Mi raccontano, in un inglese stentato, che sono partiti il venti maggio da casa, e che contano di tornarci per fine agosto. Tutto in bici. Lui mi fa vedere il computerino, segna 2660 chilometri. Ognuno dei due ha forse il doppio dei miei bagagli, che già son tanti.

Ma ce n’è di gente matta, nel mondo, o no?

Alla fine un passo ovviamente c’era, ed era a 1725 metri. Caldo non lo faceva già più.

Qui a Sort sono in un campeggio in riva al torrente. Sport del luogo: il kayak.

Nel torrente gelido adesso ho i piedi immersi, davanti a me c’è l’altra sponda, che sale su dritta per duecento metri di arbusti e rocce. Ho mangiato quello che avevo nel tascapane (Hesse), cioè pane e marmellata, seduto su un tavolo di legno del campeggio, con della musica di un gruppo francese il cui chitarrista non ha niente da invidiare a (oppure: è) quello dei Dire Straits. Affianco avevo un vecchio biliardino, con gli omini di legno con le magliette colorate e le braccia che si muovono.

Ho giocato a pallavolo con degli olandesi, poi loro sono andati alle loro tende, hanno preso ognuno una muta ed una canoa, e se ne sono andati giù lungo la corrente, just for fun. Figata. Anch’io.

Però anche quello che sto facendo io non è male.

Ieri sera ho cambiato libro. Leggevo Cuore di tenebra di Conrad, e se quel libro mi ricapita in mano lo metto tra la ruota ed il parafango. Triste. No, è intelligente, impegnato, ma è terribilmente... afoso. Ora leggo Hesse, e credo che in ogni viaggio bisognerebbe avere con sé un suo libro. E’ un poeta. Sì, lo so che il suo mestiere è noto, ma io lo dicevo come complimento.

Anzi, magari ne trascrivo un pezzo, da Vagabondaggio (1920).

Mi sono appoggiato alla fontana ed ho disegnato la casa, con la porta verde, che è la cosa che mi piace maggiormente, e il campanile dietro. E’ possibile che abbia fatto la porta più verde di com’è e abbia allungato il campanile. L’importante è che in questa casa ho trovato, per un quarto d’ora, patria. Per questa casa parrocchiale che ho visto solo da fuori e nella quale non conosco nessuno, un giorno proverò nostalgia come per un vero e proprio paese natale, come per i luoghi per i quali sono stato fanciullo e felice. Perché anche qui, per un quarto d’ora, sono stato fanciullo e sono stato felice.

 

Catalunya Radiu

Bonansa, 1207-1630

Anche questa è passata. Un’altra ondata di tristezza. Eppure ieri sera ho conosciuto persone simpatiche, ho dormito bene, questa mattina il cielo era sereno. Le strade che ho fatto oggi erano bellissime. Scendendo verso La Pobla de Segur sono passato attraverso gole pazzesche, e fino a qui ho fatto due passi di montagna attraversando paesini. Tutte sorprese, perché questa volta non seguo nessuna guida. Sicuramente mi perdo qualcosa, ma ne vale la pena in cambio del piacere di scoprire, di ragionare ogni sera sul percorso del giorno dopo, di chiedere alla gente del posto come sono le strade.

Oggi, a causa di lavori, ho fatto un po’ di chilometri di sterrato su e giù per le creste. Dopo Sarroca de Perves, dove la strada comincia a salire, poteva tranquillamente trascorrere mezz’ora prima che passasse qualcuno.

L’onda triste arriva nel pomeriggio. Può non comparire per giorni, e può arrivare in una giornata bella come questa. Non devo: rimanere in tenda da solo, a pensare; guardare la cartina per troppo tempo; pensare che quando arriverò all’Oceano non so ancora come tornare a casa. E devo essere contento, perché le gambe cominciano a girare, e perché fa talmente caldo che la pioggia non mi spaventa.

Oggi, lungo la strada deserta, ho pensato di mettere la radiolina sul manubrio, con il filo delle cuffie avvolto al sacco a pelo per fare da antenna. L’altoparlante è minuscolo, ma nel silenzio delle montagne fa una compagnia che non credevo. Solo che Catalunya Radiu, quella che si sente, di mattina fa poca musica. Bè, imparo lo spagnolo.

 

Erba che punge

Bonansa, 1207-1835

Musica classica alla radio. Goccioloni di temporale. Sole che scalda tra due nuvole.

Quanto si scriverebbe se non occorressero carta e penna? Nel senso: quante idee emozioni e ricordi si vorrebbero rileggere tra trent’anni? Alcuni pensano che sia utile andare in giro con un registratorino portatile. Parlare anziché scrivere. Un po’ più veloce, ma mai abbastanza. Del resto, una vita che vale la pena di essere scritta lascia il tempo per farlo, con calma.

