Campioni d’Italia

Francesco Delfino

4. La strage nera

Nella notte tra il 18 e il 19 maggio esplode in piazza Mercato a Brescia un ragazzino neofascista, Silvio Ferrari, a cavallo di una Vespa che trasportava una carica di tritolo. La fidanzata di Ferrari è una bella ragazza diciassettenne, Ombretta Giacomazzi. Molti anni dopo, Ombretta sposerà Carlo Soffiantini, uno dei figli dell’industriale sequestrato. Oggi Giordano, fratello di Carlo, ha dichiarato: «Delfino, quando era capitano, aveva indotto Ombretta a testimoniare il falso, dopo averla arrestata». Ma il culmine di quel tremendo 1974, anno di stragi, d’intrighi e di colpi di Stato minacciati, è il 28 maggio: in piazza della Loggia, a Brescia, esplode una bomba che fa otto morti e 94 feriti. Delfino porta ai giudici, che per la strage stanno seguendo la pista dei fascisti milanesi, un colpevole bresciano, Ermanno Buzzi. È Ugo Bonati, un uomo della banda di Buzzi, ad accusare quella strana figura di fascista e trafficante d’arte.

Bonati, poi, scompare e ancor oggi non si sa che fine abbia fatto. Buzzi è ucciso da suoi camerati nel carcere di Novara, strangolato con le stringhe delle scarpe. E la strage di Brescia è restata senza colpevoli. Il senatore Giovanni Pellegrino scrive nella sua proposta di relazione alla Commissione parlamentare sulle stragi: «Lascia adito a fortissime perplessità la circostanza che il capitano Delfino imprima all’inchiesta su piazza della Loggia una direzione che si è rivelata improduttiva, indirizzandola verso lo sgangherato ed eterogeneo gruppo che ruotava attorno a Ermanno Buzzi. Dall’altro lato, avviene che l’inchiesta sul Mar non raggiunga quel grado di approfondimento che avrebbe potuto consentire il disvelamento del contesto eversivo in cui la strage bresciana può oggi affermarsi inserita».

Oggi è possibile sapere qualcosa di più del capitano Delfino, il carabiniere che arrestava i «neri»: secondo alcuni testimoni, era un «nero» egli stesso, invischiato nel grande gioco dell’eversione degli anni Settanta. O meglio: era un uomo dello Stato che, all’occorrenza, si faceva passare per «nero» e usava spregiudicatamente i «camerati» per la sporca guerra senza esclusione di colpi che si stava combattendo. Racconta Carmine Dominici, ferroviere, ’ndranghetaro politicizzato, neofascista di Avanguardia Nazionale (al giudice di Milano Guido Salvini, verbale del 29 settembre 1994): «So che esisteva un ufficiale dei Carabinieri che curava il  trasporto di timer ed esplosivi verso il nostro ambiente avanguardista calabrese. Non so il nome, ma so per certo che un ufficiale dei Carabinieri a cognome Delfino, appartenente a una Loggia massonica, era legato ad Avanguardia Nazionale. Era considerato “dei nostri”. Specifico che con la parola “nostri” indicavamo coloro che anche operativamente operavano con Avanguardia, a differenza della parola “vicini” con la quale indicavamo coloro che davano appoggio, ma senza partecipare a fasi operative; tra questi ricordo il Miceli e il Birindelli».

Perché Avanguardia Nazionale aveva stretto contatti con Delfino? Perché, risponde Dominici a Salvini nel 1994, «erano notori i legami di Delfino con la criminalità organizzata e quindi era da considerare interlocutore di adeguato livello». Ne risulta un bel mix di eversione e criminalità, di «neri» e di mafiosi, in cui gli uomini dello Stato, di alcuni apparati segreti dello Stato, giocano un gioco pericoloso. Delfino in quegli apparati è dentro fino al collo: è lui, dicono oggi i magistrati di Roma, quel «capitano Palinuro» che nel giugno 1973 partecipa a una cruciale riunione a Milano, nella zona della Galleria Vittorio Emanuele, per mettere a punto i piani del Golpe Borghese. Erano presenti, oltre a «Palinuro», tutte le componenti politiche e militari del piano, il colonnello Amos Spiazzi, i finanziatori genovesi De Marchi e Lercari (amministratore della Piaggio), un capo di Ordine Nuovo rimasto sconosciuto.

È Delfino, ribadiscono oggi le carte processuali, quel «capitano Palinuro» che forniva alle Sam armi ed esplosivi (tra cui gelignite). Maestro del doppio gioco: «Palinuro» dava armi ai camerati, Delfino poi, quando conveniva, li arrestava (come aveva fatto con Borromeo e Spedini). Sempre nel 1974, tramontato il progetto golpista, aveva portato in carcere anche Adamo Degli Occhi, l’avvocato milanese leader della Maggioranza Silenziosa, movimento d’opinione con il compito di sostenere le azioni dei golpisti. Secondo i documenti trasmessi a Roma dal giudice Salvini, Delfino sarebbe uno degli ufficiali italiani più vicini alla Cia, il servizio segreto degli Stati Uniti: e fin dai primi anni Settanta. Lui, davanti alla Commissione stragi riunita in seduta segreta, nega: «Vengo continuamente pedinato, io, dalla Cia. E ho dovuto lasciare gli Stati Uniti, forse perché ho toccato qualcosa che non dovevo toccare».

Eppure il neofascista Biagio Pitarresi (quello che ha raccontato lo stupro «di Stato» ai danni di Franca Rame) parlò di Delfino con Carlo Rocchi, uomo della Cia a Milano: «Rocchi mi disse che mi avrebbe portato a conoscere il generale Delfino, che era “uno dei loro”, ossia persona legata ai servizi statunitensi, e che avrebbe dovuto provvedere alla mia copertura dopo l’esecuzione dell’attentato». Quale attentato? Quello che era in preparazione nei confronti del procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, coordinatore del pool Mani pulite, e che fu davvero tentato (ma sventato per la prontezza di un uomo della scorta) il 14 aprile 1995.
(4.continua)