"Dora Markus" |
La prima parte del componimento risale al 1926; «alla distanza di 13 anni - e si sente - le ho dato una conclusione, se non un centro» (Montale). Diverse sono anche la forma metrica e la misura dei versi, più lunghi nella prima parte (molti sono endecasillabi), più brevi nella seconda (ottonari e novenari). Nella seconda parte l'inesistente Dora Markus verrà identificata con Gerti, una ragazza ebrea amica del poeta. Parte I Fu dove il ponte di legno mette a Porto Corsini sul mare alto e rari uomini, quasi immoti, affondano o salpano le reti. Con un segno della mano additavi all'altra sponda invisibile la tua patria vera. Poi seguimmo il canale fino alla darsena della città, lucida di fuliggine, nella bassura dove s'affondava una primavera inerte, senza memoria. E qui dove un'antica vita si screzia in una dolce ansietà d'Oriente, le tue parole iridavano come le scaglie della triglia moribonda. La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose: è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare, e i suoi riposi sono anche più rari. Non so come stremata tu resisti in questo lago d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu tieni vicino alla matita delle labbra, al piumino, alla lima: un topo bianco, d'avorio; e così esisti! Parte II Ormai nella tua Carinzia di mirti fioriti e di stagni, china sul bordo sorvegli la carpa che timida abbocca o segui sui tigli, tra gl'irti pinnacoli le accensioni del vespro e nell'acque un avvampo di tende da scali e pensioni. La sera che si protende sull'umida conca non porta col palpito dei motori che gemiti d'oche e un interno di nivee maioliche dice allo specchio annerito che ti vide diversa una storia di errori imperturbati e la incide dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora! Ma è scritta già in quegli sguardi di uomini che hanno fedine altere e deboli in grandi ritratti d'oro e ritorna ad ogni accordo che esprime l'armonica guasta nell'ora che abbuia, sempre più tardi.
E’ scritta là. Il sempreverde alloro per la cucina resiste, la voce non muta, Ravenna è lontana, distilla veleno una fede feroce . Che vuole da te? Non si cede voce, leggenda o destino... Ma è tardi, sempre più tardi. ANALISI DEL TESTO
Avvio descrittivo e narrativo: E' tra i componimenti più discorsivi di Montale, ma anche, nello stesso tempo, uno dei più enigmatici e cifrati. La cadenza rappresentativa, avviata dalla precisa indicazione topografica («Fu dove ... »), si distende in gesti descrittivi («additavi») e in progressione narrativa (« Poi seguimmo »), per allargarsi, infine, a più ampi orizzonti paesaggistici (v. 29: « Ormai nella tua Carinzia»). Al dilatarsi del paesaggio corrisponde l'approfondirsi della dimensione storica, le cui allusioni gravano come un'oscura minaccia nella seconda parte del testo, scritta non a caso allo scoppio della guerra. L’esistenza e la storia: Al «male di vivere» (cfr. T145), inteso dapprima in senso prevalentemente esistenziale, comincia adesso a sovrapporsi il male della storia, come sintesi di quella «bufera» che darà il titolo alla terza raccolta montaliana (cfr., in particolare, l'analisi del T153). L’atmosfera di incombente solitudine: Il primo tempo della vicenda è segnato dall'assenza della «patria vera», lontana e «invisibile » (v. 6), mentre il paesaggio ravennate, in cui si inquadrano la donna e il poeta, appare caratterizzato da una soffocante solitudine: i « rari uomini » (v. 3), la loro immobilità (« quasi immoti»), e poi l'inerzia della stagione (v. 10: «una primavera inerte»), quasi priva di vita (identificata spesso da Montale con la «memoria»). Nella «bassura» del paesaggio l'atmosfera sembra trascinata verso il basso, con un senso di pesantezza materiale e morale, ribadita dalla ripresa « affondano »/« s'affondava », in posizione forte, alla fine dei