Io questo viaggio me lo ricorderò. Non lo dimenticherò mai. Come non dimenticherò mai me stesso in quel rifugio sulle Alpi francesi, seduto sulla finestra aperta nella spessa parete di pietra, a guardare il temporale mangiando pane e toma fatti entrambi a poche centinaia di metri da lì.

Nella vita bisognerebbe fare solamente cose che non si dimenticheranno mai.

Sono seduto per terra davanti alla mia tenda, pelle contro erba che punge. Stavo per leggere Hesse, per ricevere ancora un po’ di quel meraviglioso spirito, quel modo bellissimo di prendere la vita. Anziché leggerlo, per un minuto, ho preferito scriverlo.

Penso di continuo a Knulp, di continuo rivedo il viaggiatore di Pellegrinaggio d’autunno. Quando mi fermo per mangiare, quando alle mie spalle vedo le valli dove ho dormito confondersi nella foschia, quando mi piace osservare le persone. Quando sono viandante in mezzo a tanta gente che resta.

Forse sono dell’umore adatto. Solitudine ed autocompiacimento che si fronteggiano.

Allora io vieto Hesse a chi non sta viaggiando.

 

Nubi sul monte Perdido

Boltaña, 1307-1810

E’ capitato solo a me?

Guardo l’orologio, e il numero dei secondi mi sembra che non cambi; si può fermare un orologio digitale? Ma poi riparte, e scatta al ritmo giusto. Secondo me l’orologio era fermo, da quando ho smesso di guardarlo per l’ultima volta. Tanto lui sa esattamente quando lo guarderò di nuovo. E magari anche gli uccelli rimangono immobili in cielo, se non li guardo.

E’ inutile fare quella faccia. E’ una cosa che non puoi sapere.

Oggi ho attraversato la Sierra Ferrera, e l’ho fatto alle due, dopo ottanta chilometri e tre passi. Un caldo bestia, lungo la strada dritta che fiancheggiava il muraglione di roccia striata da fioriture gialle, alto cinquecento metri. A Campo ho chiesto informazioni riguardo la strada ad un chiosco di IfoTour, dove c’era una ragazza che sarebbe stata carina se non avesse avuto la barba. No, non un’ombra di peluria, ma: la barba. Per il resto non c’erano dubbi sul suo sesso.

Qui a Boltaña sono arrivato mentre tra la terra ed il sole si era messo uno strato nero d’acqua. E’ venuto giù un minuto dopo che mi ero infilato sotto la tettoia del bar del campeggio.

Davanti a me, sopra il monte Perdido, altri colossi di vapore acqueo si creano e si dissolvono.

In questo posto ci sono persone simpatiche, una in particolare. Questa sera, come ieri, mangerò al ristorante, perché un ambiente accogliente ed un po’ di compagnia sono quello che ci vuole per trovare il giusto equilibrio con le sei ore in bici tra le montagne silenziose e solitarie.

Knulp, intanto, è morto.

Ogni tanto, pedalando, guardo la fossetta che si forma sopra la rotula, tra i due tendini inferiori del quadricipite femorale (!), e certe volte la tocco. Osservandomi così, da fuori, sento meno la fatica, e mi guardo come in un bellissimo film, come in Forrest Gump quando corre nei più bei paesaggi degli States.

E’ bello quando smette di piovere ed esce il sole. Ma perché smetta, bisogna che piova. E’ così in tutto, credo, e capire il senso di questo significa vivere sereni.

 

Paese fantasma

Jaca, 1407-1835

Ho veramente poca voglia di scrivere.

Dirò che ieri sera avevo deciso che il tempo avrebbe scelto per me se fermarmi o no a Boltaña (decisione richiesta da una certa situazione), e oggi è stata la giornata più soleggiata del viaggio.

Dirò che l’ostello qui c’è, l’ho trovato dopo due ore, e apre alle sette.

Dirò anche che domani voglio arrivare fino a Pamplona, con il permesso di Eolo.

Dirò che oggi mi sento solo come un cane, e credo che sarà l’ultimo viaggio da solo, questo.

 

Deserto di erba secca

Pamplona, 1507-1535

Hombre, sapevo che sarebbe stata dura, ma non così.

I primi ottanta chilometri (spettacolari, tra altopiani che non pensavo esistessero in Europa, lungo il lago di Yesa, azzurrissimo) mi hanno sfiancato. Il dislivello di meno quattrocento metri si è subito trasformato in un saliscendi micidiale.

All’una e mezza mi fermo ogni chilometro; il sole proietta ombre verticali sulla base dei pochi alberi; il vento, ormai da tre ore, spara raffiche contro che mi fermano quasi ogni volta. A completare il tutto, per la seconda volta, mi succede di perdere un attimo l’equilibrio, come per un giramento di testa.

Ad ogni mezzo abbastanza grosso che passa mostro il pollice. Ma ci sono: macchine; camion frigoriferi; furgoni straripanti bagagli. Come una presa in giro, un furgone vuoto sfreccia veloce nell’altra direzione.

Mi siedo per terra. Tolgo dal casco la maglietta bianca che avevo legato come parasole, me la metto addosso. Un furgone bianco accosta, si ferma. E’ vuoto. E’ lo stesso di prima: ha girato, e tornerà a Pamplona, da dove veniva, per me. Chissà che bell’aspetto dovevo avere, proprio il ritratto della salute.

A vederli dal finestrino, quei trentacinque chilometri, mi chiedo come potessi credere di farcela, mi chiedo come diavolo avessi fatto tutti quelli prima. Attraversiamo un deserto di erba secca, lungo la strada diritta che sale e scende, l’asfalto allagato dai miraggi, gli alberi piegati dal vento verso est.

 

Pamplona dormiva

St. Jean de Luz, 1607-1300

L'ho fregato. Alle sette ero già partito. Il vento, come Pamplona, dormiva e io già cercavo la strada N-121a per l’Oceano.

Il cielo è nuvoloso. In particolare dopo il colle si accumula il grosso delle nuvole, e durante la discesa trovo infatti della pioggerellina. La strada è bellissima. Dopo il deserto di ieri, questa lunghissima serpentina tra i boschi scorre via veloce, quando mi accorgo che ho già fatto settanta chilometri quasi non ci credo.

Ogni tanto trovo una minuscola centrale idroelettrica; essa accoglie la condotta forzata che scende dal fianco destro della valle, da ciò che rimane della catena pirenaica. Cento odori riempiono l’aria umida: il fieno bagnato dei covoni, l’odore di fungo del bosco, la pietra spaccata delle cave, e... questo?

Questo è sale.

Questa è l’aria del mare, quella appiccicosa e un po’ calda, lì dietro finisce la valle e c’è la foce del torrente.

Sale al sale si aggiunge quando un’idea di lacrima trema nel vento sotto gli occhiali a specchio. A tanto sono arrivato. Tanto in alto quanto in basso è stato sbalzato il mio umore da questi giorni che da fuori possono forse sembrare poca cosa, ma che in realtà sono una delle boe della mia vita.

Tanto ho riso ed ho pianto, che sono arrivato all’Oceano.

 

 

Fotografie dentro

St. Jean de luz - Nice, 1607-1900

Mezzogiorno. Salita al colle. Rapporto più corto, pedalo seduto con il sole forte che mi abbrustolisce la schiena, grondo sudore. Alla radio rock spagnolo. Nel cielo senza una nuvola tre o quattro rapaci prendono quota con me, in ampi cerchi. Le gambe, che dovrebbero essere stanche dopo tante ore, invece si divertono e schiacciano, e sentire i muscoli tendere da dentro la pelle è come premere il pedale dell’acceleratore e sentire il motore vibrare sul volante. Nelle cosce un formicolio misto di bruciore di sole, acido lattico e adrenalina.I tornanti scavalcano le creste, il paesaggio è sempre più brullo, gli alberi si diradano. Il vento soffia più forte e più freddo.

Discesa dal colle. Il casco e gli occhiali premuti dall’aria. Tutto il peso del corpo sui pedali, sollevato dal sellino di qualche centimetro, volo in picchiata mentre la bici ondeggia seguendo le irregolarità dell’asfalto. A volte canto. Un colpo di freno solo appena prima dei tornanti; subito dopo pedalo forte per riprendere velocità e muovere le gambe indurite. I sensi sono apertissimi, a tratti vedo tutta la valle sotto, tutta la strada che mi sto mangiando. CANNIBAL - why do you ride?

La tenda è montata. La bici, vicino al torrente, è legata ad un albero. Io sono seduto sull’erba, a qualche decina di metri dalla piscina del campeggio, e sorseggio con calma una birra. Sulle montagne si alternano nubi scure e squarci blu, forse questa notte pioverà e domattina il sole solleverà foschia dal bosco. Mettete un uomo in condizione di aver fortemente bisogno di una doccia e di una birra, ed egli vi ringrazierà con tutto il cuore per queste due semplici cose. E si sarà riconciliato con il mondo solamente per averle ottenute.

Il sole delle sette comincia ad illuminare le cime degli alberi anche qui, in valle. Fa freddo. Seduto nella tenda, con i piedi fuori, mangio il pane dolce che ho comprato ieri. Ogni tanto osservo il cielo; l’ultima stella si è spenta, non c’è una nuvola. La bici e là dietro, mi aspetta ricoperta di rugiada. Ho fatto sogni bellissimi che non ricordo.

A Jaca non ero sereno. Io adesso so che questo non è stato l’ultimo viaggio da solo.

Non ci sarà mai un ultimo viaggio.

 

Erik Amedeo Viotti