vv. 3 e g. Nel primo caso il verbo presenta un'antitesi formale con la parola che chiude il verso precedente (<<alto>>), lasciando trasparire una presenza di contraddizioni che si rivela anche nell'ossimoro della città «lucida di fuliggine» (v. 8). Corrispondenze emblematiche: Fin d'ora, a partire dalle notazioni paesaggistiche, il discorso tende a organizzarsi in un sistema di corrispondenze emblematiche, che ne dilatano i significati, dal piano fenomenico a quello esistenziale e metafisico. La «tua vera patria» non coincide solo con la «tua Carinzia», come verrà precisato nel verso iniziale della seconda parte; essa indica anche un'idea più alta e generale di Patria, come ricongiungimento definitivo dell'individuo con le ragioni del proprio essere più profondo, l'aspirazione ad una autentica identità e integrità. Dal contingente all’assoluto: L'«altra sponda / invisibile» (il nesso è sottolineato dall'enjambement) diventa allora un elemento di passaggio tra l'apparenza e la realtà, tra la contingente precarietà e le speranze di una definitiva certezza, non diversamente dal «varco» del T152, La casa dei doganieri, al v. 19 (si aggiunga che il sintagma «altra sponda» contiene un riferimento a Dante, Inferno, III, v. 86, «altra riva»). L’estraneità dell’individuo: Il nesso in posizione forte, che conclude la prima strofa («senza memoria »), vive anche nell'antitesi concettuale con la chiusa del verso successivo (<<un'antica vita>>), a sottolineare l'estraneità dell'individuo nei confronti del passato e della storia. O, per meglio dire, le convergenze non mancano, ma restano apparenti e superficiali: lo " screziarsi " dell'atmosfera ravennate (con implicito riferimento ai mosaici e alla grande arte bizantina) già sembra incrinarsi «in una dolce / ansietà» (quasi un ossimoro, ai vv. 12-13, ancora in enjámbement); ad esso corrisponde - anche sul piano semantico - l"iridarsi" delle «parole» di Dora, la cui mobile brillantezza si identifica tuttavia - con un nuovo movimento per antitesi - con «le scaglie / della triglia moribonda» (vv. 14-15), simbolo della morte che si nasconde dietro le apparenze anche più splendide della vita. La violenza delle contraddizioni: Dedicata interamente alla protagonista, la terza strofa mette a nudo contraddizioni dolorose e violente, dietro le finzioni e i tentativi di difesa. L'« irrequietudine » di Dora (il sostantivo è preparato dal precedente «ansietà») è tradotta, nei termini di un più violento ed esacerbato contrasto, dallo sfracellarsi degli «uccelli di passo» (ancora il consueto ricorso ad una analogia di tipo animale), che, sbattuti dalla tempesta, si schiacciano contro i «fari» (simboli ingannevoli di luce). L’ossimoro: La cifra di questa condizione esistenziale è costituita dall'ossimoro, se è vero che, articolando la catena delle correlazioni, la «tempesta» coincide con la «dolcezza» (v. 19), esteriore riparo di un'intima lacerazione, apparenza di una calma che invece non dà tregua. L’”inferno” interiore e l’indifferenza: La fatica di vivere e la sofferenza trovano la loro sintesi risolutiva «in questo lago / d'indifferenza ch'è il tuo cuore» (vv. 23-24), sublimazione e cristallizzazione di un "inferno" interiore che trova conferma nel riferimento dantesco (con implicita allusione a una situazione di angoscioso terrore, come nel «lago del cor» dell'Inferno, I, v. 20). Il dilatarsi della specificazione («d'indifferenza») introduce a una tematica tipicamente montaliana, legata all'atteggiamento del soggetto di fronte al «male di vivere» (cfr. il T145, Spesso il male di vivere ho incontrato); l'incertezza dell'ipotesi («forse ») è affidata, come in altri luoghi della poesia di Montale, a un «amuleto», oggetto simbolico di una forma di religione oscura e superstiziosa, che, pur ignorando l'esistenza di uno scopo ben definito, sembra costituire l'ultimo legame fra l'uomo e le cose, il solo azzardo ancora consentito di esistenza (si noti lo stupore della frase conclusiva, al v. 28: « e così esisti! »), capace di trattenere l'individuo al di qua della morte e del nulla. Il talismano, oggetto concreto mescolato alle cose più comuni (qui il necessario per il trucco), è costituito per lo più dall'emblema di un animale, ai cui poteri magico-rituali è affidato il muto e disperato compito di proteggere l'uomo, allontanando da lui i mali che lo sovrastano: nella Ballata scritta in una clinica, compresa nella raccolta successiva, La bufera, la moglie ricoverata in ospedale, a Firenze, nei giorni cruenti della lotta contro i nazisti, mette « sul comodino / il bulldog di legno», insieme con «la sveglia», per esorcizzare e tenere lontano «il nulla che basta a chi vuole / forzare la porta stretta». Il ritorno: Nella seconda parte il viaggio è finalmente compiuto, e Dora ha potuto raggiungere la «sua patria vera», la «sua Carinzia». Ma il ritorno non le ha portato né pace né consolazione. La donna è raffigurata in un paesaggio familiare e sereno, quasi idillico, fra cose comuni e occupazioni felici. Ma il restringersi delle prospettive all'interno domestico non conduce a una riappropriazione di sé. La distanza del passato: Una crudele estraneità avvolge Dora anche fra le pareti della casa, dove gli oggetti sottolineano e quasi riflettono l'irrimediabile distanza rispetto alla felicità del passato (« ti vide / diversa »), offuscandone i contorni: lo « specchio » è « annerito », in quanto Dora non riesce più a ravvisare se stessa. Per antitesi le «nivee maioliche» (v. 41), fredde e imperturbabili (con trasferimento delle loro qualità al participio «imperturbati », v. 44), narrano una dolorosa « storia di errori », quasi il fallimento di tanti progetti esistenziali, dì cui resta la traccia indelebile; I"incisione" ha infatti una durezza di tratto che nessuna «spugna» - il tentativo di abolire il ricordo ingrato degli «errori» - riesce a cancellare (il luogo «dove la spugna non giunge» è ovviamente l'animo piagato di Dora). Dalla storia individuale a quella collettiva: Lo sconvolgimento, provocato da un elemento estraneo e meccanico, dissonante (il «palpito dei motori»), si associa al verso lamentoso delle oche e si propone come sintomo di un'alterazione più radicale e profonda. Le persecuzioni naziste contro gli ebrei: La storia della donna (v. 46: «La tua leggenda, Dora!») sta per confondersi ed essere travolta in quella della collettività. Il suo destino è segnato e l'esistenza futura è già contenuta (v. 47: «è scritta») nel passato e nel presente: quello delle persecuzioni naziste contro il popolo ebraico, al quale Dora appartiene. Non c'è più posto per la fede in una possibile salvezza o rinascita; una «fede feroce» (v. 58), portatrice naziste di odio e di morte («distilla 1 veleno»), ne ha decretato la condanna. Nell'apparente immobilità delle cose (cfr. vv. 54-56, introdotti dalla ripresa «E’ scritta là»), dove ancora balena l'immagine remota e perduta dei ricordi («Ravenna è lontana»), l'attesa del presente ha l'incrinatura di un «accordo » stonato, spezzato, mentre sta per calare il buio delle tenebre.La condanna ed il buio: Il tempo, «nell'ora/che abbuia » (vv. 52-53), si sta chiudendo e oscura ogni speranza («sempre più tardi», ripreso, come suggello epigrafico, dal verso finale: « Ma è tardi, sempre più tardi»), mentre sta per svanire nel nulla. La sopravvivenza della storia di Dora: Ma permane la testimonianza dell'estraneità di Dora nei confronti dei carnefici, che non possono cancellare la sua «voce, leggenda o destino ... » (v. 60); il ricordo resta affidato alla forza inerme della poesia, che ha saputo trascriverne la storia, elevandola a simbolo di una vicenda attraversata dall'intera umanità. |